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70. Buon Natale!

La bella tradizione di scambiarci gli auguri in occasione delle feste natalizie è un modo semplice e concreto per condividere la Speranza propria di questi giorni. Fissando lo sguardo sulla grotta di Betlemme, comprendiamo come non mai quanto Dio sia vicino a noi. Lui, l’unico che non fa preferenze di persone, è venuto per tutti. E’ bello cercare d’imitarlo, provando a raggiungere il maggior numero di amici e conoscenti possibile per non escludere nessuno dalla gioia di sentirsi partecipi del mistero della nascita di Gesù Bambino. A tutt’oggi abbiamo già stretto tante mani e molte altre ancora ne stringeremo concretamente e idealmente per dire: “Buon Natale!” e “Buon Anno!”. Quelli più attenti al politicamente corretto preferiscono espressioni più generiche come “Auguri!” oppure “Buone Feste!”. Non si sa mai di produrre l’effetto contrario. Le persone più care invece le abbracciamo. Una volta per farsi gli auguri si scrivevano tante cartoline e biglietti impreziositi dalla porporina. Cose d’altri tempi, ormai quasi del tutto scomparse dalla circolazione. Nell’era virtuale sono stati sostituiti dalle mail, dalle cartoline virtuali, dagli SMS e pure gli MMS. Molti di questi auguri si limitano alle sintetiche formule di circostanza. Altri invece si sbizzarriscono unendovi messaggi seriosi e solenni, oppure citando realtà e valori generalmente ritenuti importanti per una vita felice, come per esempio la pace del mondo, la famiglia, la solidarietà universale, la salute, la buona sorte, l’amore, l’amicizia, le buone relazioni interpersonali, il lavoro, e perché no, anche qualche soldino in più che non guasta mai, e via dicendo. Investiti da questa sovrabbondanza di buoni auspici ci dovremmo sentire in una botte di ferro per tutti i 366 giorni del nuovo anno. Con tante persone che ci vogliono bene, che cosa ci può accadere di negativo? Bisogna soltanto andarselo a cercare. Eppure sappiamo che non è così. E non è soltanto colpa della crisi economica, che comunque in questo Natale 2011 ha il suo peso. Ci siamo risollevati dal disastro della seconda guerra mondiale. Circa quarant’anni fa abbiamo superato l’austerity e venti anni dopo la crisi degli anni novanta. Perché allora nonostante le varie manovre finanziarie di questi ultimi mesi e le rassicurazioni di chi oggi ci governa, l’impressione diffusa è che non siamo ancora riusciti a trovar il bandolo della matassa? Si dice che ora tocca ai nostri partners europei fare la loro parte. Intanto recessione, disoccupazione e pressione fiscale vanno sempre più intaccando quella riserva tutta italiana che sono i patrimoni familiari. Secondo qualcuno siamo nel mezzo di una vera propria guerra combattuta senza armi. Questa crisi rimane l’eredità più pesante di questo terribile 2011, iniziato tra le proteste delle popolazioni arabe del Nord Africa e del Medio Oriente, che non hanno ancora trovato una loro composizione pacifica, continuato poi a colpi di terremoto prima in Giappone e poi in Turchia, e con le inondazioni in varie parti del mondo, in particolare nel sud-est asiatico. Di fronte a questa crisi, nel messaggio augurale alla Curia Romana anche il Papa si è interrogato: “dove è la luce che possa illuminare la nostra conoscenza non soltanto di idee generali, ma di imperativi concreti? Dove è la forza che solleva in alto la nostra volontà?”. E si è anche risposto, dicendo che “Il nocciolo della crisi è la crisi di fede.  …  Se la fede non riprende vitalità, diventando una profonda convinzione ed una forza reale grazie all’incontro con Gesù Cristo, tutte le altre riforme rimarranno inefficaci”. Sarebbe come dire che una certa responsabilità per la crisi in atto è dei Cristiani che non credono e non vivono come tali. In questi giorni molti frequenteranno le chiese o avranno modo di innalzare un pensiero a Dio. In quel momento ricordiamoci che dalla sincerità e dalla convinzione della nostra fede dipende la Speranza di un futuro migliore per tutti.
don Marco Belladelli
pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il   24/12/2011.
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69. Meridionalismo e sudditanza dell’Italia
Mentre il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, visitava la nostra Città per le celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia, mi trovavo in Salento e insieme ad un amico, in un bel palazzo nel cuore della Lecce barocca, ho partecipato alla presentazione del libro del giornalista Lino Patruno, già direttore de La Gazzetta del Mezzogiorno, “Fuoco del sud. La ribollente galassia dei Movimenti meridionali”, edito da Rubettino. All’inizio dell’incontro è stato mandato un video, reperibile in rete, sulle eccellenze del Sud prima dell’unità d’Italia: ‘La storia sotto la storia - I primati del Regno delle Due Sicilie’. Dopo l’introduzione di un professore di sociologia dell’Università del Salento, esperto di emigrazioni, e l’intervento pieno di passione dell’Autore, è seguito un dibattito con i presenti fatto quasi esclusivamente d’indignazione, sarcasmo e di recriminazioni contro il Nord usurpatore, che con la complicità del governo centrale e in nome dell’unità d’Italia, negli ultimi 150 anni si è reso colpevole dell’arretratezza del Sud, rubando a 360 gradi tutto quello che era possibile sottrarre. Intervento dopo intervento i toni si facevano sempre più accesi, tanto da rasentare il rancore. Se non fossi stato presente, non avrei mai potuto immaginare tanto livore contro il Nord. Al di là della mia collocazione geografica, unico settentrionale presente, per di più padano, il tutto è risultato molto imbarazzante, in certi passaggi addirittura sconcertante. Il libro del Patruno non è che uno dei tanti testi meridionalisti pubblicati in questi ultimi anni, in coincidenza con le celebrazioni per i 150 dell’unità d’Italia, nei quali si attribuisce al Nord la responsabilità della decadenza del Meridione d’Italia a cominciare dal 1861 in poi. Per darvi un’idea delle dimensioni del fenomeno, cito di seguito alcuni dei titoli di maggior successo o più autorevoli in materia di Meridionalismo: Guerri: ‘Il sangue del sud’; De Marco: ‘150 anni di bugie’; Di Fiore: ‘I vinti del Risorgimento’; Idem: ‘Controstoria dell’unità d’Italia. Fatti e misfatti del Risorgimento’; Ciano: ‘I Savoia e il massacro del Sud’; Zitara: ‘L’invenzione del Mezzogiorno’; Idem: ‘L’unità d’Italia: nascita di una colonia’; AA.VV.: ‘La storia proibita. Quando i Piemontesi invasero il Sud’; e per finire ‘Terroni. Tutto quello che è stato fatto perché gli Italiani del Sud diventassero meridionali’ di Pino Aprile, il saggio più venduto del 2010. Già Antonio Gramsci ottant’anni or sono aveva denunciato questi problemi come il peccato originale dell’unità nazionale: “Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d'infamare col marchio di briganti.” (da L'Ordine Nuovo,1920). Chiesta la parola e presentatomi per quello che ero, dopo aver manifestato il mio disagio per tutto quello che era stato detto fino ad allora, mi sono chiesto: se dopo 150 anni di storia nazionale, il conflitto tra Nord e Sud è così alto, chi e che cosa ha impedito un vero processo di “riconciliazione nazionale”? Una domanda da indirizzare soprattutto alla politica, ma non solo. Tutti gli studiosi sono concordi nel riconoscere che storicamente, culturalmente, religiosamente e socialmente l’Italia costituisse una ben identificata realtà unitaria molto prima del 1861. Dobbiamo ipotizzare che coloro che hanno voluto l’unità politica, lo hanno fatto contro questo patrimonio culturale di valori condivisi da Bolzano a Lampedusa? Gli storici hanno poi ampiamente dimostrato che l’unità d’Italia, così come si è realizzata, più che dagli Italiani, è stata voluta dagli stranieri, Francia e Inghilterra in testa, facendo leva sugli appetiti espansionistici dei Savoia come loro ‘longa manus’. Una sudditanza che, a detta di molti, è la vera causa del saccheggio del Sud e che non ci siamo ancora scrollati di dosso. E’ per quello che Sarkozy e company continuano a ridere di noi?
don Marco Belladelli.
pubbicato su LA VOCE DI MANTOVA il 13/12/2011.
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68. Assisi, città della pace
Venticinque anni dopo Giovanni Paolo II, il 27 Ottobre scorso Benedetto XVI ha voluto di nuovo convocare ad Assisi i rappresentanti di tutte le Religioni del mondo per pregare insieme con loro per la pace e la giustizia. Erano oltre trecento le delegazioni presenti. La novità assoluta sono stati gli atei. Uno di essi, il messicano Guillermo Hurtado, ha dichiarato che con la loro presenza l’incontro si è realmente aperto a tutta l’umanità, nella condivisione convinta di una comune aspirazione. Il tema su cui si è svolto l’incontro è “Pellegrini della verità, pellegrini della pace”. Non sono state poche, né irrilevanti dentro la Chiesa le resistenze a questo nuovo incontro di preghiera interreligioso. All’accusa di sincretismo, ha risposto il cardinal Tauran, Presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso, ricordando il principio che ha ispirato Benedetto XVI per questo appuntamento: “Chi è in cammino verso Dio non può non trasmettere la pace. Chi costruisce la pace, non può non avvicinarsi a Dio”. E’ sempre lo stesso porporato a sintetizzare il cosiddetto “spirito di Assisi” in cinque atteggiamenti: uscire dalle nostre case e dai nostri templi per incontrare chi vive in modo diverso da noi; considerare gli agnostici come dei ‘cercatori di Dio’ per aiutarli nella loro ricerca; avere il coraggio di rendere ragione della propria fede nel rispetto reciproco; imparare a dialogare senza timidezze e ambiguità; superare l’individualismo e l’indifferenza religiosa attraverso l’emulazione spirituale. Si è cominciato in mattinata nella basilica di S. Maria degli Angeli dove, dopo la proiezione di un video per ricordare gli incontri precedenti, in particolare quello di 25 anni fa, e tutti gli altri interventi a favore della pace, unite alle immagini delle mutate condizioni geo-politiche, sono iniziati gli interventi delle varie delegazioni sul tema proposto. Nel pomeriggio, dopo un frugale pasto, il pellegrinaggio ha raggiunto la città alta. Ultima tappa è stata la basilica di S. Francesco dove l’incontro si è concluso con l’omaggio di tutti i convenuti al Santo di Assisi, raccolti davanti alla sua tomba, e la solenne rinnovazione del comune impegno per la pace. Dopo aver ascoltato tutti con molta attenzione, a cominciare dai leader delle altre confessioni cristiane e di quelli delle altre religioni, compreso l’animista e la femminista, alla fine della mattinata ha preso la parola il santo Padre, con un discorso come sempre molto intrigante per le prospettive che è riuscito a farci intravedere dentro la complessità del presente. Oggi non c’è più il pericolo imminente di una guerra atomica. “Tuttavia, dice il Papa, il mondo è pieno di discordia” e la violenza domina sovrana. Oggi abbiamo a che fare con il terrorismo, spesso motivato religiosamente. Questa non è la vera natura della religione, ma un suo travisamento e la premessa per la sua distruzione. E’ compito del dialogo interreligioso, continua Benedetto XVI, chiarire se esista una natura comune ad ogni religione. A nome di tutta la Chiesa, “pieno di vergogna”, riconosce pubblicamente che anche i cristiani nel corso dei secoli sono ricorsi alla violenza in nome della loro fede. E’ necessaria una profonda purificazione perché, nonostante la fragilità umana, la religione non sia mai più strumento di violenza, ma unicamente della pace di Dio per il mondo. Di fronte a un tale scandalo c’è chi chiede l’abolizione di ogni religione, o comunque la sua marginalizzazione. Questo però ha favorito l’insorgere della contro-religione del potere, dell’avere e della droga, che sta distruggendo le giovani generazioni del mondo, e dove la violenza è diventata cosa normale. Paradossalmente in un tale contesto molti soffrono perché non trovano la via del vero e del bene. Una ricerca la loro, che interroga tutti, atei compresi, e che va tracciando nel mondo quel sentiero comune a tutti i pellegrini della verità e della pace.
Don Marco Belladelli.
pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il   01/11/2011.
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67. L' "Anno della Fede" 
Domenica 16 Ottobre in san Pietro, durante la celebrazione eucaristica a conclusione del convegno dei nuovi evangelizzatori, Benedetto XVI ha annunciato un “Anno della Fede”. Inizierà l’11 Ottobre 2012, cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II e ventesimo dalla promulgazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, e si concluderà Domenica 24 Novembre 2013, festa di Cristo Re. Dopo due encicliche, una sulla carità: “Deus Caritas Est”, e l’altra sulla speranza: “Spe Salvi”, c’era d’attendersi un nuovo autorevole intervento del Papa dedicato alla fede, per completare il discorso sulle tre virtù teologali. Nella Lettera d’indizione sono spiegate le ragioni e gli scopi dell’iniziativa. Facendo propria un’espressione degli Atti degli Apostoli, il Papa presenta la fede come una “porta” che introduce alla comunione con Dio, il Dio trinitario di Gesù, e come un cammino che dura tutta la vita. Benedetto XVI ha posto la riscoperta della fede e la sua gioiosa testimonianza tra le priorità del suo pontificato. In questi tredici mesi la Chiesa sarà chiamata a riscoprire la propria fede e ad illustrata ai fedeli come forza e bellezza di vita. Attraverso la pubblica professione nelle Cattedrali, nelle chiese, nelle proprie case e nella società, i credenti saranno resi più consapevoli della loro fede, della necessità di educare in essa le nuove generazioni e sul modo di trasmetterla. Ratzinger ricorda di avere una particolare attenzione anche per coloro che sono in sincera ricerca della fede in Dio e indica nel Catechismo della Chiesa Cattolica lo strumento di riferimento comune, valido per favorire l’unità della fede del Popolo di Dio. Già Paolo VI nel 1967 aveva adottato una simile iniziativa al termine del Concilio Vaticano II, preoccupato per le difficoltà che i mutamenti sociali e culturali, già molto evidenti, avrebbero rappresentato per l’unità della fede nella Chiesa. Strano a dirsi, ma una delle problematiche più imbarazzanti degli ultimi cinquant’anni è stata proprio la diversa interpretazione dei documenti conciliari. Papa Ratzinger torna a ribadire che il criterio da seguire per la retta comprensione del Concilio è quello della continuità con il passato e non quello della rottura. Oggi invece Benedetto XVI è allarmato dal fatto che per molti la fede non è più il presupposto comune della vita. E’ in atto uno sgretolamento di quei valori da essa derivati che per secoli hanno rappresentato la base comune della convivenza. Per riscoprire il gusto di nutrirsi della Parola di Dio e del Pane di vita, il Papa richiama tutta la Chiesa all’urgenza di un sincero cammino di conversione. La rivisitazione della sua storia, non soltanto nel solco della santità, che l’ha contraddistinta fin dall’inizio, ma anche nel segno del peccato, che pure l’ha sempre accompagnata, può rivelarsi utile per riconoscere in noi oggi quegli stessi errori che già in passato hanno sfregiato il volto della Chiesa, e suscitare nel cuore dei credenti il desiderio di un vero cambiamento. Sorprende infine l’accorato appello rivolto ai Vescovi per l’unità con il Successore di Pietro, come se oggi questa comunione non fosse così salda come lo è stata in passato. Ricordiamo le neanche troppo velate reazioni di molti Vescovi contro Benedetto XVI in occasione della liberalizzazione della celebrazione dei sacramenti secondo il rito tridentino e della rimozione della scomunica ai Vescovi ordinati da Mons. Lefebvre. Visti i gravi problemi evidenziati dal Papa, se non ho capito male, l’ “Anno della fede” che verrà, non va considerato come la solita celebrazione devozionale, ma come la premessa di un vero e proprio nuovo inizio, come lo fu duemila anni fa la prima evangelizzazione apostolica.
Don Marco Belladelli. 
pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il   28/10/2011.
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66. Cattolici e politica: cosa è successo a Todi?
Non è facile capire che cosa sia veramente successo a Todi Lunedì 17 Ottobre scorso, presso il convento francescano di Montesanto, dove a porte chiuse si è riunito il “Forum delle Persone e delle Associazioni di ispirazione cattolica nel Mondo del Lavoro”. C’è chi ha parlato di un appuntamento storico, paragonabile a quello di Camaldoli del Luglio 1943, quando si misero le basi per la futura Democrazia Cristiana. C’è invece chi lo ha giudicato una piccola e confusa conventicola fine a se stessa. Un’iniziativa nata da lontano in risposta all’appello più volte lanciato da Benedetto XVI per una nuova generazione di politici cattolici, ma che nell’attuale contesto di crisi politica, dove anche un solo voto fa la differenza, ha assunto un rilievo forse eccessivo. Nei giorni immediatamente successivi all’evento i cronisti delle maggiori testate nazionali si sono preoccupati soltanto di annotare, secondo gli interessi rappresentati, se l’incontro fosse stato più o meno favorevole al governo. L’appuntamento ha suscitato attese soprattutto nel mondo laico-liberale. “Il Corriere della Sera” ha seguito la fase preparatoria, dispensando consigli e suggerimenti con alcuni dei suoi più importanti editorialisti. Lo stesso direttore De Bortoli, ricordando il decisivo apporto dei cattolici per l’unità del paese, la loro missione sociale, soprattutto nel volontariato, e messe da parte le spinose questioni dei cosiddetti “valori non negoziabili”, auspicava nel futuro prossimo una possibile alleanza e un comune impegno per far fronte alla, secondo lui, imminente e inevitabile scomposizione dell’attuale quadro politico nazionale. Erano presenti 130 rappresentanti delle varie Associazioni cattoliche coinvolte e alcuni invitati speciali, scrupolosamente selezionati. Ha aperto i lavori il cardinal Bagnasco, Presidente della CEI, che mettendo al centro delle ragioni dell’unità politica dei cattolici i “valori non negoziabili” della vita, dell’educazione, della libertà religiosa, tutti problemi che trovano la loro comune origine nella metamorfosi antropologica in atto, ha subito gelato le attese di De Bortoli e compagni. Nel corso del lungo dibattito seguito all’intervento del Cardinale, a proposito del punto centrale all’ordine del giorno, cioè l’impegno dei cattolici nel sociale e in politica, pare che tutti si siano trovati d’accordo nel dichiarare finita l’epoca dell’equidistanza dai due poli e della trasversalità, di ruiniana memoria, causa di sudditanza e marginalità politica, più che di un vero protagonismo. Sembrano ormai archiviate per sempre anche le nostalgie per una nuova Democrazia Cristiana. Per ora l’obiettivo più realistico rimane essenzialmente di natura pre-politico, cioè la costituzione di un soggetto culturale e sociale in grado di porsi come interlocutore significativo della politica a tutto tondo. Per esempio, nell’immediato è stata concordemente avanzata la richiesta di arrivare quanto prima ad una riforma fiscale rispettosa dei carichi familiari e del mondo del lavoro. Insomma qualcosa di più di un semplice movimento di opinione. Considerando però anche il potenziale consenso di 16 milioni di iscritti rappresentato dal Forum, nessuno ha escluso che in tempi più o meno lontani si possa pensare ad un vero e proprio partito. Nessuno infatti è più disposto a farsi strumentalizzare, come è successo negli ultimi vent’anni, dalla Gerarchia, dalla destra o dalla sinistra. Alla fine, tenuto conto dei vari distinguo espressi dai presenti, pare che per adesso non si andrà molto al di là di quella voglia di unità politica dei cattolici italiani, che era alla base dell’appuntamento di Todi. Che cosa poi di concreto seguirà a questi discorsi, lo vedremo nei prossimi mesi.  
don Marco Belladelli.
pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il    23/10/2011. 
