Cimitero di Cadè (Roncoferraro - MN) |
Chi crede nel Figlio ha la vita eterna
e io lo risusciterò nell'ultimo giorno.
In quel tempo, Gesù disse alla folla:
«Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.
E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno.
Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno». Parola del Signore.
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Era una Domenica mattina d’inizio primavera,
quando il sole e l’aria frizzante di Roma sanno regalarti una giornata così
tersa, che tutta la realtà ne sembra contagiata. Perfino nell’anima ti senti più
luminoso e definito, come se per incanto si fossero dissolti per sempre dubbi,
incertezze e tutte quelle indeterminatezze che fanno apparire la vita sfuocata,
confusa. Suona il telefono. Una chiamata. Scendo in reparto, dove incontro una
signora matura, che assiste la mamma molto anziana, in coma, ricoverata nella
notte. La diagnosi parla di emorragia cerebrale senza molte speranze di
recupero. La saluto e mi presento. Mi parla della madre, della sua religiosità
e mi chiede di celebrare per lei i Sacramenti. La invito ad unirsi a me nella
preghiera. Accetta, con malcelato disagio. Al termine, commossa si avvicina e
mi ringrazia, dicendo: “Avevo tanta paura
di questo momento! Lei mi è stato molto d’aiuto. Nessuno c’insegna più a vivere
la morte dei nostri cari e la nostra morte”.
Alla
morte bisogna prepararsi. E c’è tutta una vita per farlo. Non è necessario
tenere un teschio sul comodino, o frequentare quotidianamente il cimitero. E’ sufficiente
non fuggirla tutte le volte che incrocia la nostra strada, più o meno
direttamente. Altrimenti succede quello che ho sentito ad alcuni funerali a cui
ho partecipato. Il celebrante ha iniziato l’omelia dicendo: “La Chiesa non celebra la morte!”, quando
davanti a sé aveva la bara di una giovane donna morta di cancro e lì accanto il
marito e i figli, poco più che adolescenti, affranti dal dolore. Un’altra volta
il defunto era un giovane di neanche trent’anni e il prete, sceso dal
presbiterio fin davanti al banco dei familiari per esprimere vicinanza, ha poi
di fatto subito contraddetto questo suo atteggiamento invitandoli ad immaginare
di trovarsi in montagna, davanti ad un bellissimo tramonto, …
Al
di là della retorica d’occasione più o meno opportuna, certe affermazioni rivelano
inequivocabilmente il disagio di trovarsi di fronte alla morte. In entrambi i casi si è trattato di un
tentativo maldestro di esorcizzare la paura della morte che avevano quei preti,
fuggendo da essa. Non è poi così raro incontrare sacerdoti, anche alti prelati, a disagio davanti a questo
evento. Con la morte non si scherza e non si può improvvisare.
La perdita delle persone care crea un vuoto
incolmabile che non di rado rimane tale per tutta la vita. Penso per esempio all’esperienza
innaturale di genitori che perdono un figlio, oppure viceversa, un figlio che
rimane orfano in tenera età. Ma nella morte è difficile fare delle graduatorie.
Anche la perdita di un ultraottuagenario può trasformare tutta la vita in una
tragedia.
Il dramma della morte ci coinvolge oltre ogni
speranza, fin quasi a trascinarci dentro l'abisso della perdizione. L’incontro-scontro
con la morte mette in discussione tutta la nostra vita tutta. Diventa un banco
di prova per tutto ciò in cui crediamo, fede compresa. Da qui la domanda:
perché tutto questo? che interpella inevitabilmente
la dimensione religiosa della nostra vita, con l’insorgere del risentimento e
della ribellione nei confronti di Dio, in quanto primo e ultimo responsabile
impassibile di questo evento.
Del resto questa drammaticità angosciante non è altro
che l’altra faccia della medaglia del nostro peccato, la sua conseguenza. Lo
dice chiaramente San Paolo nella lettera ai Romani “a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il
peccato, la morte” (5,12). Nel dramma della morte noi sperimentiamo quello
che Dio ha provato e prova davanti al nostro peccato. Ecco perché Dio si è
immerso dentro la morte, attraverso la croce di suo Figlio, Gesù. Con nostra
grande sorpresa, dentro questo abisso che sembra annullarci, incontreremo Colui
che mai avremmo pensato di trovare in quel “non-luogo”, il nostro Creatore e Redentore.
Il paradosso per eccellenza della fede cristiana. Superato il risentimento per
la perdita dei nostri cari, sarà importante fermarsi davanti a crocefisso e
chiedersi perché Dio ha voluto morire in croce per salvarci?
Per la nostra società, impregnata e inebriata dal
falso mito dell’eterna giovinezza, in sostituzione della Speranza eterna, la
morte e il morire rimangono sempre e comunque un tragico dramma da rimuovere e
allontanare il più possibile. Paradossalmente anche la crescente domanda di eutanasia è una conseguenza di questo
modo di pensare. Nel tentativo di risolvere questo dramma, assolutamente
inconciliabile con il resto della vita, si è fatta strada una concezione della
morte come evento naturale, in sintonia con un certo diffuso naturalismo
neopagano, secondo cui tutto ciò che è "naturale"
è buono. Come se la vita di un uomo avesse lo stesso valore di una
foglia che ingiallisce e cade per terra. Un tentativo poco riuscito di
riconciliarsi con la morte e di renderla più accettabile, o comunque di
soffrirla di meno.
Gesù parla ripetutamente ai discepoli della
propria morte, preparando se stesso e loro a questo evento. A un certo punto
della sua vita decide di affrontarla senza tentennamenti, allo stesso modo come si affrontano le scelte, le
decisioni e tutti gli altri avvenimenti importanti della propria esistenza: "
Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato
elevato in alto, egli prese la
ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme" (Lc 9,5 1). Come per Gesù, per noi cristiani la morte è
un evento storico. Rientra nel numero di tutti quegli eventi attraverso i
quali ciascuno di noi, di volta in volta, si auto definisce. Nella morte ciascuno determina se stesso in modo
definitivo, come in nessun altro evento della propria vita. Soprattutto nel proprio
rapporto e incontro con Dio. Ecco
perché va vissuta il più possibile nella piena consapevolezza, preparandosi con responsabilità, come il momento più importante e decisivo della
nostra stessa vita.
Forti di quella Speranza che non delude (Rm 5,5), affronteremo la “nera signora”
senza paura. Essa diventerà, come la chiama San Francesco nel Cantico delle creature, la “nostra
sorella morte corporale”, perché soltanto attraverso di essa superiamo
definitivamente la precarietà della nostra condizione umana ed entriamo in
possesso totalmente della nostra dimensione divina ed eterna.
don Marco Belladelli
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