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65. Roma stretta tra violenza e Vangelo
Sabato 15 Ottobre 2011. Dopo le devastazioni pomeridiane ad opera dei black bloc che, infiltratisi nel corteo di protesta degli INDIGNATI, hanno messo a ferro e fuoco la città, Roma nella stessa serata ha conosciuto un’altra invasione, questa volta pacifica, quella dei nuovi evangelizzatori. Dei primi, circa cinquecento secondo le stime delle forze dell’ordine, e del milione di euro di danni che hanno lasciato dietro di sé, hanno parlato tutti i telegiornali del mondo, descrivendo in modo particolareggiato le loro imprese, seguite dalle analisi e dai commenti dei vari addetti ai lavori. Dei secondi invece, fatta eccezione dei mezzi d’informazione cattolici, è stato detto poco o nulla. Sono gli ottomila partecipanti al convegno su “Nuovi evangelizzatori per la Nuova Evangelizzazione – La Parola di Dio cresce e si diffonde (At 12,24)”, organizzato dal nuovo dicastero vaticano, il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, presieduto da Mons. Rino Fisichella, già Rettore dell’Università Lateranense, oltre che assistente spirituale della Camera dei Deputati. Finiti i disordini, in serata i nuovi evangelizzatori, provenienti da tutto il mondo, hanno percorso le vie del centro storico romano annunciando il Vangelo in strada e invitando i passanti ad unirsi a loro nell’adorazione eucaristica nelle chiese aperte fino a mezzanotte per ospitare chiunque desiderasse raccogliersi in preghiera. Prima di andare ad evangelizzare, avevano ascoltato la testimonianza di suor Veronica Berzosa, la quarantacinquenne fondatrice della Comunità “Iesu Communio”, un nuovo Istituto religioso di vita contemplativa che, nella laicissima Spagna di Zapatero, in pochi anni ha fatto il pieno di vocazioni, accogliendo al suo seguito centinaia di ragazze tra i 20 e i 30 anni. Suor Veronica anche questa volta è riuscita a trasmettere in modo straordinario il suo ardente e incontenibile amore per Gesù, tanto da essere paragonata alla santa Teresa d’Avila dei nostri tempi. Dopo di lei ha parlato Vittorio Messori, noto al grande pubblico per i suoi libri e i suoi articoli sul Corriere della Sera, il quale, riflettendo sulla sua esperienza personale, ha denunciato l’inutilità del protrarsi nella Chiesa delle dispute da pollaio post conciliari, auspicando invece un maggior impegno nell’annuncio di Cristo risorto e della ragionevolezza della scelta di fede. E’ stata quindi la volta di Marco Bersanelli, professore di astrofisica all’Università di Milano ed esponente di Comunione e Liberazione che, sempre a partire dalla propria esperienza personale, ha parlato dello stupore dello scienziato di fronte alle immense meraviglie del creato, e del Vescovo colombiano, Monsignor Fabio Suescun Mutis, che ha proposto una strategia per la nuova evangelizzazione, che abbia come centro propulsore la parrocchia. Intervallati da vari stacchi musicali, tra i quali anche un breve concerto di Andrea Bocelli, il convegno si è poi concluso con l’intervento di Benedetto XVI, il quale domenica mattina in San Pietro ha celebrato la S. Messa per gli stessi nuovi evangelizzatori. Il contemporaneo passaggio per Roma dei black bloc e dei nuovi evangelizzatori può essere considerato pura contingenza del tutto casuale. I due appuntamenti avevano origini diverse e molto più distanti, se non addirittura contrapposte, erano le finalità degli uni rispetto agli altri. C’è un episodio che però li lega. I violenti nelle loro scorribande hanno anche assalito una parrocchia, asportando un crocifisso e una statua della Madonna, per farli poi a pezzi per strada. Dice la Bibbia che c’è un tempo per demolire e un tempo per costruire (cfr. Qo 3,3). Per chi invece crede che niente sia a caso, la coincidenza non vorrà forse dire che ci sono due modi per affrontare la crisi a tutto tondo che stiamo vivendo? Prima ancora delle varie motivazioni e delle buone intenzioni di chicchessia, è urgente scegliere da che parte stare: tra chi distrugge o chi costruisce?
Don Marco Belladelli.
pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 17/10/2011.
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64. La crisi economica
Conscio della mia incompetenza in materia, negli ultimi mesi ho provato a leggere i giornali e ad ascoltare in televisione tecnici ed esperti confrontarsi sull’attuale crisi economica. Nonostante lo sforzo, mio malgrado devo ammettere di aver capito poco, anzi con l’andare del tempo sono aumentati i dubbi e le domande senza risposta. Prima di tutto non è facile districarsi tra i discorsi di coloro che per partito preso parlano soltanto pro o contro qualcuno e qualcosa. Poi mi ha lasciato perplesso l’uso strumentale dei dati. Si dice che i numeri non ingannano, che cioè di fronte ai fatti non c’è argomento che tenga. E invece ti accorgi che non è proprio così. Basta vedere il comportamento delle varie agenzie di rating, rivelatesi ormai da tempo non proprio degli arbitri imparziali, ma piuttosto strumenti di pressione asserviti agli interessi di chi le finanzia. Sono tutte concordi che l’Italia non è a rischio di fallimento, ma intanto insistono nel suo graduale declassamento per aumentare la tensione generale su di essa. Dai e dai, alla fine qualcosa succederà. Un’altra cosa che mi risulta di difficile comprensione è la cosiddetta “fiducia” dei mercati. Non capisco chi e che cosa li abbia improvvisamente scatenati contro l’insolvibilità del debito, prima dei governi e ora delle banche. Non sappiamo in futuro quale altro obiettivo prenderanno di mira. Da tre anni si continua a ribadire in tutte le lingue che, fatte le debite eccezioni, i paesi europei hanno i fondamentali economici solidi, o comunque non così drammatici come si vuol far credere. Come si giustifica allora la sfiducia dei mercati? Perché fino a primavera il debito pubblico era fonte di guadagno per chi lo finanziava, e in estate invece si è trasformato in un rischio? Si tratta davvero di un fattore puramente psicologico, come si vuole far credere, o c’è dell’altro? Guardando agli effetti, mi pare che i mercati, più che essere vittima della sfiducia, la diffondano. La crisi ha infatti fortemente contribuito a screditare i governi, di qualsiasi colore, nella considerazione della gente. E’ vero che la politica non ha fatto molto per evitarlo e per meritarsi la stima dei cittadini: crescita zero, aumento della disoccupazione, incremento della pressione fiscale, perdita del potere d’acquisto, e via dicendo. Nonostante tutto mi sembra che ci sia una sproporzione che non si giustifica soltanto con l’insufficienza delle misure adottate dai governi. Non sarà che, chi da dietro le quinte tira le fila della crisi, insieme con i propri interessi economici, approfitta per indebolire la politica e far evolvere la situazione verso una realtà senza regole, priva di controlli e controllori, un unico grande mercato universale nel quale a farla da padroni saranno finanzieri senza scrupolo e speculatori? Non sarà che chi dieci anni fa ha visto la nascita dell’euro come fumo negli occhi, abbia deciso di sferrare l’attacco decisivo per seppellire per sempre il progetto della moneta unica europea che intralcia i loro progetti? Considerando poi l’offensiva contro il debito pubblico, che mette in difficoltà chi fino ad oggi lo ha finanziato, come per esempio la Cina, detentrice di gran parte del debito pubblico americano, e non solo, non sarà che si vuole forzare il gioco per costringerla ad accettare quelle regole di mercato da cui fino ad oggi si è volutamente tenuta fuori, prosperando sulle difficoltà altrui? Come a dire: stiamo assistendo impotenti ad uno scontro che cambierà radicalmente la scena economica e politica del mondo per i prossimi cento anni? Non so se le mie siano soltanto domande fuori luogo, di chi non ha dimestichezza con la materia, o se invece ci sia qualcosa di vero? La cosa certa è che stiamo diventando tutti più poveri e chi ci sta rimettendo di più sono naturalmente le fasce sociali più deboli: pensionati sociali, famiglie mono reddito o numerose o che devono supportare malati, anziani, invalidi e disoccupati, precari di vario genere, e chi più ne ha, più ne metta.
don Marco Belladelli.

pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 13/10/2011.
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63. In vacanza leggete la Bibbia.
Non avrei mai pensato che le parole dette ieri da Benedetto XVI durante l’udienza generale del Mercoledì: “Vorrei allora fare una proposta: perché non scoprire alcuni libri della Bibbia, che normalmente non sono conosciuti?” (03/08/2011), suscitassero tanto interesse e scalpore nei media nazionali. Tante volte anch’io ho consigliato la stessa cosa pubblicamente e privatamente, senza suscitare reazioni particolari. Mi fa piacere che invece si ascolti il Papa e venga dato risalto a questi suoi pensieri. Leggere e conoscere la Bibbia per un cristiano è un dovere, per un laico pure, anche se per ragioni diverse. Nella Bibbia si ritrovano quelle benedette radici culturali e spirituali della nostra storia, della nostra cultura e della nostra società. La bibbia è il libro dei libri, è stato il primo volume pubblicato il 23/02/1455 da Gutenberg, l’inventore della stampa, e a tutt’oggi è ancora il più diffuso al mondo. I giornali e i TG snocciolano statistiche su chi più legge la bibbia e interviste sull’importanza di conoscerla. Gli americani sono in vantaggio sugli europei. Tra gli europei meglio i protestanti dei cattolici. Qualche tempo fa in una famiglia di amici ho incontrato una ragazza alla pari originaria degli Stati Uniti. Nel suo soggiorno in Italia si era portata con sé un testo di ‘Introduzione alla Bibbia’ per preparare un esame previsto nel suo piano di studio universitario che non aveva niente a che vedere con la teologia. In Italia, soprattutto per come sono andate le cose nel tanto decantato Risorgimento, una cosa del genere verrebbe giudicata una ingerenza indebita della Chiesa, non degna della cultura ufficiale. Alla fine quindi la conoscenza della bibbia è ritenuta una cosa marginale, da lasciare alla autoformazione di ciascuno. Alla faccia della cultura! Secondo Tony Blair, ex premier inglese di sinistra, una classe dirigente analfabeta in materia di religione non può governare il 21° secolo.
Il Papa prende spunto dal fatto che per molti le ferie sono l’appuntamento annuale tanto atteso per le buone letture, secondo gli interessi di ciascuno. E poiché la bibbia è una vera e propria piccola biblioteca, composta da libri di vario genere letterario, dove sono trattati temi anche di stretta attualità, ognuno può trovare quello che gli è più confacente. Per esempio, a proposito di migranti, nel libro di Ruth si parla di una straniera e della sua integrazione nel popolo d’Israele, fino a diventare la nonna del re David. Ci sono poi pagine di storia, racconti di saghe familiari e brani di altissima poesia, come i ‘Salmi’ o il ‘Cantico dei cantici’, un insospettabile e sorprendente poema di amore e di eros, perché Dio non è un moralista bigotto. La bibbia non va letta dalla prima pagina all’ultima, come un romanzo. Si può scegliere un libro per volta, sia del Nuovo, come dell’Antico testamento, a seconda del nostro interesse del momento, fino al suo esaurimento. Diceva San Girolamo millesettecento anni fa circa che l’ignoranza della Scrittura è ignoranza di Cristo. Una verità valida anche oggi. Molti cristiani si sono accontentati del poco che hanno appreso a catechismo o a scuola nell’ora di religione. Chi va a Messa tutte le domeniche, ascolta le letture della Liturgia e si ferma lì, senza osare di più. Nella casa di un cristiano non può mancare la bibbia. Non va tenuta in libreria, ma dovrebbe avere un posto d’onore, esposta in bella vista, perché tutti quelli che entrano la vedano, con accanto magari una candela da accendere tutte le volte che qualcuno si ferma a leggerla. La Bibbia dovrebbe essere la fonte d’ispirazione della vita quotidiana della famiglia cristiana. Lo dico non per mestiere, ma pensando a tutte le tragedie familiari che hanno riempito le cronache in questi ultimi mesi: omicidi e suicidi di uomini, donne e bambini da nord a sud che lasciano attoniti. Com’è possibile che succedano tutte queste cose, quasi nell’indifferenza generale? Quando in una famiglia si legge la Bibbia le relazioni migliorano, le tensioni si stemperano e si fa a gara a chi ama di più, a chi è più generoso, non a chi è più egoista. Buone ferie allora e, perché no? magari in compagnia della Bibbia.
Don Marco Belladelli.
pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 05/08/2011.
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62. L’equivoco cattolico
In questi giorni ricorre il decimo anniversario del G8 di Genova. Molti ricorderanno le immagini trasmesse in diretta TV dei disordini che lo accompagnarono. Una città messa letteralmente a ferro e fuoco dai cosiddetti Black bloc; la morte del giovane Carlo Giuliani, immortalato pochi istanti prima con un estintore in mano, mentre lo sta lanciando contro una mezzo dei Carabinieri; l’irruzione della Polizia nella scuola ‘Diaz’, con tutti gli strascichi giudiziari del caso arrivati fino ai nostri giorni. E delle decisioni degli 8 Grandi del mondo, che dovevano discutere come aiutare i paesi in via di sviluppo a risolvere il loro debito che né stato? Nessuno se ne ricorda. Del resto anche i No Global che contestarono quel vertice sono scomparsi dalla scena mondiale. Leggo su un quotidiano on line (http://www.labussolaquotidiana.it/) d’ispirazione cattolica, in un articolo di padre Piero Gheddo, missionario del PIME (Pontifico Istituto Missione Estere), giornalista e scrittore di fama mondiale, che la maggioranza di quei 200.000 manifestanti presenti a Genova sotto le bandiere dei “No Global”, guidati dai vari Casarini e Agnoletto, erano cattolici. Gli stessi, provenienti da gruppi parrocchiali, associazioni, movimenti e istituti religiosi, anche missionari, il 7 Luglio di quell’anno avevano firmato un Manifesto ai leaders del G8, nel quale appariva evidente lo loro sudditanza ideologica ai gruppi di contestazione di origine marxista e laicista. Padre Gheddo, che parla da testimone diretto e non per sentito dire, era anche lui a Genova in quei giorni e dice di aver tentato di dialogare con quei cattolici che erano andati ad infoltire le fila dei “No Global”, ma fu irriso. Nell’articolo segue una documentata rassegna stampa dei giorni successivi al G8, nella quale, citando persone e situazioni, si accusavano i cattolici di aver fatto da reggicoda a una grande razionalizzazione borghese, perpetuando così lo stesso errore del ’68, quando la buona fede, l’idealità e la generosità giovanili furono strumentalizzate da chi pensava di salvare il mondo con i dogmi della sociologia marxista e non con la forza del Vangelo.
Non più tardi di un mese fa, dopo la vittoria referendaria dei “SI’”, alcuni giornali, soprattutto di area cattolica, sbandieravano il contributo decisivo di questa componente culturale e sociale del Paese per il successo finale di quella battaglia, vantandosi del fatto che parrocchie e movimenti erano scesi in campo soprattutto per dire “NO” al nucleare e alla privatizzazione dell’acqua. Lasciando da parte le mie personali perplessità sull’opportunità di ricorrere allo strumento referendario e circa la sua efficacia per la risoluzione di problemi tanto complessi e tanto importanti per il futuro del nostro Paese, e non solo, mi resta sempre il dubbio se sia davvero cristiano quell’impegno che si confonde in tutto e per tutto con un’azione sociale. Prima di me e insieme a me se lo chiede anche padre Gheddo, uomo di missione, che ha speso tutta la sua vita a favore dei poveri dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina: “I cattolici dovrebbero sapere che l’unica vera e decisiva rivoluzione che salva l’uomo e l’umanità l’ha compiuta Cristo duemila anni fa. L’esperienza dei missionari conferma che il contributo essenziale della Chiesa alla crescita di un popolo e alla sua liberazione da ogni oppressione non è l'aiuto materiale o tecnico, quanto l'annunzio di Cristo: una famiglia, un villaggio, diventando cristiani passano da uno stato di passività, negligenza, divisione, ad un inizio di cammino di crescita e di liberazione”. Citando poi un omelia del Cardinal Martini di quasi 20 anni fa, conclude dicendo: “Ridateci lo stupore del primo annunzio del Vangelo, ridatelo alle nostre comunità, … perché questo stupore riscaldi il cuore di tutti”. Non è forse proprio di questo stupore di cui hanno soprattutto bisogno le nostre comunità cristiane oggi prima di qualsiasi altra cosa?
Don Marco Belladelli. 
 Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 20/07/2011
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61. Aprite le porte a Karol, il Grande.
Un primo Maggio diverso quest’anno per Roma. La beatificazione di Papa Giovanni Paolo II ruba la scena al tradizionale concerto per la festa del Lavoro in piazza San Giovanni. A soli sei anni dalla sua morte, Karol Wojtyla è innalzato alla gloria degli altari. Anche questo è un nuovo record, che si va ad aggiungere ai tanti altri che hanno caratterizzato la sua vita. Nato a Wadowice, nel sud della Polonia, il 18/05/1920, a nove anni perde la madre, Emilia, e tre anni dopo anche il fratello maggiore, Edmund il medico, contagiato dalla scarlattina di un paziente che aveva in cura. Nel 1939 si trasferisce con il padre, ex ufficiale dell’esercito asburgico, a Cracovia per frequentare l’università. Intanto i tedeschi invadono la Polonia e comincia la seconda guerra mondiale, particolarmente drammatica per questo paese, stretto nella morsa di due grandi potenze, la Germania di Hitler da una parte e l’Unione Sovietica di Stalin dall’altra. Nel 1941 muore anche il padre e Karol rimane completamente solo, in un mondo ridotto in macerie. Si mantiene agli studi lavorando in una cava di calcare e l’anno seguente entra nel seminario clandestino del cardinal Sapieha, l’arcivescovo di Cracovia. Ordinato sacerdote il 1 Novembre del ’46, viene immediatamente mandato a Roma per il dottorato in teologia. Nel ’48 torna in patria dove, nonostante il regime comunista, intraprende un’intensa attività pastorale, prima in parrocchia e poi all’università. Nel 1958 viene nominato Vescovo ausiliare di Cracovia, cinque anni dopo ne diventa Arcivescovo e nel 1967 è creato Cardinale da Paolo VI. Nel frattempo si è svolto il Concilio Vaticano II, al quale ha partecipato molto attivamente, intessendo molti e intensi rapporti con tanti vescovi di tutto il mondo, facilitato dal fatto di parlare 11 lingue. Dopo la morte improvvisa di Papa Luciani, il 16 Ottobre del 1978 viene eletto Papa con il nome di Giovanni Paolo II. Un pontificato durato quasi 27 anni, il terzo più lungo della storia, durante i quali Karol Wojtyla ha pubblicato 14 lettere encicliche, ha proclamato 482 tra santi e beati, più di tutti i suoi predecessori messi insieme, ha percorso 1.163.865 Km in aereo, con i suoi 104 viaggi apostolici fuori d’Italia e le 146 visite pastorali alle diocesi italiane. Non si può contare invece il numero delle persone che ha incontrato e a cui ha stretto la mano, a cominciare dai potenti della terra, fino ai più umili e diseredati. Così è diventato il protagonista della storia mondiale, riuscendo giorno dopo giorno ad entrare nel cuore di miliardi di donne e di uomini, di qualsiasi parte del mondo, anche di altre religioni e non credenti, come non era mai successo per nessun altro al mondo. Lo si è capito nei giorni successivi alla sua morte, quando milioni di persone hanno sfilato silenziosamente davanti alle sue spoglie, con la stessa partecipazione come se avessero perso una persona cara. Oggi giornali e televisioni fanno a gara nel riportare aneddoti e testimonianze di vip e di sconosciuti che lo hanno incontrato personalmente e raccontano come siano rimasti profondamente colpiti da una personalità tanto straordinaria e unica. Molti attribuiscono questo successo alle sue doti di comunicatore, dimenticando l’essenza della sua vita: la sua fede in Cristo. Le famose parole pronunciate in piazza San Pietro il 22 Ottobre 1978, in occasione della S. Messa di inaugurazione del suo pontificato: “Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa cosa è dentro l'uomo. Solo lui lo sa!”, sono, a mio modesto parere, la chiave di lettura di tutta la sua vita. Il primo ad aprire le porte a Cristo è stato lui, Karol Wojtyla, quando a soli nove anni perse la Mamma, e negli anni successivi, uno dopo l’altro, tutti suoi familiari. Chi non si sarebbe ribellato ad un destino così crudele, chi non si sarebbe disperato per tanta solitudine, aggravata dalle umilianti condizioni umane e sociali in cui versava la Polonia per la contemporanea aggressione nazista e sovietica. Ora, da Beato, gli sarà più facile arrivare al cuore di ogni uomo, fino a quando tutti non avranno spalancato le porte a Cristo.
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 03/05/2011
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60. Testamento biologico, il punto.
Dopo la lettera inviata dal Presidente del Consiglio, on. Silvio Berlusconi, a tutti i deputati del PdL, perché votino compatti la legge sulle D.A.T. (Dichiarazioni anticipate di trattamento, dette anche ‘testamento biologico’) in discussione alla Camera dei Deputati dai primi del Marzo scorso, il dibattito parlamentare ha subito un’improvvisa accelerazione. E’ stato l’UDC, Pier Ferdinado Casini, a proporre l’inversione dell’ordine del giorno dei lavori, immediatamente approvato dall’Assemblea di Montecitorio, per anticipare l’esame della suddetta legge. L’opposizione scandalizzata si straccia le vesti, per un provvedimento che non condivide, a cui si oppone strenuamente e, a suo dire, fatto in questo preciso momento sulla pelle dei poveri ammalati, strumentalmente utilizzati dalla maggioranza di governo per assicurarsi nelle prossime elezioni amministrative l’appoggio della Chiesa. Al di là del solito teatrino della politica, seguendo il quale non si cava un ragno dal buco, proviamo a fare il punto della situazione. Dopo i casi di Piergiorgio Welby, morto il 26 Dicembre 2006 per un chiaro atto di eutanasia da lui esplicitamente richiesto, e di Eluana Englaro, morta il 9 Febbraio del 2009 per la sospensione di idratazione e alimentazione artificiali, legittimata dall’autorità giudiziaria su richiesta del padre, e le furenti polemiche che li hanno accompagnati, tutti convennero sulla necessità di riempire il vuoto legislativo in merito alle problematiche riguardanti il fine vita, che oggi molto spesso si presentano alla coscienza dei singoli cittadini e degli operatori sanitari in modo molto complesso e conflittuale. I punti nodali della legge attualmente in discussione alla Camera sono i seguenti. Alimentazione e idratazione non sono delle terapie, e quindi non si devo sospendere, se non nei casi in cui dovessero risultare non più efficaci o addirittura danneggiare il paziente. La legge riguarda i pazienti in stato vegetativo e chi si trova «nell’incapacità permanente di comprendere le informazioni circa il trattamento sanitario e le sue conseguenze». Le D.A.T. sono valide solo se espresse nelle forme previste dalla legge: cioè  in forma scritta o dattiloscritta con la firma autografa del paziente. Vengono pertanto esclusi video o ricostruzioni postume. Non sono tuttavia vincolanti per il medico, a cui spetta la decisione finale. Non vi sarà un ufficio dedicato per la raccolta delle D.A.T. e ai pazienti in stato vegetativo sarà comunque garantita l’assistenza ospedaliera, residenziale o domiciliare, prevista nei livelli essenziali di assistenza. Se un paziente non dovesse nominare un fiduciario incaricato di tenere i rapporti con il medico, i suoi compiti saranno adempiuti dai familiari, come previsto dal Codice Civile. Le posizioni in campo variano tra chi è favorevole alla legge, perché la considera un valido freno alle derive eutanasiche presenti oggi nella nostra società, e chi invece la osteggia per motivi diversi e paradossalmente anche contrapposti. C’è chi vorrebbe una legge meno restrittiva, perché per esempio ritiene l’idratazione e l’alimentazioni artificiali delle vere e proprie terapie, e chi invece è favorevole all’eutanasia e vorrebbe la totale autodeterminazione di ciascun cittadino nella libertà della propria coscienza, senza nessuna mediazione, tanto meno quella dello Stato. C’è poi chi, pur dichiarandosi contrario all’eutanasia, vede nella legge un cavallo di Troia, che alla fine produrrà l’effetto contrario, come è già accaduto in altri paesi europei. Secondo questi tali l’ordinamento italiano non ha bisogno di una legge sul fine vita, sarebbe, ed è invece necessario censurare e combattere quei magistrati dalle “sentenze creative” e ideologicamente predisposti ad interpretazioni forzate delle leggi vigenti. Il cardinal Bagnasco, Presidente dei Vescovi Italiani, in un intervista di un paio di mesi fa, ha dichiarato che la legge in discussione in parlamento non è una ‘legge cattolica’, ma soltanto un tentativo di governare la realtà, per sottrarla alla discrezionalità giuridica di certi magistrati. Purtroppo il furore polemico che ha accompagnato i casi Welby ed Englaro non si è ancora spento e condiziona pesantemente il dibattito culturale, sociale e politico. In questo clima è facile prevedere che alla fine l’approvazione di questa legge lascerà tutti insoddisfatti.
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 29/04/2011
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59. Il Gesù di Ratzinger, volume secondo.
Il 10 Marzo prossimo sarà in libreria il secondo volume su ‘Gesù di Nazaret’ scritto dal Papa. Avrà come sottotitolo “La settimana santa. Dall’ingresso in Gerusalemme alla risurrezione”. Pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana e distribuito in Italia dalla Rizzoli, in 380 pagine, divise in nove capitoli, Ratzinger ci spiega che cosa è accaduto in quella settimana tanto fondamentale per la fede cristiana, per la storia e per la salvezza di tutta l’umanità. Si comincia con l’analisi degli avvenimenti della Domenica delle palme, per finire con la risurrezione, passando attraverso tutti gli altri fatti fondamentali di quegli otto giorni: la cacciata dei mercanti dal tempio; i discorsi tenuti in quei giorni da Gesù sempre al tempio di Gerusalemme; la lavanda dei piedi; il problema del traditore; la preghiera sacerdotale; l’istituzione dell’Eucaristia; l’agonia nell’orto degli ulivi e l’arresto; il processo di Gesù; la crocifissione, la morte, la risurrezione e le apparizioni. Il libro si conclude con un’appendice dedicata all’ascensione. Papa Ratzinger aveva in mente di scrivere questo libro ancor prima di diventare Benedetto XVI. Lo aveva pensato come il frutto maturo della sua carriera accademica, inserendosi su un filone letterario, quello delle “Vita di Gesù”, iniziato alla fine del ‘700 con Lessing e che ha prodotto i suoi migliori risultati nella prima metà del secolo scorso con Karl Adam, Romano Guardini e il nostro Giovanni Papini. Il suo scopo però non è soltanto quello di emulare gli illustri intellettuali e teologi che lo hanno preceduto. A suo dire, a cominciare dagli anni ’50 in poi, con la diffusione dell’esegesi biblica secondo il cosiddetto metodo storico-critico, “la figura di Gesù, su cui poggia la fede, divenne sempre più nebulosa”, tanto da diventare agli occhi degli stessi credenti addirittura evanescente. Pur giudicando importante e decisivo il contributo offerto da tale metodo, Benedetto XVI afferma, senza ombra di dubbio, di aver più fiducia nel Gesù del Vangelo così com’è, senza troppe mediazioni, che non in quello degli esegeti e dei teologi: “Io ritengo che proprio questo Gesù - quello dei Vangeli – sia una figura sensata e convincente”. Insomma, quella che incontreremo nella lettura del libro, soprattutto in questo secondo volume, è il risultato della personale ricerca del volto del Signore fatta da Joseph Ratzinger, da sei anni 264° successore di san Pietro, come presupposto e incitamento autorevoli e garantiti della nostra personale ricerca. Per invogliare alla lettura, considerando l’emergenza morale in cui viviamo, concludo con un passo del 3° capitolo, dedicato al ‘mistero del traditore’.
Ciò che a Giuda è accaduto per Giovanni non è più psicologicamente spiegabile. È finito sotto il dominio di qualcun altro: chi rompe l’amicizia con Gesù, chi si scrolla di dosso il suo «dolce giogo», non giunge alla libertà, non diventa libero, ma diventa invece schiavo di altre potenze – o piuttosto: il fatto che egli tradisce questa amicizia deriva ormai dall’intervento di un altro potere, al quale si è aperto. Tuttavia, la luce che, provenendo da Gesù, era caduta nell’anima di Giuda, non si era spenta del tutto. C’è un primo passo verso la conversione:«Ho peccato», dice ai suoi committenti. Cerca di salvare Gesù e ridà il denaro (cfr Mt 27, 3ss). Tutto ciò che di puro e di grande aveva ricevuto da Gesù, rimaneva iscritto nella sua anima – non poteva dimenticarlo.
La seconda sua tragedia – dopo il tradimento – è che non riesce più a credere ad un perdono. Il suo pentimento diventa disperazione. Egli vede ormai solo se stesso e le sue tenebre, non vede più la luce di Gesù – quella luce che può illuminare e superare anche le tenebre. Ci fa così vedere il modo errato del pentimento: un pentimento che non riesce più a sperare, ma vede ormai solo il proprio buio, è distruttivo e non è un vero pentimento.
Fa parte del giusto pentimento la certezza della speranza – una certezza che nasce dalla fede nella potenza maggiore della Luce fattasi carne in Gesù.
Giovanni conclude il brano su Giuda in modo drammatico con le parole: «Egli, preso il boccone, subito uscì. Ed era notte» (13,30). Giuda esce fuori in un senso più profondo. Entra nella notte, va via dalla luce verso il buio; il «potere delle tenebre» lo ha afferrato (cfr Gv 3,19; Lc 22, 53).
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MN il       ../03/11.
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58. Obiezione di coscienza del farmacista: diritto costituzionale.
Venerdì scorso, 25 Febbraio, il Comitato Nazionale di Bioetica ha risposto ad un quesito della on. Luisa Santolini (UDC) in merito al diritto all’obiezione di coscienza, invocata dai farmacisti che non intendono dispensare la cosiddetta “pillola del giorno dopo”, riconoscendo che tale diritto “ha un fondamento costituzionale nel diritto generale alla libertà religiosa e alla libertà di coscienza”. Quello del CNB è un parere etico e non giuridico. E’ comunque una chiarificazione e un punto fermo per tutti nel dibattito in corso, dal quale non si torna indietro. Spetta al Parlamento ora trarre le conseguenze del caso e approvare una delle sei proposte di legge depositate dal 2008 ad oggi. In Italia il diritto all’obiezione di coscienza è stato riconosciuto a chi non voleva fare il servizio militare e a tutti gli operatori sanitari contrari all’aborto, legalizzato con la legge 194/1978. In entrambi i casi si tratta di aspetti riguardanti il 5° comandamento “non uccidere”, cioè la vita umana e la sua tutela. Per i farmacisti non ospedalieri il problema nasce nell’Ottobre del 2000 con la commercializzazione della cosiddetta “pillola del giorno dopo”. Introdotta con l’ambigua catalogazione di farmaco per la contraccezione d’emergenza, la prima battaglia ha riguardato l’esplicitazione della sua abortività. Nel 2001 il TAR del Lazio ha imposto l’aggiornamento del foglietto illustrativo con la chiara l’indicazione dell’effetto del farmaco sull’ovulo fecondato. A questo punto, trattandosi di aborto, materia già regolata da una legge, sembrava ovvio per analogia l’estensione anche in questo caso del diritto all’obiezione di coscienza. Mentre i medici, appoggiati dalle loro rappresentanze professionali e sindacali, si sono visti riconosciuto il diritto di negare  la prescrizione di questi farmaci, tra i farmacisti invece, non altrettanto sostenuti dalle loro organizzazioni professionali e sindacali, gli obiettori hanno finito per subire pressioni, intimidazioni, in certi casi vere e proprie aggressioni e perfino denunce. Nell’asprezza del conflitto, va riconosciuto all’UCFI, l’Associazione dei Farmacisti Cattolici, il merito di essersi investita del problema e la determinazione di farsi interlocutore credibile presso i vari soggetti istituzionali e sociali coinvolti, per veder riconosciuto questo diritto a tutta la categoria. Accettato il valore costituzionale del diritto all’obiezione di coscienza, restano i “distinguo” di coloro che per certe materie, come per i valori indisponibili della vita, si mostrano più preoccupati non tanto dei diritti della persona, quanto piuttosto delle conseguenze che l’appellarsi ad essi provoca nella società. Si tratta naturalmente di rispettabili opinioni, magari anche di esperti paludati, ma sempre opinioni rimangono, non dogmi. Secondo alcuni membri del CNB il farmacista “non” ha ruolo giuridico come il medico, perché “non ha potere di entrare nel merito delle scelte effettuate”. Mi sembra un’obiezione che metta in discussione la stessa professionalità del farmacista. A proposito invece del conflitto tra diritto all’obiezione e diritto del cittadino, in questo caso della donna, alla salute, cioè di ottenere il farmaco, conflitto a mio parere facilmente risolvibile sul piano meramente organizzativo, mi spiace che in termini di linguaggio si continui prima di tutto a considerare la gravidanza come una “malattia”, e poi a contrabbandare certi comportamenti, come l’assunzione della pillola del giorno dopo, come diritto alla salute. Una ipocrisia linguistica, e non solo, che risale alla stessa legge 194, che legalizzò l’aborto, chiamata dal legislatore: “Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza”. Ancor più sbalorditiva è la richiesta di certe Associazioni di consumatori di liberalizzare la vendita della pillola del giorno dopo, come se si trattasse di caramelle. Se sono questi signori, con queste loro scelte, quelli che ci guardano le spalle per tutelarci come consumatori, poveri noi!
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MN il     01/03/11.
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57. Alle celebrazioni per l’unità d’Italia divisi su tutto?
Tra poco meno di un mese ci troveremo a celebrare l’unità d’Italia divisi su tutto, o quasi. Più si avvicina la storica data del 17 Marzo, 150° anniversario della proclamazione del Regno d’Italia, e più aumentano i distinguo e le differenziazioni circa il valore di questo traguardo storico e soprattutto sul modo di celebrarlo. Le divisioni di oggi vengono da lontano. Da sempre gli storici litigano gli uni con gli altri, tra chi esalta i moti risorgimentali, i loro campioni: Cavour, Mazzini e Garibaldi su tutti, le loro idee e le loro imprese, che hanno portato alla tanto agognata unità, come un bene irrinunciabile per una nazione moderna, e chi invece, documenti alla mano, in nome di un più o meno sano revisionismo dopo un secolo e mezzo evidenzia ancora limiti, costi, problemi di sempre irrisolti, insieme a quelli che si sono aggiunti strada facendo. Di fatto il giudizio storico sul Risorgimento, fenomeno culturale e politico molto complesso e articolato, che ha dato origine all’Italia unita, rimane a tutt’oggi molto controverso e per niente univoco.
Duecento anni fa, sotto l’influenza della rivoluzione francese, si era affermata l’idea che la divisione politica e territoriale dell’Italia fosse la causa prima della sua sudditanza internazionale e del suo mancato progresso culturale, sociale ed economico. Oggi c’è ancora chi esalta l’unità nazionale come la sconfitta delle forze reazionarie e nostalgiche dell’ “ancien regime”, e non accetta che né da parte degli storici, né tanto meno dai politici, si evidenzino a riguardo problemi o visioni diverse. D’altra parte non si può negare che la tanta sospirata unità politica e territoriale abbia coinciso con la fine di un primato culturale dell’Italia, universalmente riconosciuto e ininterrotto nei secoli, a partire dai fasti dell’impero romano fino alla campagna napoleonica. Se poi si esclude la pacifica annessione del Granducato di Toscana, per tutte le altre regioni: Lombardia, Triveneto, Centro, Sud d’Italia e Sicilia, si è trattato di una vera e propria conquista di territori appartenenti a Stati legittimi e indipendenti da parte della monarchia sabauda. Conquista che ha comportato guerre sanguinose, come quelle di Solferino e San Martino sui nostri colli morenici, e al meridione azioni repressive con eccidi e massacri. Insomma, secondo gli storici la nostra unità nazionale non è proprio il risultato di un sentimento popolare condiviso da Bolzano a Lampedusa. Non meravigliamoci allora se il Presidente della Provincia dell’Alto Adige si defila dal partecipare alle prossime celebrazioni. Ancor più paradossale è lo scambio di posizioni tra destra e sinistra. Oltre la retorica di maniera, stupisce la tiepidezza con cui l’attuale maggioranza di governo di centrodestra, tradizionalmente più sensibile ai valori della patria e dell’identità nazionale, guarda alle prossime celebrazioni, contrariamente a quanto invece dà a vedere l’opposizione di sinistra, le cui radici culturali affondano nell’internazionalismo socialista. Ciliegina sulla torta, è arrivata puntuale anche la polemica del ministro leghista, On. Calderoli, sull’opportunità di dichiarare una festa nazionale. Con il povero Pappagone, la maschera partenopea interpretata da Peppino De Filippo, viene da chiedersi: siamo vincoli o sparpagliati?
Visitando la primavera scorsa il sacrario di El Alamein in Egitto, dove migliaia di nostri soldati di ogni regione d’Italia, di ogni estrazione sociale e di ogni parte politica hanno combattuto, per molti fino al sacrificio della vita, gli uni a fianco gli altri, sono stato colpito da una lapide, posta sull’ultima altura, difesa strenuamente, prima di cedere al nemico, che recitava così: “Qui una voce si leva possente e ammonisce a mai disperare nei destini d’Italia”. Sono parole ispirate da un sentimento di amor patrio, che non ha nulla a che vedere con le dispute degli storici, ancor meno con i teatrini della politica e che finora non ho ritrovato in nessuno dei vari discorsi celebrativi. Nel 150° anniversario dell’unità d’Italia, faccio mia quella voce possente e quel monito di speranza, come augurio per un futuro migliore per tutti gli Italiani.
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MN il    2?/02/11.
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56. Il divorzio 40 anni dopo: rimedio, peggio del male?

La notizia viene dall’avanzatissima Inghilterra, per molti ritenuta un modello sociale a cui ispirarsi. Pare che il governo del conservatore David Cameron stia pensando ad una tassa sul divorzio, con un duplice obiettivo: reperire fondi per il mantenimento e l’assistenza dei figli dei divorziati, un capitolo di spesa particolarmente oneroso per le casse dell’erario; scoraggiare la troppa facilità con cui oggi si rompono i matrimoni. Alle ultime elezioni politiche del 2010, uno dei punti programmatici dell’attuale maggioranza prevedeva la cura della broken society (la società rotta) inglese, il cui punto debole è stato individuato proprio nella famiglia. Prima ancora che economica, si tratta di una fragilità morale e a pagarne le conseguenze sono soprattutto le giovani generazioni. In Inghilterra il 15% dei bambini cresce senza un padre, il 70% della criminalità giovanile ha alle spalle situazioni familiari problematiche. A questo si devono aggiungere i 20 miliardi di sterline necessari ogni anno per far fronte ai problemi sociali derivanti dalle separazioni. Pare che un provvedimento analogo sia già stato introdotto in Norvegia con ottimi risultati.
E da noi le cose come vanno, a quarant’anni esatti dall’introduzione del divorzio? Era il 1 Dicembre del 1970, quando veniva approvata la legge Fortuna/Balslini, dal nome dei due parlamentari promotori. Un anniversario stranamente passato quasi completamente sotto silenzio, se si pensa alle polemiche infuocate di allora, soprattutto quelle relative al tentativo di abrogazione referendaria di quella legge. Le statistiche aggiornate al 2008 parlano di un aumento dei divorzi: 54.000 rispetto ai 27.000 del ‘95, e delle separazioni salite nello stesso periodo da 52.000 a 94.000. In percentuale il tasso di divorzio è cresciuto da 79 a 179 x mille matrimoni, e le separazioni da 158 a 285. Oggi il divorzio è ormai considerato un’acquisizione giuridica e sociale fuori discussione. Esso ha rappresentato un vero e proprio spartiacque culturale, che ha messo in crisi la centralità umana e sociale della famiglia, a favore del singolo e delle sue libertà individuali, con le conseguenze che tutti conosciamo. Del resto, quando due persone non vanno d’accordo, la cosa più logica è: ciascuno per la propria strada. Se poi all’incompatibilità temperamentale si aggiungono abusi, violenze e figli costretti a crescere in mezzo a tensioni e conflitti, la separazione è fuori discussione.
Qualche tempo fa, in una sera di mezza estate, mentre passeggiavo su un incantevole lungomare calabrese, l’amico che mi accompagnava, da molto tempo divorziato e da altrettanto più o meno felicemente convivente, mi confidava che quando nel ’74 si votò per il referendum abrogativo del divorzio, aveva deciso per il suo mantenimento, convinto che fosse la vera soluzione alle difficoltà matrimoniali. Riflettendo a posteriori sulla sua esperienza personale e su quella di molti altri, si era reso conto che invece alla fine il danno era peggiore del rimedio. Il post-separazione non è mai come lo si era immaginato. Le nuove unione si rivelano spesso più problematiche del primo matrimonio. I primi a risentirne sono i figli, spesso sballottati a destra e sinistra come pacchi. A questo si aggiunga,  come ha evidenziato soprattutto la recente crisi economica, che separazioni e divorzi hanno aumentato il numero dei nuovi poveri, cioè di coloro che non ce la fanno ad arrivare a fine mese. Ma il vero problema, che forse non abbiamo ancora messo a fuoco in tutta la sua gravità, come sta facendo il governo inglese, è la fragilità morale dei singoli, incapaci di assumersi la benché minima responsabilità. Era il 1964, tempi non sospetti, quando Piero Ottone, non certo un bigotto, sul ‘Corriere della Sera’ scriveva: “l’istituto del divorzio, anche se ha il vantaggio di sanare di tanto in tanto le situazioni insostenibili, ha il gravissimo difetto di indebolire la fibra morale dei cittadini. Esso fa di loro, uomini e donne, persone che fuggono davanti alle difficoltà, e non persone che le affrontano con coraggio. Il danno si ripercuote su tutta la vita sociale. L’indebolimento, inoltre, si ripete a ogni successivo matrimonio di chi si sia già divorziato. L’esperienza dei paesi col divorzio conferma quanto sa benissimo ogni studioso di psicologia. Le difficoltà del primo matrimonio risorgono quasi immutate nel secondo, perché la loro causa fondamentale non risiede nel partner, cioè nell’altro coniuge, bensì in noi stessi.”. C’è di che riflettere.  Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MN il 18/01/11.
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55. guerra ai Cristiani   
Nel primo giorno del 2011 la notizia dell’attentato ad una chiesa copta di Alessandria d’Egitto in poche ore ha fatto il giro del mondo. Nella notte tra il 31 Dicembre e il 1 Gennaio, i fedeli davanti alla chiesa sono stati investiti da un’esplosione. Non si sa ancora se per una autobomba o per un kamikaze, che si è fatto esplodere. Il bilancio delle vittime conta 22 morti e 70 feriti, numeri senza precedenti per l’Egitto, dove i conflitti tra cristiani e musulmani non sono purtroppo una novità. L’anno scorso c’è stata una sparatoria nel sud del paese, all’uscita dalla S. Messa di mezzanotte, con perdite sempre da parte dei cristiani. Circa un mese fa invece i disordini sono scoppiati attorno al monastero di San Bishoi, per fortuna senza vittime. Alla fine è pure arrivata la rivendicazione di un gruppo terroristico vicino ad Al Qeada, nel quale si collega quanto accaduto ad Alessandria con le minacce lanciate contro i cristiani d’Egitto, dopo l’altro attentato ancor più sanguinoso del 31 Ottobre scorso alla cattedrale siro-cristiana della Madonna del Perpetuo Soccorso di Bagdad, dove ci sono stati 51 morti e molte decine di feriti. Se si ascoltano i racconti dei sopravvissuti a questo grave fatto di sangue c’è da rimanere senza fiato per la ferocia mostrata dai terroristi. Si trattava di un gruppo di ragazzi molto giovani, tra i 14 e i 15 anni, armati di mitra, granate e con una cintura esplosiva attorno alla vita. Sono entrati in chiesa poco dopo mezzogiorno, appena finita l’omelia, e hanno cominciato a sparare alla cieca. Hanno perfino sparato sulla croce, irridendo i presenti con parole che evocavano quelle degli aguzzini di Gesù sul Calvario: “Ditegli che venga a salvarvi!”. Non hanno avuto pietà per nessuno. Hanno sparato anche sui bambini, soltanto perché piangevano terrorizzati. Quando finalmente è arrivato l’esercito si sono fatti esplodere. Nell’ “Angelus” del 2 Gennaio, il Papa ha detto: “Questo vile gesto di morte  come quello di mettere bombe ora anche vicino alle case dei cristiani in Iraq per costringerli ad andarsene, offende Dio e l’umanità intera, che proprio ieri ha pregato per la pace e ha iniziato con speranza un nuovo anno”. Pur invitando i cristiani a resistere e a rispondere con la non violenza, Benedetto XVI ha parlato di una vera e propria “strategia di violenze che ha di mira i cristiani”. Insomma, siamo ormai alla “cristianofobia”, un neologismo nel quale sono compresi atteggiamenti di avversione che vanno dal fastidio all’emarginazione, dalla discriminazione alla persecuzione dei cristiani nel mondo. Oltre all’Egitto e all’Iraq, in questi ultimi mesi abbiamo registrato altri fatti di sangue contro i cristiani in Pakistan, nelle Filippine e in Nigeria. Il tutto nella quasi totale indifferenza dell’occidente cristiano. Non mi riferisco soltanto alle tiepide reazioni delle cancellerie governative, ma anche alle nostre Chiese locali. La CEI aveva indetto per domenica 21 Novembre una giornata di preghiera per i cristiani perseguitati nel mondo, che sì e no ha trovato eco sui settimanali diocesani. Tutte le volte che mi capita di parlare di questo tema, vedo i fedeli sgranare gli occhi sbalorditi. Come a dire: ma le persecuzioni non erano quelle dei cristiani mangiati dai leoni nel Colosseo? E non sono finite mille e settecento anni fa, con l’edito di Milano dell’imperatore Costantino del 313? Purtroppo no. Le persecuzioni attraversano tutta la storia della Chiesa. E il secolo del martirio per eccellenza è manco a dirlo il XX, quello che si è appena concluso, con 40 milioni di cristiani uccisi. A tutt’oggi tre su quattro perseguitati nel mondo sono cristiani, a motivo della loro fede. Ecco perché il Papa ha scelto come messaggio per la XXXIII Giornata Mondiale della Pace il tema della libertà religiosa, quale diritto fondamentale, da cui derivano tutti gli altri diritti umani. Per chi volesse saperne di più, invito a leggere “Guerra ai cristiani”, libro da cui ho preso in prestito il titolo. Pubblicato nel Giungo scorso dall’europarlamentare Mario Mauro, in collaborazione con Vittoria Venezia e Matteo Forte, edito da Lindau, sono descritte le difficili condizioni di vita di molte minoranze cristiane sparse per il mondo.
Conoscere le cose come stanno è il primo passo per uscire dall’indifferenza.
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MN il 04/01/11.
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54. Luce del Mondo, il libro-intervista al Papa
Esaurite le prime 50.000 copie, Venerdì 2/12 sarà pronta la prima ristampa del libro-intervista a Benedetto XVI, “Luce del Mondo”, pubblicato poco meno di una decina di giorni fa. Sono in preparazione traduzioni in diciotto lingue diverse e sono già stati firmati contratti con altre 10 case editrici in tutto il mondo. E’ ormai un’abitudine per Joseph Ratzinger rilasciare periodicamente lunghe interviste ad un giornalista a lui vicino, che poi si trasformano in un bestseller mondiale, per il forte impatto che il suo pensiero ha, sia all’interno della Chiesa, sia sull’opinione pubblica in genere. Nel giro di poco più di un quarto di secolo è già la quarta volta. Ha cominciato nel 1984 con “Rapporto sulla fede”, assieme a Vittorio Messori. Sono seguiti nel 1996 “Il sale della terra e nel 2000 “Dio e il Mondo”, scritti invece dal giornalista bavarese Peter Seewald, lo stesso con cui si è intrattenuto a Castel Gandolfo per circa venti ore di colloquio nell’ultima settimana del Luglio scorso, preferito ad altri candidati per l’opportunità di poter parlare liberamente nella lingua madre.
Il risultato finale di queste conversazioni estive sono le 284 pagine del libro Luce del Mondo, nel quale il Papa risponde a più di 90 domande, distinte in tre ambiti, come indicato dal sottotitolo, “Il Papa, la Chiesa e i segni dei tempi”. Si comincia da ciò che ha fatto nei primi cinque anni del suo pontificato e da ciò che intende fare nel prossimo futuro. Si passa poi a considerare i problemi che riguardano la Chiesa al suo interno e nel suo rapporto con la società di oggi. E infine si parla del mondo, guardando soprattutto a ciò che l’attende, nella prospettiva di una Speranza per tutti. Questa volta però non è soltanto il Cardinal Prefetto della Congregazione della Fede a parlare, ma il Papa stesso in persona. Con tono confidenziale, in modo semplice, diretto e con un linguaggio alla portata di tutti, Benedetto XVI risponde a tutte le domande che gli sono rivolte, senza reticenze e censure, accettando pure il rischio di essere contraddetto da chiunque, come già scrisse nella prefazione del “Gesù di Nazaret”. Le anticipazioni di stampa, a cominciare dall’Osservatore Romano, hanno dato ampio risalto soprattutto a certi temi, sui quali l’opinione pubblica è particolarmente sensibile, quali il preservativo e l’AIDS, l’omosessualità, la pedofilia, Pio XII e gli ebrei, il sacerdozio femminile, il burka, e via dicendo. La ricerca del sensazionalismo alla fine distoglie dall’essenziale del libro, che mi pare molto ben espresso alle pagg. 99-100: “Credo che oggi … il nostro compito sia in primo luogo quello di mettere in luce la priorità di Dio. La cosa importante, oggi, è che si veda di nuovo che Dio c’è, che Dio ci riguarda e ci risponde”. Ci sono altri passaggi importanti a proposito della Chiesa e del rischio che oggi molti corrono, anche al suo interno, di equivocare sulla sua natura e finalità: “Siamo una comunità di persone che vive nella fede… non un gruppo di interesse, ma una comunità di persone libere che donano gratuitamente, e che attraversa nazioni e culture, il tempo e lo spazio. … Il compito non è creare un prodotto o avere successo nelle vendite … ma vivere la fede, annunciarla, e al tempo stesso mantenere un profondo rapporto con Cristo e con Dio Padre”. Il Papa auspica per il futuro un cristianesimo a cui si aderisce “per scelta convinta” e, anche se minoritario, capace di plasmare la società. Oltre al grande intellettuale, in “Luce del Mondo” incontriamo la mitezza dell’uomo Ratzinger, e soprattutto la carità del Pastore, che nulla tralascia pur di riportare all’ovile la pecora smarrita. Sì, perché al punto in cui siamo, per l’uomo d’oggi è molto meglio ritornare al Vangelo per capire quale sia la cosa giusta da fare, piuttosto che affidarsi unicamente della presunta onnipotenza della scienza.
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MN il 04/12/10.
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53. Vieni via con me?  No, Grazie!

Oggi certe cose te le fanno vedere, anche se non vuoi. Mi riferisco al programma di Fazio e Saviano, “Vieniviaconme”. Non sono tra i nove milioni di Italiani che l’hanno visto. Un po’ per impegni e un po’ perché la sera preferisco altro. E sinceramente, la troppa enfasi su quello che doveva essere l’evento televisivo di fine anno, mi aveva insospettito sul molto già visto e già detto che sarebbe stato propinato.
Poi però ci sono quelli che, in ore inimmaginabili e in programmi che non te l’aspetti, ti ripropongono ciò che è andato in onda la sera prima. Così anch’io mi sono cuccato la mia parte di messa laica dove, in un raccoglimento quasi religioso, i sacerdoti Fazio e Saviano concelebrano in pompa magna il politicamente e il culturalmente corretto. Sì, perché, chi osa dissentire, viene trattato peggio di un cane in chiesa. E’ capitato al Ministro degli interni, Roberto Maroni, al quale, proprio per le regole del politicamente corretto, alla fine si è lasciato spazio. Alle associazioni pro-vita invece, che volevano replicare a Beppino Englaro e a Mina Welby, è stata chiusa la porta, nonostante il CdA della RAI avesse dato il via libera per la loro partecipazione. Sono gli autori e i conduttori a opporsi allo stravolgimento delle loro programmazioni. Gli oppositori naturalmente gridano allo scandalo, facendo appello al fatto che siamo in democrazia, alla par condicio, alla RAI come servizio pubblico, e via dicendo.
A me però quello che più non mi convince sono le motivazioni del rifiuto. E’ Fabio Fazio a parlare per tutti e a dire che: “Accettare la replica dei comitati pro-vita sarebbe come dire che siamo una trasmissione pro-morte”. E poi aggiunge: “sugli aspetti più delicati dell'esistenza, la nascita e la morte, non sono accettabili né strumentalizzazioni né mediazioni di nessun tipo”… “abbiamo raccontato due storie di vita, sottolineando la pari dignità, di fronte alla prosecuzione artificiale della vita, di chi sceglie di accettarla e di chi sceglie di rifiutarla”.
Non voglio entrare nel merito della polemica pro-vita e pro-morte. Mi fermo molto prima. Mi meraviglio che un esperto di comunicazione come lui, e soprattutto di televisione, che negli ultimi anni, dobbiamo dargli atto, si è espresso con indiscussa professionalità ed originalità, tanto da diventare uno degli intrattenitori più seguiti, non si sia accorto che il messaggio percepito dal pubblico, o comunque da buona parte di esso, non sia proprio quello che si voleva fa passare. O forse pensava che i nove milioni di Italiani che hanno guardato il suo programma avessero soltanto le mani per applaudire e non una testa per pensare? E poi, come si fa a dire: no a strumentalizzazioni e mediazioni!, quando per comunicare si usa un mezzo così potente come la televisione, sulla quale da oltre quarant’anni ci si sta scannando per il suo controllo, perché ritenuto fino ad oggi il mezzo più potente ed influente per assicurarsi il consenso popolare? E ancora, come si può pretendere di raccontare storie “chimicamente pure”, fingendo di scambiare la televisione per il salotto di casa, quando si sa che in uno studio televisivo, anche nel bello della diretta, parole, luci, suoni, effetti vari, insomma tutto, ma proprio tutto è pensato e pesato fin nei minimi particolari?
Cari Fazio, Saviano e Compagni, se questo è quello che volete farmi credere, vuol dire che ho fatto bene a fare altro il Lunedì sera, e continuerò a farlo.
Don Marco Belladelli.  
Pubblicato su LA VOCE DI MN il 30/11/10.
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52. La Chiesa in Medio Oriente 
Con l’Assemblea speciale per il Medio Oriente del Sinodo Dei Vescovi, chiusasi Domenica 24/10  con la solenne celebrazione eucaristica presieduta da Benedetto XVI in San Pietro a Roma, la Chiesa ha voluto dire la sua sui difficili  problemi che travagliano quella regione e riproporsi come presenza di pace per tutte le diverse componenti religiose, etniche, politiche e sociali presenti. Le affermazioni di alcuni Padri sinodali hanno però ugualmente suscitato la reazione scomposta del governo di Israele. All’ arcivescovo di Newton dei greco-melkiti (Stati Uniti d’America), mons. Cyrille Salim Bustros, che in riferimento alle ingiustizie perpetrate con l'occupazione dei territori palestinesi, ha affermato: “non ci si può basare sul tema della Terra Promessa per giustificare il ritorno degli ebrei in Israele e la espulsione dei palestinesi” alla luce di una distorta lettura della Bibbia, ha risposto il viceministro degli esteri israeliano, definendo il Sinodo un “forum per la propaganda araba, … ostaggio di una maggioranza anti-israeliana”. Davanti ad una reazione tanto aggressiva, Lunedì è dovuto intervenire il portavoce della sala stampa vaticana, Padre Lombardi, per dichiarare che chi vuole conoscere le posizioni emerse durante il Sinodo deve leggersi il messaggio finale, l’unico testo scritto ufficiale elaborato e presentato sabato, a conclusione dei lavori, nel quale sono sintetizzate le posizioni comuni a tutti i Padri sinodali. Ci sono poi punti di vista diversi, risuonati anche dentro l’assemblea sinodale, che vanno però considerati come posizioni personali dei singoli e non come la voce comune di tutto il Sinodo.  
Nei suoi duemila anni di storia, è la prima volta che la Chiesa si ferma a trattare con una così speciale attenzione le problematiche dei Cristiani che vivono in Medio Oriente. I Padri sinodali hanno riconosciuto che la prima sfida che oggi sta loro davanti, come del resto a qualsiasi altro cristiano nel mondo, è quella di accogliere la propria specifica vocazione e missione, quella cioè di accettare la nostra fede e di viverla in ogni ambito della vita, secondo quanto ci ha insegnato il Signore. Riguardo poi all’annoso e fino ad oggi insolubile conflitto israelo-palestinese, che crea continuamente insicurezza per tutti e per tutta l’area geografica, si è convenuto che l’unica risposta possibile non sono le scelte unilaterali di chicchessia, con cui si cerca di cambiare con la  forza lo status quo a proprio favore, ma la ricerca sincera di una pace giusta e definitiva. A proposito di conflitti, non si poteva dimenticare la straordinaria condizione di sofferenza vissuta dai Cristiani in Iraq. La Chiesa universale deve ad essi tutto il sostegno possibile e necessario, perché possano rimanere nelle loro città, dove vivono da millenni e dove si spera possano ritornare anche i milioni di profughi che la guerra ha costretto all’esilio. Il rapporto con il mondo mussulmano deve invece coniugarsi sulla base di due principi fondamentali. Ogni cristiano ha prima di tutto il dovere della carità verso chiunque e dovunque esso si trovi. L’altro principio che deve regolare la convivenza pacifica con i fedeli islamici è quello di contribuire al bene e al progresso della società nella quale si è inseriti.
Il messaggio del Sinodo si conclude con un appello alla comunione e alla testimonianza rivolto a tutti i Cristiani nel loro insieme e alle diverse categorie, nella loro specificità. La consapevolezza di non aver fatto fino ad oggi tutto quanto è nelle loro possibilità e secondo quanto il Signore ci ha insegnato, diventa per le Chiese mediorientali la spinta e l’orizzonte per una nuova missione di evangelizzazione, nella sicura speranza che soltanto nella fedeltà al messaggio di Cristo può venire pace e prosperità non soltanto per loro, ma per tutti coloro, Mussulmani ed Ebrei, che con i cristiani condividono in quei territori la vita di ogni giorno.
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MN il    27/10/10
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51. Afghanistan: ancora morti e contraddizioni.
Martedì 12 Ottobre. Ci prepariamo a vivere un altro funerale di stato per i quattro Alpini del nostro contingente in Afghanistan, morti Sabato 9 a seguito dell’ennesimo attentato talebano. Un sacrifico che merita l’omaggio più sincero di tutta la Nazione. Ai familiari va invece il più sentito cordoglio, che li possa aiutare a ritrovare la serenità perduta. L’unico superstite, il caporal maggiore Luca Cornacchia, rimasto ferito nello stesso attentato, una settimana fa sulla sua pagina di Faceboock ha lasciato scritto: Sono stufo di stare in Afghanistan, non ci capisco più niente.
Anche molti Italiani, non soltanto lui, sono stufi di vedere arrivare bare di nostri soldati da quel lontano paese in guerra da quasi trent’anni, a cominciare dall’occupazione sovietica degli anni ottanta, fino ai nostri giorni. Sottolineare da parte dei nostri politici che gli Americani hanno subito perdite dieci volte maggiori delle nostre, non consola. Anzi aumenta ancora di più la voglia di farla finita una volta per tutte con una situazione che sta diventando un altro Vietnam, non soltanto per gli Stati Uniti, ma anche per tutti i Paesi con loro coinvolti in questo infinito conflitto.
Perché poi un soldato, impegnato direttamente in questa guerra, arriva a scrivere che non ci capisce più niente? Cosa rende tanto incomprensibile una presenza militare che nove anni fa, quando si decise d’intervenire in Afghanistan dopo il vile attentato alle torri gemelle di New York, se si escludono le frange estremiste dei pacifisti ad oltranza e degli antiamericani, nessuno aveva osteggiato?
Un amico, reduce da quel martoriato Paese e che ha quindi una conoscenza diretta della situazione sul campo, cioè non inquinata dalle ragioni di chi deve ad ogni costo difendere una scelta politica, mi ha messo davanti a delle contraddizioni a cui non avevo mai pensato. Primo: perché nessuno impedisce ai trafficanti di armi dell’occidente, che spesso agiscono con il tacito assenso dei loro governi, di continuare ad equipaggiare le bande dei terroristi che i nostri soldati dovrebbero neutralizzare, di cui invece negli ultimi anni sono diventati i loro bersagli preferiti? Secondo: che cosa serve costruire strade, scuole, ambulatori e ospedali, per convincere le popolazioni afghane a non coltivare più l’oppio, quando il mondo occidentale rimane il più grande consumatore di sostanze stupefacenti, tanto che nei nostri fiumi troviamo ormai ogni tipo di droga in quantità industriali? Terzo: con quale faccia tosta si continua a dire che abbiamo mandato i nostri contingenti militari ad esportare la democrazia, quando si sa che l’unica cosa che conta nelle politiche internazionali sono i forti interessi economici in gioco?
Se si escludono i fatti di Madrid (2003) e di Londra (2007), fino ad oggi l’unico vero risultato della presenza militare in Afghanistan è quello di aver impedito in Europa e in altre parti del mondo attentati terroristici del tipo o peggiori di quelli delle torri gemelle. Ma le contraddizioni evidenziate meritano il sacrifico di questi nostri giovani?
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MN il    12/10/10
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50. Il Nobel a Edwards, vera gloria?
Lunedì 4 Ottobre è stato assegnato il Nobel per la medicina 2010 al professore e medico inglese Robert Edwards, colui che ha messo a punto la tecnica della fecondazione umana in provetta. Il merito andrebbe equamente diviso con il collega ginecologo Steptoe, che collaborò alla pari con Edwards. Ma siccome non si assegnano Nobel alla memoria, quest’ultimo si deve accontentare del ricordo dei cronisti, essendo morto più di 22 anni fa. Era il 1968 quando per la prima volta si riuscì a creare un embrione in vitro, cioè ad unire un ovulo femminile con uno spermatozoo maschile in laboratorio, fuori dal corpo della donna. Dieci anni dopo nacque la prima bambina, degli oltre quattro milioni di uomini e donne fino ad oggi venuti al mondo con l’impiego di questa tecnica.  
Nonostante tutto, la procreazione assistita rimane ancora oggi un tema molto controverso non soltanto dal punto di vista etico. Illustri genetisti hanno evidenziato che molti concepiti con questo metodo sviluppano in una percentuale neanche tanto irrilevante gravi malattie genetiche. E l’assegnazione di un premio tanto prestigioso a chi l’ha inventata non poteva non suscitare reazioni contrastanti e dichiarazioni polemiche tra chi la ritiene un progresso e chi invece continua ad avere riserve sulla sua bontà. Ha cominciato nel pomeriggio di Lunedì il professore Maurizio Mori, presidente della Consulta di Bioetica (da non confondere con il Comitato Nazionale di Bioetica!), intervistato a più riprese dai vari notiziari radiotelevisivi, a parlare di grande vittoria della scienza sull’oscurantismo degli ambienti legati a visioni tradizionaliste della vita e della riproduzione. Gli ha replicato monsignor Ignazio Carrasco de Paula, presidente in Vaticano dell’Accademia per la vita, il quale rimane perplesso sugli effettivi meriti di Edwards, indicandolo come colui che ha inaugurato il mercato degli embrioni per la ricerca scientifica, insieme ad un altro tipo di compra-vendita, quella dei gameti umani, fatta passare per “donazione”, nel tentativo di nobilitarla come gesto meritorio. Carrasco fa inoltre notare che il nuovo premio Nobel con i suoi studi “non ha modificato minimamente né il quadro patologico né il quadro epidemiologico dell'infertilità. La soluzione a questo grave problema verrà da un'altra strada meno costosa e ormai in avanzato corso di costruzione.”.
Vista così, si potrebbe dire che Edwards, trasferendo di fatto le tecniche di fecondazione artificiale del mondo degli animali all’uomo si è comportato da facilitatore. A questo proposito mi vengono in mente alcuni pensieri di Alice Sturiale, una bambina dodicenne, morta per una grave malattia genetica, che mortificata nei sentimenti dal rifiuto di un suo coetaneo perché costretta sulla sedia a rotelle, scrisse sul suo diario: “Forse/ senza le quattro ruote/ è più facile./ È più facile divertirsi,/ È più facile muoversi,/ è più facile …/ è anche più facile/ conquistare i ragazzi./ Ma io credo/ che le quattro ruote/ servano a conoscere/ tutta quanta la vita/e saperla affrontare/ e vincere.” (Luglio 1995, 11 anni).
Alle critiche che nel corso degli anni gli sono state rivolte, il professor Edwards ha sempre risposto che "Avere un bambino è la gioia più grande". Forse però noi uomini e donne del terzo millennio, nella fretta di accaparrarci tante gioie con delle scorciatoie, come dice Alice Sturiale, rischiamo spesso di perderci qualcosa della vita nella sua interezza, e qualcosa di non poco conto.
Don Marco Belladelli. 
Pubblicato su LA VOCE DI MN il    06/10/10
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49. Il Papa in Inghilterra
Preceduta da polemiche infuocate, alla fine la visita di Benedetto XVI in Inghilterra ha finito per essere un successo su tutti i fronti.
Secondo un vecchio stereotipo, pare sia impossibile essere inglesi e nello stesso tempo cattolici. Un pregiudizio rispolverato per l’occasione dai giornali d’oltre Manica per buttare benzina sul fuoco contro la venuta del Papa, vuoi per i costi della visita, oppure per lo scandalo dalla pedofilia. Lo stesso Governo si è dovuto scusare per un documento riservato nel quale si suggeriva d’inserire nel programma papale la benedizione di un matrimonio gay e l’inaugurazione di una clinica per aborti. 
Ciò che ha fatto cambiare idea agli inglesi è l’aver visto il Papa di persona, i suoi gesti e i suoi comportamenti reali e l’averlo ascoltato per ciò che ha effettivamente da dire all’uomo e al mondo, e non per ciò che i giornali gli fanno dire. In una società ridondante di superficialità esistenziale e campione di secolarismo come quella inglese, le parole del Papa, piene di umanità e di spiritualità, hanno trovato il terreno favorevole, tanto da essere accolte per quel che effettivamente sono, cioè il messaggio di Speranza che, così come risuona nell’animo umano, può venire soltanto da Cristo.
Nell’udienza pubblica di mercoledì 22/09, il Papa stesso ha parlato di “un evento storico, che ha segnato una nuova importante fase nella lunga e complessa vicenda delle relazioni tra quelle popolazioni e la Santa Sede”, sottolineando di aver trovato sempre è dovunque, non soltanto rispetto e cortesia, ma soprattutto cuori aperti e desiderosi di ascoltarlo e di condividere la comune esperienza cristiana, in cui tutti i popoli europei sono da secoli radicati.
Se il momento più importante è stato senza dubbio la beatificazione a Birmingham del cardinal John Henry Newman, prete, prima anglicano e poi cattolico, e grande intellettuale che ha testimoniato come anche per l’uomo di oggi “la via della coscienza non è chiusura nel proprio "io", ma è apertura, conversione e obbedienza a Colui che è Via, Verità e Vita”, non bisogna dimenticare la veglia notturna che l’ha preceduta, in un clima di profondo raccoglimento spirituale; le migliaia di giovani che hanno partecipato alla S. Messa del Papa dall’esterno di Westminster con entusiasmo e trepidazione; il commosso incontro con le vittime dei preti pedofili, una vergogna che ha meritato alla Chiesa il giusto castigo, per la necessaria purificazione; i vari incontri ecumenici di dialogo e di preghiera con la Chiesa anglicana; e l’incontro con gli esponenti delle altre religioni, di cui la Gran Bretagna è diventata un punto di coagulo importante, ai quali ha chiesto di rispettare la libertà di ciascuno nella scelta della propria religione e l’applicazione nei rapporti comuni del principio di reciprocità. Da rileggere con attenzione e tutto da meditare è il discorso fatto da Benedetto XVI al Parlamento britannico, davanti alle personalità istituzionali, politiche, diplomatiche, accademiche, religiose, del mondo culturale e dell’imprenditoria, ai quali con la sua solita franchezza ha detto che nella società odierna non si può considerare la religione un problema da risolvere, ma “ma un fattore che contribuisce in modo vitale al cammino storico e al dibattito pubblico della nazione, in particolare nel richiamare l’importanza essenziale del fondamento etico per le scelte nei vari settori della vita sociale.”.
Pare che Lunedì mattina molti inglesi si siano risvegliati sofferenti della "post papal depression". Insomma, la grande insofferenza, alla fine si è trasformata in nostalgia per il Papa. 
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MN il    23/09/10
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48. europa, terra di missione.
Dopo i recenti scandali dei preti pedofili e della compromissione economico-politica di alti prelati della Curia romana, non manca occasione in cui, un po’ con provocatoria malizia e un po’ con senso di commiserazione, qualcuno mi chieda se non sia giunta anche per la Chiesa l’ora di adeguarsi ai tempi, giustificando cultura e comportamenti che ormai vanno per la maggiore, da cui nessuno sembra essere immune, se non a costo di imperdonabili ipocrisie o di una marginalità culturale e sociale per l’oggi e per il domani senza rimedio.
La risposta l’ha data il Papa stesso la sera del 28 Giugno scorso, quando durante l’omelia dei primi vespri per la festa dei Santi Apostoli, Pietro e Paolo, nella basilica di San Paolo fuori le mura, ha annunciato la creazione di un nuovo Organismo della Curia romana, un Pontifico Consiglio “con il compito precipuo di promuovere una rinnovata evangelizzazione nei Paesi dove è già risuonato il primo annuncio della fede e sono presenti Chiese di antica fondazione, ma che stanno vivendo una progressiva secolarizzazione della società e una sorta di "eclissi del senso di Dio", che costituiscono una sfida a trovare mezzi adeguati per riproporre la perenne verità del Vangelo di Cristo”. Prendendo spunto dal carisma di San Paolo, l’Apostolo delle genti che per primo predicò il Vangelo ai pagani, attraversando tutta l’Europa, dalla Grecia alla Spagna, Benedetto XVI ha incentrato la sua riflessione sulla vocazione missionaria della Chiesa, elemento tanto fondamentale, che se venisse meno sarebbe compromessa la sua stessa natura: “Guai a me se non annuncio il Vangelo! (1Cor 9,16)”. Evidenziata poi la spiccata sensibilità missionaria dei suoi predecessori, Paolo VI e Giovanni Paolo II, i Papi che hanno ripreso l’antica tradizione dei viaggi apostolici, ha sottolineato che il compito della Chiesa di portare il Vangelo nel mondo a tutti gli uomini è tutt’altro che compiuto. Del resto, una delle ragioni che ha indotto Giovanni XXIII a convocare il Concilio Vaticano II e che ha animato il lavoro dei Padri conciliari era quella di interrogarsi su come annunciare il Vangelo nel mondo contemporaneo. Anche se il Cristianesimo è la religione più diffusa, la maggioranza dei sei miliardi di donne e uomini che abitano il pianeta o non conoscono il Cristo o non l’hanno ancora accolto. In molti di coloro che l’hanno accolto manca convinzione e profondità di esperienza (i cosiddetti cristiani anagrafici). E nei Paesi di antica tradizione cristiana da alcuni secoli è in atto un processo di secolarizzazione che ha prodotto una grave crisi di fede e di appartenenza alla Chiesa.
Al mio interlocutore e a tutti coloro che dentro o fuori la Chiesa per affrontare la crisi che l’ha investita propendono per lo sconto sul prezzo della radicalità evangelica e la rassegnazione all’andazzo del mondo, rispondo con il Papa che la strada maestra da imboccare è quella della nuova evangelizzazione. “Nuova” non nei contenuti, ma nello slancio interiore, "nuova" nella ricerca di modalità che corrispondano alla forza dello Spirito Santo e siano adeguate ai tempi e alle situazioni; "nuova" perché necessaria anche in Paesi che hanno già ricevuto l’annuncio del Vangelo. Allora avanti con la missione, cominciando proprio da noi, dalla vecchia Europa. Detto questo, resta da fare i conti con coloro che a parole si dicono d’accordo con la nuova evangelizzazione, ma nei fatti continuano a pensare e ad agire in un modo che di missionario non ha proprio nulla. Sono i burocrati della Chiesa, una categoria ecclesiastica affermatasi soprattutto negli ultimi quarant’anni, i quali, forse senza accorgersi e loro malgrado, sono diventati più sensibili alle categorie proprie della sociologia, che non al genuino spirito evangelico.
Don Marco Belladelli.
 Pubblicato su LA VOCE DI MN il    10/07/10
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47. Chiude l’ Anno sacerdotale
tra lo scandalo dei pedofili e i nuovi martiri
Roma si è riempita di preti più del solito. Oltre ai già numerosi residenti per motivo di ministero e di studio, in questi giorni si sono aggiunti quelli provenienti da tutto il mondo per la conclusione dell’ “Anno Sacerdotale”. In più di quindicimila hanno partecipato alla solenne celebrazione di Venerdì 11 Giugno, festa del Sacro Cuore, presieduta da Benedetto XVI.
Sono ormai più di quarant’anni che si parla di crisi del prete. Bastano due dati statistici per costatare le dimensioni e la gravità di una situazione che non ha precedenti nella storia della Chiesa. Dal 1970 ad oggi in Italia il clero secolare è diminuito del 30%, i religiosi addirittura di oltre il 40%, e l’età media dei preti si aggira ormai attorno ai 60 anni. Più che gli abbandoni, una percentuale tutto sommato irrilevante, ciò che ha pesato è stata la mancanza di nuove vocazioni. Due le cause principali: la secolarizzazione, che ha marginalizzato la religione e soprattutto ha culturalmente rinnegato la “sacralità” del vivere e dell’essere, e la difficoltà psicologica dei giovani (e non solo!) di oggi ad accettare uno stato di vita totalizzante. La prospettiva di un impegno “in eternum” oggi fa paura a tutti, sempre, comunque ed dovunque.
Il Papa ha voluto l’ “Anno sacerdotale” per sostenere e valorizzare il ministero del sacerdote, senza il quale non c’è futuro per la Chiesa. Ha scelto come modello da proporre a tutti preti del mondo il Santo Curato d’Ars, da cui si evince che il sacerdote a cui si pensa per l’oggi e per il domani è fondamentalmente identico a quello che ha caratterizzato gli ultimi cinque secoli di storia: uomo di Dio, fortemente radicato in Cristo, e uomo per gli altri, in una dedizione piena e totale per i fratelli a cui è inviato. Insomma un “alter  Christus”. Lo ha più volte ribadito durante tutto quest’anno. Basta rileggersi una catechesi a caso delle udienze del Mercoledì: “il sacerdote, rappresenta Cristo, l'Inviato del Padre, ne continua la sua missione, mediante la "parola" e il "sacramento", in questa totalità di corpo e anima, di segno e parola.” (Roma, 5/5/2010).
Lo scandalo dei preti pedofili, che già da alcuni anni aveva pesantemente ferito la Chiesa statunitense e quella australiana, nei mesi scorsi è scoppiato anche in Europa, coinvolgendo intere nazioni e funestando il sereno svolgimento dell’Anno sacerdotale. Una piaga che ha costretto lo stesso Ratzinger a scendere in campo in prima persona, per promuovere una linea di condotta, basata su trasparenza, giustizia e penitenza, unica via per stroncare radicalmente questa gravissima piaga dal vissuto della Chiesa.
A coronare di gloria la chiusura dell’Anno sacerdotale è venuto il martirio di un Vescovo. Ormai è provato che l’assassinio di Mons. Luigi Padovese non è stato causato dal raptus di un malato di mente, ma che si è trattato di una vera e propria esecuzione, secondo il rituale del fondamentalismo islamico, che prevede la decapitazione. Dopo l’orrendo delitto, il giovane assassino è salito sul tetto per gridare la sua vendetta contro il grande satana. Mons. Padovese era consapevole del rischio che correva, tanto che all’insaputa di tutti aveva annullato il viaggio a Cipro, per non mettere in pericolo la vita stessa del Santo Padre. Un avvenimento che non avremmo mai voluto accadesse. Nella sua drammaticità ci ricorda che nonostante i problemi e gli scandali, tra i nostri preti è più normale trovare persone capaci di quell’eroismo quotidiano, che a volte può comportare anche il sacrificio della propria vita.
Il sacerdozio è e sarà anche per il futuro un grande dono per chi lo riceve, per la Chiesa e per il mondo intero.
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MN il 12/06/10
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 46. Recensione libro dr. Benatti

BENATTI MARIO

BEATI E SANTI CON I MALATI

FEDE & CULTURA 

E’ uscito nell’Aprile scorso per le edizioni Fede & Cultura, l’ultimo libro del medico dermatologo mantovano dr. Mario Benatti, dal titolo Beati e Santi con i malati. Eroismo e carità negli ultimi cinque secoli.
L’Autore, già noto al pubblico di casa, e non solo, prima come affermato professionista, e più recentemente per le sue pubblicazioni soprattutto di carattere agiografico, attingendo all’inesauribile fonte della santità cristiana, che negli ultimi trent’anni ha conosciuto un’abbondanza che non ha precedenti in tutta la storia della Chiesa, ci offre questa nuova raccolta di profili di santi e beati, la cui caratteristica comune, come si evince dal sottotitolo, è la carità eroica. Si comincia da Santa Caterina da Genova, ai più sconosciuta, morta esattamente cinquecento anni fa, nel 1510, per finire con un personaggio dei nostri tempi, don Carlo Gnocchi, noto anche come il padre dei mutilatini, morto nel 1956 e beatificato da Benedetto XVI l’Ottobre scorso. Sono trenta biografie snelle ed essenziali che si leggono volentieri e, come le ciliegie, una tira l’altra.
Nella quarta parte della Evangelium Vitae, l’enciclica più importante scritta da Giovanni Paolo II per la sua autorevolezza, pari quasi a quella di un documento conciliare, nella quale si affronta il tema della vita, discriminante fondamentale su cui la nostra epoca si sta giocando il proprio futuro di sviluppo o di inesorabile decadenza, il Papa auspica l’insorgere di una nuova cultura della vita umana, evidenziandone come elemento di fondo l’ eroismo del quotidiano, cioè l’eroismo di chi ogni giorno dedica la propria vita a prendersi cura di tutta la vita e della vita di tutti coloro che gli sono affidati. Nella sua semplicità, il libro del dr. Benatti suscita in chi lo legge questa disposizione d’animo all’eroismo quotidiano che regge il mondo.
Le pagine del dr. Benatti ci riconciliano con il piacere della cosiddetta lettura spirituale. Un esercizio che i maestri di spiritualità hanno sempre consigliato, come una fonte d’ispirazione di buoni sentimenti, dai quali anche la nostra volontà viene positivamente orientata all’imitazione e alla emulazione di ciò che di buono e di santo abbiamo appreso.
dMB. 
Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 09/06/2010
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45. L’omicidio di Mons. Padovese
e il viaggio del Papa a Cipro.
L’omicidio di S. Ecc. Mons. Luigi Padovese, dal 2004 Vicario Apostolico dell’Anatolia e Presidente della Conferenza episcopale turca, mi ha lasciato sgomento per la sua drammaticità ed assurdità. Fino ad oggi le fonti investigative addossano la responsabilità del gesto al giovane autista di origine armena e ai suoi problemi psichici. Pare che l’assassino abbia agito per impulso di una “rivelazione” che gli diceva di uccidere il Vescovo, da quattro anni anche suo datore di lavoro. Giovedì 3/06, verso le 13 ore locali, lo ha letteralmente sgozzato con un coltello nella sua casa di Iskanderun (l’antica Alessandretta), poco prima che mons. Padovese potesse raggiungere Cipro per partecipare alla visita del Papa in programma da Venerdì a Domenica.
Nonostante da più parti, secondo la ricostruzione a cui anch’io mi sono rifatto, si cerchi di negare il movente politico e/o religioso, ci troviamo davanti ad un grave episodio di sangue che evidenzia una situazione paradossale, contraddittoria e problematica del paese turco, a pochi nota. Mentre infatti nella costituzione si proclama l’uguaglianza di tutti i cittadini, di fatto non si riconoscono i diritti delle minoranze, in particolare dei cristiani, che sono costretti a vivere in una condizione di tollerata clandestinità, tanto che da una presenza di oltre due milioni prima del 1927, oggi se ne contano poche migliaia. L’ho potuto costatare personalmente lo scorso anno durante il pellegrinaggio sulle orme di San Paolo, in occasione dell’anno giubilare per i duemila anni dalla nascita dell’Apostolo. Chiese ridotte a museo, dove il culto era ammesso soltanto per la straordinarietà della circostanza. Le piccole comunità religiose presenti, tra l’altro di origine italiana, impedite a fare qualsiasi azione di annuncio, anche verso chi si accosta alla Chiesa liberamente, pena l’arresto e la detenzione. Oltre all’omicidio di don Andrea Santoro del Febbraio 2006, di cui ricordo ancora il commosso ed entusiastico saluto al Consiglio Presbiterale di Roma, prima di lasciare la capitale per quella nuova missione da dove non sarebbe più tornato, in questi anni in Turchia si sono registrati numerosi altri attentati a religiosi, per fortuna senza esiti mortali. In un intervista di qualche tempo fa alla televisione svizzera, lo stesso Vescovo ucciso denunciava apertamente ripetuti attentati alla sua persona, in forme e modi che all’apparenza avrebbero potuto sembrare dei banali incidenti, come per esempio essere investiti da una moto lanciata ad alta velocità, mentre si attraversa la strada. Tutti i responsabili dei vari delitti, da Alì Agca in poi, sono sempre stati classificati come degli “squilibrati”. Una formula che invece di rispondere, suscita ancor più interrogativi, dubbi e perplessità.
Mons. Padovese, da fine biblista e teologo, specializzato in patristica, qual era, negli anni del suo ministero in Anatolia aveva dedicato molto impegno al dialogo con il mondo mussulmano, rivendicando pure dal governo quella libertà di culto, ancor oggi negata ai cristiani turchi. Di fatto in tutto il Medio Oriente, la Chiesa ogni giorno deve fare i conti con dittature, discriminazioni e vere e proprie persecuzioni. Nell’ Istrumentum laboris che in questi giorni a Cipro il Papa consegnerà a tutti i Vescovi del Medio Oriente, in preparazione del prossimo Sinodo straordinario di questa regione, sono descritte quelle stesse situazioni, che fino ad oggi hanno significato per i cristiani esilio forzato e non di rado morti innocenti, come nel caso di don Santoro e di Mons. Padovese. Sono situazioni non più tollerabili, soprattutto da parte di quei governi che ambiscono vedere riconosciuta la loro certificata democraticità, per poter sedere a pieno titolo nel consesso dei cosiddetti Paesi Occidentali, dove i diritti della persona sono riconosciuti e tutelati.
Don Marco Belladelli. 
Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 05/06/2010
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44. Benedetto XVI a Fatima   
Benedetto XVI è il terzo Papa che si reca in pellegrinaggio a Fatima e che si confronta con i tre famosi segreti dalla rilevanza intrigante ed inquietante non soltanto dal punto di vista religioso, ma anche da quello politico. Quando la Madonna ha parlato di guerre che finivano, di altre ancor più terribili che sarebbero seguite, di nazioni da consacrare al suo Cuore Immacolato, per rimediare ai danni che avrebbero causato all’umanità intera, e del martirio di un Papa in un contesto mondiale di distruzione e di morte, significa, come si usa dire oggi, che è scesa in campo in prima persona per dire la sua su come vanno e su come dovrebbero andare le cose nel mondo.
Ratzinger ha definito le apparizioni mariane un “impulso” datoci direttamente da Dio per accogliere e vivere meglio quanto il Signore Gesù ci ha già insegnato nel Vangelo. A chi gli chiedeva in particolare del significato e dell’interpretazione del terzo segreto, reso pubblico soltanto nel 2000, in occasione del Grande Giubileo e della beatificazione di due pastorelli veggenti, Giacinta e Francesco, ha risposto che la visione della grande sofferenza del Papa, riconosciuta in prima istanza già realizzatasi ed esaurita nell’attentato a Giovanni Paolo II, riguarda invece tutto il futuro della Chiesa. Ma quello che ancor più colpisce è quando afferma che queste sofferenze, prima ancora che dall’esterno, vengono dall’interno della Chiesa stessa. Nell’intervista concessa durante il viaggio di andata ha detto: “Anche questo si è sempre saputo, ma oggi lo vediamo in modo realmente terrificante: che la più grande persecuzione della Chiesa non viene dai nemici fuori, ma nasce dal peccato nella Chiesa e che la Chiesa quindi ha profondo bisogno di ri-imparare la penitenza, di accettare la purificazione, di imparare da una parte il perdono, ma anche la necessità della giustizia”.
Dopo queste affermazioni, che hanno trovato conferma anche nelle omelie papali, durate le varie celebrazioni che si sono svolte nel corso del recente pellegrinaggio, è necessario rifare il punto sul messaggio di Fatima. Contrariamente a quanto si era detto dieci anni fa, quando fu pubblicato il testo del terzo segreto, bisogna rilevare che esso non si è ancora pienamente realizzato, ma che il suo compimento riguarda sia il nostro presente che il futuro prossimo venturo. Per la Chiesa (e per tutta l’umanità nel suo insieme) si preannunciano quindi tempi di sofferenza. Ma la cosa più sorprendente è sentire un Papa indicare nel peccato stesso della Chiesa la causa prima di questa sofferenza e il nemico principale da sconfiggere, attraverso un cammino di penitenza, di purificazione, di perdono e anche di giustizia. Ciò che più preoccupa il Papa non sono tanto le cose più o meno drammatiche che devono accadere, quanto piuttosto la resistenza degli stessi  credenti e praticanti, a cominciare da frati, suore, preti e vescovi, ad accettare questo “profondo bisogno” di sottomettersi ad un regime, non formale, ma sostanziale di penitenza di purificazione, di perdono e di giustizia. Detto in altri termini, se è vero che lo scandalo dei preti pedofili è un peccato così grave, da gridare vendetta al cospetto di Dio e va combattuto e superato a qualsiasi costo, ciò che ancor più spaventa il Santo Padre è quel sistema di potere, contro il quale a dovuto fare i conti lui stesso da cardinale (il caso dei Legionari di Cristo insegna!), sistema fatto di menzogne e di compiacenze, con cui si è impedito di accertare la verità dei fatti, si sono protetti i responsabili e si è permesso al “peccato” di proliferare impunemente, fino alle più alte gerarchie della Chiesa. Senza l’aiuto diretto dal cielo di Maria Santissima, saremmo davvero perduti. 
Don Marco Belladelli 
Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 18-21/05/2010
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43. Benedetto XVI compie cinque anni.
Lunedì 19 Aprile 2010 è quinto anniversario della elezione di Benedetto XVI.
Tra i vari commentatori c’è chi lo esalta e chi invece lo critica. Qualcuno, vittima del proprio infantilismo, non gli perdona ancora di essere tedesco e ironizza sul suo conto, ricorrendo agli stereotipi del panzercardinal e ad altre sciocchezze simili. Altri invece sono fortemente infastiditi dalla franchezza e dalla chiarezza, priva di  timori reverenziali verso chicchessia, con cui fin dall’inizio del suo pontificato ha additato pubblicamente i danni prodotti dal relativismo e dal soggettivismo culturale ed etico dei nostri tempi. E’ il caso, per esempio, della lobby degli omosessuali, che lo vedono come uno dei principali nemici alle loro conquiste di emancipazione culturale, sociale e politica, come l’attribuzione alle loro unioni degli stessi diritti riconosciuti alla famiglia naturale. Le grandi multinazionali, vere e proprie superpotenze economiche, considerano la sua autorità morale, universalmente riconosciuta, un ostacolo all’espansione della loro egemonia sovranazionale. I cosiddetti intellettuali di estrazione laica, sia di destra che di sinistra, gli rimproverano invece di non essere come Giovanni Paolo II.
Mai, come ai nostri giorni, gli uomini hanno avuto la memoria corta. Molti hanno dimenticato, e chi invece ancora se le ricorda, le ha rimosse perché oggi politicamente scorrette, le molte e pesanti critiche rivolte a Papa Woityla nei primi anni del suo pontificato. Basta rileggersi i giornali di quegli anni per ritrovare la contrarietà di certa opinione pubblica davanti ai suoi atteggiamenti e ai suoi insegnamenti. Qualcuno ricorderà l’irriguardoso Woitylaccio, uscito dalla bocca del futuro premio Oscar, Roberto Benigni, durante il festival di Sanremo del 1980, davanti a milioni di persone; e Il Pap’Occhio di Renzo Arbore, un film parodia, dove si irrideva Giovanni Paolo II alla stregua di un povero fanatico, malato di narcisismo. E’ abbastanza normale per un Papa nei primi anni di pontificato dover mettere in conto una certa ostilità.
Nonostante l’ostinazione maliziosa con cui lo si confronta con il suo predecessore, per sminuirne il carisma, a cinque anni dalla sua elezione, Benedetto XVI continua ad avere un seguito senza precedenti. Mi riferiscono alle decine di migliaia di persone che ogni settimana vengono a Roma per ascoltarlo alle udienze del Mercoledì, all’Angelus della Domenica, o in occasione delle sue varie comparse pubbliche. Ciò che negli ultimi anni è la norma, cioè di riempire nei mesi invernali oltre all’aula Paolo VI, anche la basilica di S. Pietro, in precedenza accadeva raramente. Per non parlare poi del successo delle sue pubblicazioni. Il suo libro, “Gesù di Nazareth”, è diventato un Best Seller in tutto il mondo. Le sue encicliche sono andate a ruba, contendendo i primi posti delle classifiche ad autori di grido. Per non parlare di altre pubblicazioni minori, come discorsi di viaggi e non, omelie e catechesi.
All’interno della Chiesa, come ha dichiarato lui stesso fin dall’inizio, suo impegno prioritario è dare compimento al processo di rinnovamento iniziato negli anni sessanta con il Concilio Vaticano II, per rimediare a quelli che egli stesso ha definito i “fraintendimenti”, diventati nel tempo causa di abusi, a volte addirittura di veri e propri scandali, tra coloro che hanno interpretato questo avvenimento non nel segno della continuità, ma della rottura. Un altro aspetto a cui si sta dedicando con altrettanto fervore è l’ecumenismo, per riportare quanto prima tutte Chiese a quell’unità che ha caratterizzato i primi mille anni di storia del Cristianesimo. Mai, come negli ultimi cinque anni, i rapporti, soprattutto con gli Ortodossi, sono stati tanto frequenti e fraterni. Parallelamente al dialogo ecumenico, si sono intensificati anche le occasioni di incontro e di confronto con i rappresentati delle altre religioni, in particolare con gli Ebrei e i Mussulmani. Per Benedetto XVI il dialogo interreligioso è la via privilegiata per rafforzare nella Comunità internazionale le ragioni della pace, sempre troppo deboli, rispetto agli interessi che innescano gli ancor troppo numerosi conflitti armati, presenti oggi nel mondo. Ratzinger verrà anche ricordato come il Papa della “ragione”. Per ovviare alla confusione causata dalle ideologie e dal moltiplicarsi di mode di pensiero, ha posto al centro del dibattito culturale il problema della razionalità, come misura di un vero umanesimo, su cui costruire le basi della speranza per il futuro dell’umanità.
Se qualcuno non se ne fosse ancora accorto, stiamo vivendo una altra grande pagina di storia che si integra perfettamente con quella, certamente straordinaria, che si è appena conclusa con Giovanni Paolo II.
Don Marco Belladelli. 
Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 21/04/2010
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42. Il Papa sotto attacco
Da quando è scoppiato lo scanalo della pedofilia, per il Papa non c’è stato un attimo di tregua. Non passa giorno che giornali e televisioni non si accaniscano su questi temi, sguazzandoci dentro e facendosi eco gli uni gli altri, per riproporre alla fine sempre la stessa minestra riscaldata.
Sorprende che si voglia coinvolgere a tutti i costi proprio colui che da sempre nella Chiesa su questo problema si è dichiarato per la tolleranza zero. E’ ormai provato che da Presidente della Congregazione per la Dottrina della Fede, Ratzinger fu osteggiato dall’inquisire potenti ecclesiastici, rivelatisi poi realmente colpevoli. E’ stato lui che, appena salito al soglio di Pietro, ha immediatamente ritirato fuori il processo contro il fondatore dei Legionari di Cristo, Maciel Marcial Degollado fino alla condanna dello stesso ad una rigida clausura, nel più assoluto isolamento, vita natural durante. E’ sempre lui che in occasione del suo viaggio negli Stati Uniti ha incontrato le vittime dei pedofili, le ha ascoltate, si è scusato con loro, ha pregato con loro e per loro. La stessa cosa è avvenuta in Australia. Quello poi che è successo recentemente in Irlanda e Germania è cronaca nota a tutti. 
Sorprende ancor di più, che sia uno dei più importanti giornali del mondo ad attaccare il Papa in modo così veemente. Sì, proprio il grande New York Times, che pur di coinvolgere Benedetto XVI, ha tirato fuori una vecchia storia di oltre vent’anni fa, nella quale il prete coinvolto, stranamente assolto dall’autorità civile, era stato invece perseguito da quella ecclesiastica, fino alla sua morte. Tra l’altro, il quotidiano americano fonda la propria accusa su un documento della Congregazione della fede del 1998, tradotto dall’italiano in inglese alla carlona, tanto da prendere lucciole per lanterne, come ha dimostrato martedì 6 Aprile Rodari su Il Foglio.
Nella Chiesa non sono mancate le reazioni in difesa del Papa. Oltre alle note ufficiali del Direttore della sala stampa vaticana, dobbiamo registrare le affermazioni di padre Cantalamessa, predicatore della casa Pontificia, durante la celebrazione del Venerdì santo, con l’immancabile seguito di polemiche, le dichiarazioni di solidarietà del cardinal Sodano all’inizio della S. Messa della Domenica di Pasqua e la lunga intervista rilasciata dallo stesso qualche giorno fa all’Osservatore romano.
A scanso di equivoci, l’ho già detto e mi ripeto: anche per un solo caso, la pedofilia non va mai né giustificata, né minimizzata, soprattutto quando si tratta di preti. Detto questo, rimane la domanda: perché tanto furore contro colui che più di ogni altro si è adoperato per estirpare questo male nella Chiesa? Tra i vari commentatori, il sociologo Massimo Introvigne parla di “un tipico esempio di panico morale”, cioè una amplificazione sistematica sia dei dati reali, sia della sua rappresentazione mediatica, sia delle sue conseguenze politiche. Vittorio Messori evidenzia invece il paradosso tra chi all’esterno lo accusa di non aver agito e chi all’interno di aver agito troppo, liquidando il tutto come “una ferocia giacobina” che lascia il tempo che trova e per la quale non bisogna prendersela più di tanto. Lucetta Scaraffia propende per dei veri e propri di attacchi politici. Insomma, una vendetta in piena regola contro colui che nei suoi cinque anni di pontificato non ha risparmiato niente a nessuno.
Forse la risposta più convincente l’ha fornita lo stesso Benedetto XVI quando nel suo recente Messaggio Urbi et Orbi di Pasqua, dice: “Anche ai nostri giorni l’umanità ha bisogno di un ‘esodo’, non di aggiustamenti superficiali, ma di una conversione spirituale e morale. Ha bisogno della salvezza del Vangelo, per uscire da una crisi che è profonda e come tale richiede cambiamenti profondi, a partire dalle coscienze.”.
Allora come si giustifica l’attacco al Papa? Come qualcosa di assolutamente irrilevante dal punto di vista etico e culturale, ma soltanto l’ennesimo polverone innalzato ad arte da chi ha più convenienza che nulla cambi.
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 10/04/2010
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41. La Chiesa, oltre lo scandalo della pedofilia.
Gli aggettivi usati dai commentatori per definire la positiva accoglienza da parte dell'opinione pubblica della Lettera ai Cristiani d’Irlanda del Papa si sprecano: nobile, coraggiosa, rigorosa, chiara. E chi più ne ha, più ne metta. Qualcuno, colpito dai toni e dai modi con cui Benedetto XVI affronta la spinosa questione dei casi di pedofilia e la iniqua reticenza delle autorità ecclesiastiche nel non perseguire in modo adeguato i colpevoli, azzarda addirittura il più alto e autorevole dei paragoni possibili, le Lettere di San Paolo, quando nei suoi scritti l’Apostolo interviene per dirimere questioni pratiche dalle conseguenze laceranti nella vita delle Comunità cristiane da lui fondate (vedi per esempio 1Cor. 5,1ss).
Lo schema seguito dal Santo Padre nel suo argomentare mi ha invece ricordato gli imperativi con cui lo stesso Signore Gesù in persona, nelle famose lettere alle sette Chiese dell’Apocalisse invita i cristiani di quelle Comunità alla conversione: “Ricorda dunque da dove sei caduto, ravvediti e compi le opere di prima” (Ap. 2,5). Infatti, dopo aver espresso il suo sgomento, la sua riprovazione e il senso di tradimento provato per quanto successo e per come è stato gestito il problema, Benedetto XVI evoca la gloriosa storia della Chiesa d’Irlanda, ricordando soprattutto i suoi grandi esempi di santità, di generosità e di eroicità, a cominciare dal grande vescovo, evangelizzatore dell’Europa, san Colombano, fino ai giorni nostri. Segue quindi un duro monito al ravvedimento, nel quale affronta i vari aspetti della situazione che si è venuta a creare, secondo precisi criteri di giustizia, già presenti nelle norme canoniche vigenti, a cui era doveroso far riferimento, per ovviare al propagarsi e all’aggravarsi delle dimensioni del problema. Nello stesso tempo si rivolge a tutti coloro che sono direttamente o indirettamente coinvolti, per offrire partecipazione, vicinanza spirituale e sostegno, prima di tutto alle vittime alle loro famiglie, ai consacrati colpevoli e ai vescovi, per proseguire poi con i genitori, i giovani, i sacerdoti, i religiosi e tutta la Chiesa d’Irlanda.
Fare giustizia è essenziale, ma da sola non basta. Bisogna, come dice l’Apocalisse, tornare ‘a compiere le opere di prima’, cioè conformare “la vita in modo sempre più vicino alla persona di Gesù Cristo”. Per questo il Papa propone una serie di iniziative concrete dalle quali tutta la Chiesa irlandese possa trarre grazie di guarigione per le ferite sofferte e rinascita. Le elenco di seguito: preghiera, penitenza, digiuno, lettura frequente della sacra Scrittura, frequenza ai sacramenti, adorazione eucaristica, esercizi spirituali. Secondo Benedetto XVI, per mezzo di esse sarà possibile riparare ai peccati commessi e rinnovarsi interiormente. In sostanza viene proposto un vero e proprio cammino di “Cristoterapia”, un percorso di guarigione incentrato sull’incontro con Gesù Cristo e sull’accoglienza della potenza dello Spirito Santo, che parte dalla sfera più intima e più profonda della nostra persona, cioè quella spirituale, per coinvolgere poi progressivamente tutte le altre dimensioni dell’uomo, quella psichica e quella somatica. La novità sta nell’applicare questo modello terapeutico non a singole persone o a un gruppo particolare, ma a tutta una Chiesa nazionale, che ora ha bisogno di “una rinascita … nella pienezza della verità stessa di Dio, poiché è la verità che ci rende liberi (cfr Gv 8, 32).”.
La Lettera ai Cristiani d’Irlanda di Ratzinger apre un’altra questione che all’interno della Chiesa e tra gli addetti ai lavori (e non solo) è già diventata una vera e propria polemica infuocata, quando individua tra le cause del vergognoso scandalo in questione il fraintendimento del “programma di rinnovamento proposto dal Concilio Vaticano Secondo”. Un affermazione senza dubbio pesante e non casuale, che fa sorgere molte domande sul suo effettivo significato e su tutte le possibili conseguenze, che da quanto si può capire, per il Papa  non si limitano al pur grave problema della pedofilia.
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 27/03/2010
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40. Il ‘Giorno della Memoria’, la Chiesa, e gli Ebrei.
Oggi, si celebra il "Giorno della memoria", in ricordo di tutte le vittime di quei crimini, specialmente dell’annientamento pianificato degli Ebrei, e in onore di quanti, a rischio della propria vita, hanno protetto i perseguitati, opponendosi alla follia omicida. Con animo commosso pensiamo alle innumerevoli vittime di un cieco odio razziale e religioso, che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte in quei luoghi aberranti e disumani”. Dopo queste inequivocabili parole di partecipazione alle sofferenze della shoah e di condanna per chi le ha causate, pronunciate all’udienza di mercoledì 27/01, giorno della memoria, mi pare che i problemi esistenti tra Benedetto XVI e gli Ebrei su questo tema siano chiariti e superati una volta per sempre. Superati anche rispetto a tutte quelle speculazioni che fino ad oggi hanno provocato  sospetti e diffidenze, smascherate e denunciate come assolutamente gratuite ed infondate in un fermo articolo di Bernard-Henri Levy, pubblicato il 20/01 scorso su Il Corriere della Sera
Alla fine, Benedetto XVI passerà alla storia come il Papa che ha visitato più sinagoghe di tutti i suoi predecessori: Colonia nel 2005, New York nel 2008 e Roma il 17 Gennaio scorso, senza contare il viaggio del Maggio 2009 in Israele. Ma per avere un quadro preciso dello stato dei rapporti tra la Chiesa e gli Ebrei, è bene rifarsi al recente incontro di Papa Ratzinger con la Comunità ebraica di Roma, quando entrambe le parti  hanno manifestato i loro punti di vista, nel rispetto reciproco, pari dignità, senza reticenze e falsi pudori. Ha cominciato il Rabbino capo, Riccardo Di Segni, che evocando l’esperienza biblica della fraternità, ha detto: “c’è da chiedersi sinceramente a che punto siamo di questo percorso e quanto ci separa ancora dal recupero di un rapporto autentico di fratellanza e comprensione”. Ha poi indicato due ambiti entro i quali è possibile fin da ora l’incontro e la collaborazione tra Ebrei e Cristiani, quello dell’emergenza ambientale e quello del “vivere la propria religione con onestà e umiltà, come potente strumento di crescita e promozione umana, senza aggressività, senza strumentalizzazione politica, senza farne strumento di odio, di esclusione e di morte”. Il Papa dal canto suo, riprendendo la preghiera di Giovanni Paolo II al muro del pianto di Gerusalemme, ha di nuovo condannato il nazismo che, insieme con il popolo ebraico, voleva uccidere Dio stesso, e ha chiesto ancora perdono per tutti i cristiani che si sono associati a quei crimini, affinché “Possano queste piaghe essere sanate per sempre!”. Ha poi indicato “la centralità del Decalogo come comune messaggio etico di valore perenne per Israele, la Chiesa, i non credenti e l’intera umanità”, quale vero punto  d’incontro e fonte di innumerevoli implicanze.
La cordialità e la franchezza del dialogo non hanno impedito di fare spazio anche alle diversità, orgogliosamente affermate, e alle questioni controverse, neppure queste passate sotto silenzio, come per esempio la pari dignità da sempre rivendicata e acquistata dagli Ebrei soltanto con l’avvento del Regno d’Italia, i silenzi di Pio XII e il diritto all’esistenza dello Stato d’Israele, come compimento delle antiche promesse, prima ancora che frutto delle garanzie del diritto internazionale. Benedetto XVI ha risposto auspicando che nello Stato d’Israele “tutti percorrano umilmente il cammino della giustizia e della compassione”, come a sottolineare che questa virtù e questo sentimento là dovrebbero essere più presenti e praticati.
Per ora siamo arrivati fin qui, in attesa del prossimo round, fissato per  l’Ottobre prossimo, quando a Roma si svolgerà il Sinodo speciale per le Chiese del Medio Oriente. 
Don Marco Belladelli 
Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 02/02/10.
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39. Auguri di “Buon Anno!”,
quasi fuori tempo massimo.
Ho sentito dire che  fino a metà Gennaio si è ancora in tempo per fare gli auguri di “Buon Anno!”. A chi avrà la pazienza di leggermi, propongo alcuni pensieri tratti dalle omelie e dalle riflessioni di Benedetto XVI in occasione delle celebrazioni natalizie appena trascorse, con la speranza che possano risultare ben auguranti.
Comincio dall’ 8/12 scorso quando, in occasione dell’annuale omaggio alla Madonna in piazza di Spagna, rivolgendosi alla città che ha bisogno di Maria, perché le ricorda che Dio c’è, parlò degli “invisibili”, cioè di coloro che balzano improvvisamente all’attenzione delle cronache, vengono sfruttati finché suscitano morbose curiosità e poi dimenticati. Si tratta, ha osservato il Papa, di un meccanismo perverso di cui si servono i mass media per farci sentire “spettatori” , mentre “siamo tutti ‘attori’ e, nel male come nel bene, il nostro comportamento ha un influsso sugli altri”. In quei giorni sui giornali ancora si parlava della morte del transessuale Brenda e del caso Marrazzo. Tanto per ricordarci che tutto quello che facciamo, in privato o in pubblico, ha sempre delle conseguenze su gli altri, soprattutto in senso umano e morale. E non soltanto per la politica.
Nel messaggio Urbi et Orbi del giorno di Natale, prendendo spunto da una preghiera della liturgia: “Oggi su di noi splenderà la luce, perché è nato per noi il Signore”, ha detto che quel “noi”, ieri insignificante presenza di uomini e donne alla grotta di Betlemme, è diventato il “noi” della Chiesa, cioè di tutti coloro che accogliendo l’amore di Dio fanno risplendere anche oggi sul mondo la luce di Cristo. Ha poi ricordato ad una, ad una, tutte quelle situazioni nelle quali la Chiesa, anche se perseguitata, è minoranza viva, dall’Iraq al Congo, dalla Corea all’America latina, dall’Europa all’America del nord, per sottolineare che qualunque presenza cristiana nel mondo, anche la più umile, nascosta e sofferente, non è, e non sarà mai, né casuale, né insignificante. 
Un ultimo spunto dall’omelia dell’Epifania. Soffermandosi su Erode e i Sacerdoti, che danno indicazioni esatte ai Re Magi, ma si guardano bene dal muoversi di un millimetro, si è chiesto: “Qual è la ragione per cui alcuni vedono e trovano e altri no? Che cosa apre gli occhi e il cuore? Che cosa manca a coloro che restano indifferenti, a coloro che indicano la strada ma non si muovono?”.  E’ una domanda che spesso mi faccio anch’io, quando sono costretto a fare i conti con certe prese di posizioni pretestuose e ingiustificate rispetto al palesemente evidente. Il Papa ha elencato tutta una serie di ragioni: “la troppa sicurezza in se stessi, la pretesa di conoscere perfettamente la realtà, la presunzione di avere già formulato un giudizio definitivo sulle cose… Alla fine - ha aggiunto Benedetto XVI - quello che manca è l'umiltà autentica, che sa sottomettersi a ciò che è più grande, ma anche il coraggio autentico, che porta a credere a ciò che è veramente grande, anche se si manifesta in un Bambino inerme.E oggi mancano sia umiltà che coraggio, mentre abbondano superbia e viltà. Ecco perché ci si sente più soli e impauriti.
Auguro a voi e a me un 2010 con un po’ più di responsabilità per noi stessi e per gli altri, con un po’ più umiltà e coraggio, e, pensando a chi ogni giorno crede a rischio della propria vita, anche con un po’ più di cristiana serietà.  
Don Marco Belladelli. 
Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 12/01/2010.
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38. Dio oggi
In questi giorni, prossimi al Natale, c’è chi ha pensato bene di ritrovarsi a parlare di Dio. Mi riferisco al  Convegno internazionale su “Dio oggi. Con lui o senza lui cambia tutto”, svoltosi a Roma e conclusosi sabato 12/12 scorso, organizzato dal Comitato per il Progetto Culturale della CEI, presieduto dal Cardinal Camillo Ruini. Sono intervenuti illustri teologi, filosofi, artisti e scienziati di tutti campi di fama internazionale per confrontarsi su un tema e una realtà, quella di Dio, oggi tanto problematica e conflittuale come forse non lo é mai stata in altre epoche. C’è un sito a cui ci si può liberamente collegare, digitando il tema stesso del convegno, nel quale sono riportate tutte le relazioni e dove addirittura si possono riascoltare.
Qualcuno, più in sintonia con l’indifferentismo religioso attualmente di moda che non con la propria fede cristiana, aveva gufato prevedendo scenari dei soliti immancabili presenzialisti. Invece il convegno,  tenutosi presso l’Auditorium di via della Conciliazione, ha registrato un successo di presenze oltre ogni aspettativa. Più di duemilacinquecento persone attentissime, che giorno per giorno si sono alternate per ascoltare i vari relatori, secondo la scaletta del programma. Un successo che, entusiasticamente gli organizzatori hanno letto come esigenza di continuità per il prossimo futuro con altri eventi simili e complementari nei contenuti, mentre più in generale ha evidenziato, se qualcuno non lo avesse ancora capito, quanto gli uomini di oggi abbiano bisogno di sentire parlare di Dio in modo serio, e non di vedersi costretti a sorbire dissertazioni ecclesiali autoreferenziali, quando addirittura non si scade nel vaniloquio ecclesiastico.
Tra le molte cose interessanti che sono state dette, difficili da sintetizzare senza incorrere nel rischio della banalità, riprendo brevemente la parte finale della relazione del cardinal Ruini. Dopo aver indicato quelle che, a suo dire, sono oggi le tre vie per dimostrare l’esistenza di Dio, e cioè 1. il fatto evidente “che esiste qualcosa piuttosto che nulla”, 2. la constatazione che l'universo è conoscibile da parte dell'uomo, e 3. l'esperienza che l'uomo ha in sé di una legge morale, facendo eco a Benedetto XVI, ha affermato: “l’esistenza del Dio personale, pur solidamente argomentabile come abbiamo cercato di fare, non è oggetto di una dimostrazione apodittica, ma rimane l’ipotesi migliore che esige da parte nostra di rinunciare a una posizione di dominio e di rischiare quella dell’ascolto umile”. Insomma, se l’uomo avrà il coraggio e l’umiltà di “salvare” Dio, incontrerà il Dio “Salvatore”. E’ il mistero del Dio fatto uomo. E con ciò, buon Natale a tutti!
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 17/12/09.
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37. Una breccia in un altro muro secolare
Lunedì 9 Novembre 2009. Mentre a Berlino si celebrava in modo fastoso il ventennale della caduta del famoso muro, che per ventotto anni ha diviso in due la capitale tedesca, e la riunificazione della Germania, a Roma è stata finalmente pubblicata la costituzione apostolica Anglicanorum coetibus. Finalmente perché, annunciata una ventina di giorni prima dal cardinal Levada, presidente della Congregazione per la Dottrina della fede (l’ex Sant’Ufficio), tra una smentita e l’altra delle varie anticipazioni di stampa, sembrava essersi persa nei meandri della Curia romana. E’ il documento con cui Papa Benedetto XVI apre le porte ai cristiani anglicani, che da anni chiedono di essere accolti nella piena comunione con la Chiesa di Roma. Sono circa mezzo milione di persone, sparse in tutto il mondo, dall’Inghilterra all’Australia, dall’Africa all’America, aderenti alla cosiddetta Comunione Tradizionale Anglicana, che non si riconoscono più nella loro Chiesa, per le clamorose novità introdotte in questi ultimi tempi, come la concessione del sacerdozio alle donne, l’ammissione delle stesse e di preti dichiaratamente omosessuali all’episcopato. 
Una significativa breccia in un muro eretto quasi cinque secoli fa. Era infatti il 1539 quando Enrico VIII, per poter sposare Anna Bolena, faceva votare al Parlamento inglese “l’Atto di supremazia”, con cui nasceva la Chiesa Anglicana, indipendente da Roma. Dietro ai motivi personali, a spingere per la separazione da Roma c’erano forti interessi politici ed economici. La rottura fu accompagnata da un bagno di sangue tra i dignitari, il clero e i religiosi che si rifiutavano di assecondare la decisione del re. Per convincere il popolo invece, fu organizzata una campagna mediatica ‘ante litteram’, con la massiccia diffusione di opuscoli anticattolici e una capillare predicazione antipapista in tutto il territorio del regno, tanto da originare una diffidenza viscerale, ancora oggi presente in Inghilterra, per tutto quello che viene da Roma, come si è visto anche recentemente nelle reazioni un po’ sarcastiche di certi ambienti inglesi all’annunciata prossima visita del Papa in quel paese. 
In analogia con quanto oggi la Chiesa prevede per i militari, con questo documento vengono istituiti degli ‘ordinariati personali’, cioè l’equivalente delle nostre diocesi, non però legate al territorio, ma alle persone, che vi aderiscono con una iscrizione. Per valorizzare una tradizione di quasi cinque secoli, agli Anglicani viene pure concesso di poter continuare ad usare i propri libri liturgici, senza per questo che si possa parlare di un rito anglicano. Ma le due novità più sorprendenti per la cattolicità è la scelta dei Vescovi da parte della comunità, attraverso l’indicazione di una terna di nomi al Papa, e la possibilità di ordinare preti (ipoteticamente anche Vescovi) uomini sposati.
Anche questa apertura manifesta quanto Benedetto XVI abbia a cuore l’unità dei credenti. Come ebbe ha ricordare il Marzo scorso, nella lettera inviata a tutti i Vescovi del mondo in occasione della rovente polemica per la riduzione della scomunica a quattro Vescovi del gruppo di monsignor Lefebvre, per la Chiesa di oggi e per il Successore di Pietro si tratta di una priorità, rispetto a qualsiasi altro impegno. Altro aspetto importante da evidenziare è il positivo esito dell’impegno ecumenico, frutto più che del dialogo fra le diverse Comunità ecclesiali, di un riconoscimento che la Chiesa di Roma è la fedele custode di quel bagaglio di verità e di vita, tramandateci dagli stessi Apostoli.
Anche se per questo avvenimento non c’è stata l’enfasi mediatica come per il muro di Berlino, non per questo è meno rilevante per l’oggi e meno significativo per la storia. Di fatto viene superata una rottura protrattasi per secoli e l’unità della Chiesa non è un valore meramente ecclesiale, ma un contributo importante per l’unione di tutta la famiglia umana e la pacifica convivenza di tutti gli uomini.
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 17/11/09.
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36. Il papa a brescia,
omaggio a paolo vi
Domenica 8 Novembre Benedetto XVI sarà a Brescia soprattutto per un omaggio al suo predecessore, Paolo VI. Dopo la solenne concelebrazione del mattino in città, nel pomeriggio il programma prevede l’arrivo a Concesio per la visita alla casa natale e alla Chiesa parrocchiale, dove è stato battezzato Papa Montini, e l’inaugurazione del nuovo Centro “Paolo VI”. Un omaggio che non ha precedenti, e altrettanto doveroso, quanto necessario, per dare il giusto risalto alla grandezza di una persona, Giovanni Battista Montini, e ad un pontificato, spesso sottovalutato per l’importanza e la rilevanza che ha avuto sia dentro che fuori la Chiesa.
Paolo VI sarà ricordato nei secoli come il Papa del Concilio Vaticano II. Di fronte allo smarrimento creatosi tra i Padri Conciliari per la morte di Giovanni XXIII, egli seppe sapientemente governare l’assemblea di tutti i Vescovi del mondo, nel suo momento cruciale, quando ci si apprestava ad affrontare i temi teologici fondamentali della divina rivelazione, della liturgia, della Chiesa e del suo rapporto con il mondo, conducendola a felice conclusione. La seconda caratteristica importante del suo pontificato sono stati i grandi viaggi apostolici, nei quali ha toccato tutti e cinque i continenti. Ha cominciato dalla Terra Santa, nel Gennaio del ’64, per poi continuare con l’India, la Colombia, gli Stati Uniti, l’Uganda, per finire con le Filippine e varie tappe in Oceania, da Sidney, alle Isole di Samoa, nel 1970. Lui stesso, spiegando il significato della scelta del nome, aveva sottolineato che era ormai giunto il tempo di imitare l’Apostolo delle genti nel ripercorrere le vie del mondo intero per annunciare di nuovo il Vangelo a tutti gli uomini. Un ricordo personale: ero ancora un bambino, quando con grande emozione assistetti per televisione al ritorno di Paolo VI dalla Palestina. Percorse tutto la strada, dall’aeroporto fino a San Pietro, in piedi sull’auto scoperta per salutare la folla esultante che gli faceva ala lungo tutto il tragitto. Non c’era un metro deserto. Papa Montini è stato poi l’uomo del dialogo dentro e fuori la Chiesa. A questo tema e a questo metodo di rapporto con gli altri ha dedicato un un’ampia parte della sua prima enciclica, Ecclesiam Suam. Tra i risultati più sorprendenti del suo dialogare va ricordato prima di tutto lo storico abbraccio con il Patriarca di Costantinopoli, Atenagora, dopo più di novecento anni in cui le due Chiese, quella d’Occidente e quella d’Oriente, si erano ignorate. In tempi in cui il mondo era ancora prigioniero delle ideologie, della guerra fredda e diviso in due blocchi contrapposti, e nello stesso tempo era turbato dalla contestazione e dal quel fenomeno ancora più travolgente della secolarizzazione, egli ha cercato il dialogo con tutti, credenti e non credenti, fino all’ultimo. Anche con gli uomini delle Brigate Rosse, in occasione del tragico epilogo del sequestro Moro. Paolo VI poi ha il merito di aver scelto i tre suoi successori. E’ stato lui infatti ad elevare alla dignità cardinalizia Luciani, Wojtyla e Ratzinger.
Ma la ragione principale per cui Benedetto XVI si sente debitore nei confronti Paolo VI è la profonda sintonia spirituale e culturale, che esiste tra i due, a cominciare dal modo d’intendere ed interpretare il Concilio Vaticano II. Il criterio del rinnovamento nella continuità, assunto da Ratzinger come punto fermo del suo pontificato, era già stato fissato con chiarezza da Montini. Una sintonia che ha trovato una importante conferma nell’ultima enciclica di Benedetto XVI, la Caritas in Veritate, dove viene esplicitamente richiamata e riassunta la Populorum Progressio di Paolo VI, e se ne sviluppa il pensiero e le prospettive, tenendo conto dei cambiamenti intervenuti nel corso degli ultimi quarant’anni.
Papa Ratzinger non ha mai mancato occasione per manifestare grande affetto e stima per Paolo VI. Basta ricordare quanto disse lo scorso anno, nel trentesimo anniversario della sua morte, quando definì “sovrumano” il merito per il buon esito del Concilio ed evidenziò “le sue spiccate doti di intelligenza e il suo amore appassionato alla Chiesa ed all’uomo” come un dono di Dio fatto alla Chiesa e al mondo.
Don Marco Belladelli
Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 10/11/09.
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35. Il Crocifisso a scuola
Molto probabilmente la sentenza della Corte europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo, che imporrebbe allo Stato italiano di togliere i crocifissi dalle aule scolastiche, perché, a loro dire, violerebbe “il diritto dei genitori a educare i figli secondo le loro convinzioni”, non verrà mai applicata. Tale dispositivo giuridico dovrebbe essere ratificato dal Consiglio europeo, dove siedono i Ministri degli esteri dei 25 Paesi aderenti all’Unione Europea, ciascuno dei quali a loro volta  ha eluso nel corso degli anni uno o più di questi pronunciamenti. Per diventare esecutivi infatti, c’è bisogno dell’unanimità di tutti gli stati membri, condizione raramente realizzatasi.
Che prima o poi, per altre vie, si arrivi comunque a togliere il crocifisso dalle aule scolastiche, anche questo non è improbabile. In Spagna, a Valladolid, un giudice lo ha già imposto un anno fa. Del resto il crocifisso, come arredo e simbolo è entrato nella scuola italiana con un regio decreto del 1857, prima dell’unità d’Italia, di cui nel vicino 2011 celebreremo le glorie e i difetti dei suoi centocinquanta anni.
Ma il vero paradosso di tutta la vicenda, resta il fatto che il crocifisso venga osteggiato proprio in nome di quei diritti dell’uomo, di cui poco meno di un anno fa si sono celebrati con tanta enfasi e solennità i sessant’anni della promulgazione, diritti originati da quella cultura e spiritualità cristiana di cui il crocifisso è l’espressione più alta. Tant’è vero che i mussulmani, non riconoscendosi pienamente in quella carta dell’ONU, ne hanno elaborato una loro.
Oltre la questione della presenza o meno del crocifisso in aula, ciò che mi ha più incuriosito è il dibattito che si è sviluppato attorno al problema e le relative argomentazione a supporto delle varie posizioni. Mi ha colpito soprattutto chi da una prospettiva laica e laicista, richiamandosi alla dimensione squisitamente interiore e individuale del sentimento religioso, ne invoca pure la necessaria purezza. Insomma chi è senza dio e senza religione, pretende che chi ne professa una sia coerente ed autentico: io che non credo, chiedo a te, credente, di essere ciò che io non sono, non voglio essere e che con il mio modo di pensare e di vivere contraddico e rinnego. Ci vuole una bella forza a giudicare i cristiani, con criteri cristiani, dopo aver rifiutato i contenuti di quella fede sia come religione, sia come cultura, in nome di una affermazione assoluta della propria libertà, nella forma più radicalmente individualista. Logica vorrebbe che ciascuno fosse coerente con se stesso, ma purtroppo il fariseismo è una patologia dello spirito umano trasversale.
Non si sarà mai ripetuto abbastanza che il cristianesimo non è assolutamente relegabile alla sfera della interiorità individuale del singolo. Per sua stessa natura è incarnazione, cioè principio divino/umano destinato, secondo l’immagine della parabola evangelica, a far fermentare tutta la pasta (cfr Mt 13,33). E il suo fine è la trasformazione di tutto l’uomo, in ogni sua dimensione, e la ricapitolazione di tutta la storia in Cristo, nuovo Adamo e unico salvatore di tutta l’umanità (cfr Gv 12,32).
Circa poi la purezza di cuore richiesta dagli atei ai credenti, vorrei loro ricordare: è vero che Gesù ha detto di essere semplici come le colombe, unendo però questa affermazione alla necessità di essere prudenti come i serpenti (cfr Mt 10,16). Secondo la morale cattolica, una delle espressioni della prudenza è la tolleranza del male. Non potendo giustificarsi un mancanza ancor più grave, per eliminare quel male (per esempio compiere un’ingiustizia o addirittura un omicidio), la tolleranza va considerata come un male minore. L’assurdo dei nostri tempi è che invece, in nome del relativismo dilagante, secondo cui un’opinione vale l’altra, si è diventati intolleranti di ciò che è il Vero e il Bene, scritti con la maiuscola, tant’è che anche il crocifisso, da sempre simbolo di amore assoluto oltre l’umana ingiustizia e la sofferenza insopportabile, da fastidio.
Don Marco Belladelli
Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 07/11/09.
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34. don carlo gnocchi
Prima ti dicevo: ciao don Carlo. Adesso ti dico: ciao, san Carlo”. Sono le parole profetiche con cui un mutilatino ha salutato don Gnocchi il 1 Marzo 1956, alla conclusione dei suoi funerali, celebrati dall’allora arcivescovo di Milano, il cardinal Montini, a cui parteciparono 100.000 persone. Nel giorno in cui avrebbe compiuto 107 anni, queste parole sono diventate una realtà. Domenica scorsa, 25 Ottobre, davanti a decine di migliaia di persone, in piazza Duomo, don Carlo Gnocchi è stato solennemente proclamato Beato.
Nato a San Colombano al Lambro, oggi provincia di Lodi, il 25 Ottobre 1902, da Enrico, operaio marmista, e Clementina Pasta, sarta di professione, a soli cinque anni resta orfano del padre, morto per la silicosi. La famiglia si trasferisce in Brianza, a Montesiro, dove in poco tempo muoiono anche i due fratelli maggiori (Mario nel 1908 e Andrea nel 1915) per tubercolosi. “Due miei figli li hai già presi, Signore. Il terzo te l'offro io, perché tu lo benedica e lo conservi sempre al tuo servizio”. E’ la preghiera con cui mamma Clementina, donna forte e dalla fede incrollabile, affida Carlo a Dio, nel giorno del funerale di Andrea. Sotto la guida e l’esempio di don Luigi Ghezzi, entra in seminario e diventa prete nel 1925. L’inizio del suo ministero sacerdotale è caratterizzato da un forte impegno per l’educazione dei giovani, prima a Cernusco sul Naviglio, poi a San Pietro in Sala a Milano e dal 1936 come direttore spirituale presso l’Istituto Gonzaga dei Fratelli delle Scuole Cristiane. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, per non abbandonare i giovani a cui era molto legato, parte volontario per il fronte con gli alpini prima in Grecia ed Albania e dal ’42 in Russia con la Tridentina. Scampato miracolosamente alla carneficina degli oltre 70.000 morti dell’Armir, è stato per tutti i soldati italiani che lo hanno incontrato un insostituibile sostegno morale e spirituale, tanto che bastava il suo nome per ridare coraggio alle truppe sbandate, durante la disastrosa ritirata di Russia. Di questa suo impegno e carisma troviamo traccia anche nel romanzo di Eugenio Corti Il cavallo rosso (consiglio a tutti di leggerlo!). Profondamente segnato dal dolore innocente delle decine di migliaia di vittime, negli anni successivi al conflitto bellico si occupa di coloro che per tutta la loro vita avrebbero portato su di sé le conseguenze della guerra. Inizia prima con gli orfani, per poi prendersi cura dei mutilatini, fino a guadagnarsi il titolo di Padre dei mutilatini. Muore il 28 febbraio 1956 per un tumore, compiendo ancora un ultimo gesto di grande generosità e solidarietà, dona le cornee per dare la vista a due suoi ragazzi.
Nel suo libro “Cristo con gli alpini”, riflettendo sulle drammatiche esperienze della campagna di Russia, dice: “Ho conosciuto l’uomo, l’uomo nudo, completamente spogliato…” e descrive di seguito le atrocità a cui ha assistito nella lotta fratricida per la sopravvivenza. Ma conclude dicendo: “…eppure, in tanta desertica nudità umana, ho raccolto anche qualche raro fiore di bontà”. Nonostante tutto, don Carlo ha sempre creduto fermamente nell’uomo e nella possibilità di ciascuno di diventare una persona libera. Come disse all’amico, don Giovanni Barbareschi, prima di morire: “Perché l’uomo è uomo solo se ama”. Per lui l’amore era il vertice dell’agire umano. E’ questo lo spirito che ha spinto don Gnocchi a non limitarsi semplicemente assistere i mutilatini, garantendo loro vitto e alloggio, ma a volere la loro riabilitazione come persone, perché anche il più sfortunato dei suoi ragazzi tornasse a vivere, a sperare e a gioire. A monte della sua carità c’era la fede del cristiano, imparata dalla madre e maturata giorno per giorno nel ministro di prete.
Don Carlo era solito ripetere: “O si vive come si pensa, o si finisce a pensare come si vive”. Pensando a come vanno le cose oggi, c’è materia per riflettere. Grazie, don Carlo, per la tua forza spirituale e per la tua rettitudine morale. E Dio voglia che non manchino mai tra noi uomini e preti come te.
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 29/10/09.
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33. L’Africa, che interessa poco e niente.
Forse perché assorbiti dalle questioni interne, dal lodo Alfano al congresso del PD, o dai grandi temi internazionali, o forse più probabilmente perché l’Africa interessa poco e niente, sta di fatto che ad una settimana dalla sua apertura la stampa ha dedicato scarsissima attenzione alla seconda assemblea speciale del Sinodo per l’Africa, aperto solennemente in San Pietro da Benedetto XVI domenica 4 Ottobre. A quindici anni di distanza dal primo, svoltosi sempre a Roma nel 1994, per il secondo Sinodo si è scelto di confrontarsi sul tema: “La Chiesa in Africa a servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace. ‘Voi siete il sale della terra … Voi siete la luce del mondo ’ (Mt 5,13.14)”.
Quando diciamo “Africa”, parliamo di un grande continente, ricchissimo di risorse naturali di ogni genere, dove vivono più di un miliardo di persone (a cui vanno aggiunti gli altri 200 milioni e oltre sparsi nel mondo), la maggior parte dei quali si trova in condizione di estrema povertà e miseria. Negli ultimi vent’anni si sono fatti passi avanti, come per esempio alcuni timidi segni di cultura democratica che va via, via affermandosi a livello politico e istituzionale e una crescita del PIL che in media si aggira attorno al 5% annuo, con alcuni paesi arrivati fino al 20%. Accanto a questi fermenti positivi, permangono molti aspetti problematici, quando addirittura non si ha a che fare con situazioni che, invece di progredire, regrediscono senza soluzione di continuità. A cominciare dalla corruzione, che scoraggia gli investimenti e l’iniziativa imprenditoriale, per continuare con lo stravolgimento di alcuni valori tradizionali della società africana, quali la famiglia, la vita sociale rurale, il rapporto tra le generazioni, in particolare il ruolo degli anziani, e il sistema socio-economico. Non vanno dimenticati i numerosi conflitti locali e regionali, dove si massacrano migliaia di persone innocenti, quando addirittura non si trasformano in veri e propri genocidi, come è già accaduto nel 1994 in Rwanda e come si è rischiato si ripetesse pure in Congo.  
Molto spesso poi, la buona volontà di chi vuole combattere povertà, miseria e le gravi condizioni di salute delle popolazioni, si scontra con il cattivo funzionamento degli apparati statali, tanto che i numerosi e lucrosi (per l’Africa!) programmi di aiuto economico-sociale promossi dalle istituzioni finanziarie internazionali si sono spesso rivelati funesti. L’imposizione dall’esterno indebolisce sempre più la fragile economia africana, contribuendo invece ad aumentare il degrado sociale, con relativo aumento delle criminalità, l’allargamento del divario tra ricchi e poveri, l’esodo dalle zone rurali e la sovrappopolazione delle città. In Africa manca ancora un mercato interno, che favorisca le produzioni locali ed eviti che i prezzi dei prodotti siano fissati all’estero. A tutto questo poi si aggiungono le emergenze sanitarie, prima fra tutte l’AIDS, che continua a mietere vittime, sia tra la popolazione adulta che tra i giovani, e il problema delle migrazioni clandestine verso l’Europa, soprattutto di questi ultimi.
Nel dibattito in corso al Sinodo, al quale partecipa personalmente anche il Papa, compatibilmente con tutti i suoi impegni, i Vescovi africani hanno coraggiosamente denunciato il neocolonialismo delle multinazionali, che continuano a sfruttare le immense risorse naturali, devastando impunemente territorio e tessuto sociale, e la nefasta opera di molte ONG che, dietro la facciata degli aiuti internazionali, promuovono politiche e ideologie di assoluta dipendenza all’occidente. Non va poi dimenticato il fondamentalismo che, radicalizzando le differenze etniche, tribali, religiose e culturali, è una delle prime cause di sanguinosi e insanabili conflitti.
E’ giunto anche per l’Africa il tempo del riscatto da queste catene, per diventare protagonista di crescita e sviluppo, in consonanza con la propria identità e cultura. E la Chiesa, in quanto portatrice di una specifica prassi di trasformazione sociale, fondata sul Vangelo e sul suo messaggio di giustizia e di pace, non se ne disinteressa, anzi è presente per farsi carico dei problemi e proporsi come uno dei principali attori sociali, capace di favorire riconciliazione e promozione umana.
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 14/10/09.
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32. Caritas in Veritate
Dopo quasi due anni di attesa dalla sua annunciata pubblicazione, dopo consultazioni a livello mondiale e ripetute revisioni, problemi di traduzione in latino, dovuti ai neologismi e ai termini particolarmente complessi in uso oggi nel mondo finanziario, dopo la firma del Papa, apposta Lunedì 29 Giugno scorso, Martedì prossimo, 7 Luglio, avremo finalmente tra le mani la tanto attesa terza enciclica di Benedetto XVI sui temi socioeconomici, intitolata Caritas in Veritate. Come da antica consuetudine, vengono usate le prime due parole del testo ufficiale in latino. Si sa già che in prima battuta l’editrice Vaticana stamperà 150 mila copie. Il libretto sarà composto di 141 pagine, divise in 6 capitoli. Oltre all’edizione in italiano, sono previste traduzioni anche in inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese e cinese.
Per quanto riguarda il contenuto lo ha così sintetizzato lo stesso Ratzinger nell’Angelus di Domenica 28/06: “approfondire alcuni aspetti dello sviluppo integrale nella nostra epoca, alla luce della carità nella verità”. Sempre secondo lo stesso Pontefice, vengono ripresi temi già presenti nella 'Populorum progressio' di Paolo VI, pubblicata nel Marzo del 1967, oltre quarantadue anni fa. Diversi organi di stampa dicono che saranno affrontati anche altre materie, quali lo sviluppo dei popoli, la fratellanza, l'ambiente e la crisi economica. Già il titolo è tutto un programma. Si tratta di una famosa affermazione di San Paolo nella lettera agli Efesini 4,15 e che il Papa ha recentemente commentato, nell’omelia di chiusura dell’Anno Paolino. A suo dire con questa espressione l’Apostolo descrive in maniera positiva la fede “veramente adulta”, nel senso di matura. Mentre il potere del male è la menzogna, “La verità sul mondo e su noi stessi si rende visibile quando guardiamo a Dio. E Dio si rende visibile a noi nel volto di Gesù Cristo. Guardando a Cristo riconosciamo un’ulteriore cosa: verità e carità sono inseparabili. In Dio, ambedue sono inscindibilmente una cosa sola: è proprio questa l’essenza di Dio. Per questo, per i cristiani verità e carità vanno insieme. La carità è la prova della verità. Sempre di nuovo dovremo essere misurati secondo questo criterio, che la verità diventi carità e la carità ci renda veritieri.”.
“Il Foglio”, quotidiano diretto da Giuliano Ferrara, sabato scorso ha pubblicato due paragrafi, i nn. 34 e 35. Per stuzzicare la vostra curiosità a leggerla integralmente, vi riassumo qui di seguito il loro contenuto.
Nel primo numero si considera la contraddizione antropologica dell’uomo moderno. Da una parte il suo essere “fatto per il dono, che ne esprime e attua la dimensione di trascendenza”, mentre dall’altra parte, la modernità lo ha “erroneamente convinto di essere il solo autore di se stesso, della sua vita e della società. E’ questa una presunzione, conseguente alla chiusura egoistica in se stesso”. L’uomo autosufficiente, e che si sente capace da solo di eliminare il male dalla storia, ha fatto coincidere la felicità e la salvezza con le forme materiali del benessere e con azioni di continuo riequilibrio sociale. Si prende ad esempio l’economia, la cui pretesa indipendenza da qualsiasi interferenza etica per moltiplicare in modo esponenziale la ricchezza, alla fine si è rivelato un abuso, che ha bruciato una quantità immensa di ricchezza e ha prodotto povertà. A questo punto segue l’esortazione a non spegnere la speranza cristiana nel cuore dell’uomo, perché non si tratta semplicemente di un bene spirituale. La Speranza è una risorsa sociale, che va messa al servizio dello sviluppo integrale dell’uomo, costruito giorno per giorno nella libertà e nella giustizia.
Nel secondo paragrafo si parla del libero mercato. Prima del mercato c’è un dato contesto sociale e politico di riferimento e c’è anche una intensa trama di relazioni interumane su cui esso stesso poggia. Come si è visto in questi ultimi tempi, “Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica”. Insomma, prima del mercato c’è l’uomo, e la bontà del mercato, dipende dalla sua onestà e dal suo desiderio di giustizia.
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 14/07/09.
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31. La fede adulta
Qualche mese fa, durante una cena con amici, come spesso accade quando è presente un prete, il discorso è andato a finire quasi naturalmente sulla Chiesa, in particolare sulla Chiesa locale e sui chiari di luna che sta attraversando per la carenza di sacerdoti, l’accorpamento delle parrocchie e con tutte le conseguenze che questo comporta. Per capire il presente, è venuto spontaneo il confronto con il passato, in questo caso con un passato molto recente, dove si trovano immediatamente le cause e le ragioni del malessere di oggi. Si raccontava di cose vissute circa venticinque-trent’anni fa, cioè tra la fine anni settanta e la prima metà degli anni ottanta tanto per intenderci, quando con la pretesa di formare cristiani adulti si sono proposti, e anche un po’ imposti, non soltanto ai ragazzi, ma anche ai loro genitori, ritmi di catechesi al limite dell’esasperazione. Ricordo che un carissimo amico sacerdote aveva definito questi programmi pastorali delle mostruose macchine trita fumo. Credo che non fosse tanto lontano dalla verità. La maturità cristiana a cui si mirava era intesa più sul piano psicologico della consapevolezza umana, che non su quello della grazia divina e degli effetti positivi derivanti dalla sua accoglienza. Un fraintendimento non da poco, che alla fine legittima anche gli insuccessi di tante attività pastorali.
Da allora non avevo più sentito parlare di fede adulta, fino a quando alcuni anni fa questa espressione è stata adottata da qualche politico di razza di area cattolica, in occasione del referendum per l’abrogazione della legge sulla fecondazione assistita, per smarcarsi dalle posizioni della Chiesa sul tema in questione e, più in generale, sui cosiddetti temi eticamente sensibili, di cui in questi ultimi tempi si discute molto.
Domenica 28/06, durante la celebrazione di chiusura dell’Anno Paolino, è stato il Papa stesso a parlare di nuovo di fede adulta per spiegarne il significato originale, secondo il pensiero di colui che per primo ha usato questa espressione, l’apostolo San Paolo. La fede matura consiste nel coraggio di aderire a quanto la Chiesa insegna, anche quando questo va contro gli schemi del modo contemporaneo. Dopo aver criticato coloro in nome della loro autonomia e libertà di coscienza prendono della fede cristiana ciò che fa loro comodo e rigettano invece ciò che indispone, o comunque non è in sintonia con il modo di pensare che va per la maggiore, insomma vive un cristianesimo un po’ alla fai da te, il Papa ha aggiunto: “La fede adulta non si lascia trasportare qua e là da qualsiasi corrente. Essa s’oppone ai venti della moda. Sa che questi venti non sono il soffio dello Spirito Santo; sa che lo Spirito di Dio s’esprime e si manifesta nella comunione con Gesù Cristo”.
Se la riflessione si fermasse a questo punto, qualcuno potrebbe ridurre il problema della fede adulta ad una semplice questione morale di tipo generale. In qualsiasi situazione o ambito del vivere umano, a chiunque è sempre richiesto un minimo di coerenza. Continuando però nell’analisi del pensiero di San Paolo, Ratzinger evidenzia che l’interesse ultimo del cristiano e del suo pensare e vivere secondo la fede, non è il proprio bene personale, né tanto meno il solo bene della Chiesa, ma il tutto nella sua integrità, cioè l’universo intero e la sua trasformazione in Cristo. Insomma chi vive della vera fede, appunto di una fede adulta, contribuisce al vero progresso del mondo. Per dirla ancora con Benedetto XVI: “Dove aumenta la presenza di Cristo, là c’è il vero progresso del mondo. Là l’uomo diventa nuovo e così diventa nuovo il mondo”.
L’incidenza di una fede (o se si preferisce di una vita) cristiana veramente adulta o matura, che dir si voglia, non la si misura allora semplicemente sul piano della psicologia del singolo individuo, né tantomeno su quello della mera dimensione morale di una persona, ma ha che fare con la trasformazione in senso evangelico di tutto il mondo. Forse per questo, qualcuno ha detto: “Il genere umano vive grazie a pochi, se non ci fossero loro il mondo perirebbe” (Pseudo-Ruffino).
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 07/07/09.
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30. La crisi del potere
il numero di Giugno di Aggiornamenti Sociali, la rivista milanese dei Padri Gesuiti, pubblica un articolo molto duro del professor Rocco D’Ambrosio, docente di filosofia politica alla Pontificia Università Gregoriana di Roma, contro la classe dirigente italiana, che sarebbe terribilmente in crisi. A suo dire, chi detiene oggi il potere in Italia appare “umanamente povero”, si rivela mancante in “formazione etica” e possiede pure “scarse qualità tecniche” per governare l’ambito specifico di sua competenza. Secondo il professore, non c’è bisogno di fare nomi e cognomi, perché il problema è trasversale, sia in senso verticale, che orizzontale, cioè interessa i vertici come i livelli più bassi di responsabilità, quale può essere un capo squadra o un capo gruppo; e riguarda tutti gli ambiti del vivere sociale: istituzioni e amministrazioni, politica ed economia, associazionismo pubblico e privato, cultura e sport, lavoro e volontariato, religione e famiglia. Insomma non si salva proprio niente e nessuno. Il fenomeno è cominciato verso la fin degli anni ’70, quando è entrata in campo una classe dirigente fatta di immaturi e di incapaci “il cui operato è segnato da un senso di superiorità nei confronti di leggi e procedure, oltre che dalla mancanza di esemplarità nel comportamento pubblico e privato, fino ad arrivare - denuncia D'Ambrosio - ad essere coinvolti in reati di corruzione e associazione a delinquere, anche di stampo mafioso”.
Nell’articolo vengono anche indicate le contromosse per ovviare a questa situazione di degrado. Le nuove classi dirigenti dovranno essere formate sulla direttrice della “partecipazione-responsabilità”, a cominciare dalla famiglia, per poi continuare nella scuola, nelle università e in tutte le agenzie sociali che si propongono finalità formative. L’obiettivo comune da perseguire è quello di alzare il livello etico-culturale di chi si prepara ad assumere nella società responsabilità direttive, e di educarlo “ad essere persona”. Vengono anche indicati i criteri per valutare il grado di responsabilità di un leader, tra cui sono inseriti anche gli aspetti personali, come per esempio “il suo progetto di vita, i fondamenti del suo pensiero, le modalità della sua azione, i mezzi che utilizza per esercitare il suo potere”. I primi a dover verificare l’adeguatezza o meno del leader sono naturalmente i più stretti collaboratori, ai quali spetta anche la responsabilità, se fosse necessario, prima di ritirare il sostegno e poi addirittura di opporsi.
La genericità del discorso non impedisce di vedere un collegamento neanche tanto nascosto alle recenti vicende che hanno interessato la vita privata del Presidente del Consiglio.
E’ comunque innegabile che l’amara riflessione del professor D’Ambrosio metta il dito su una piaga molto più vasta e dolorosa. Quando si parla di povertà umana, di mancanza di etica e di esemplarità, di incompetenza, di immaturità, accompagnata da presunta superiorità e via dicendo, della classe dirigente o di chi esercita un qualsiasi potere nel nostro paese, si va a toccare un fenomeno e un problema davvero cruciale per il presente e il futuro della nostra società. La contraddizione tra l’incoerenza umana ed etica di un capo e la sua pretesa di proporsi come modello e guida, alla fine ha dei costi che vanno ben al di là del mero interesse economico, in quanto nella responsabilità del potere sono in gioco aspetti e valori fondamentali per la vita, la crescita e lo sviluppo di un qualsiasi corpo sociale. Viene in mente il detto evangelico, secondo il quale quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno nel fosso (cfr Mt 15,14).
Nel pensiero di D’Ambrosio c’è pure una forte assonanza con il grido d’allarme lanciato dal Papa il Maggio scorso, in occasione dell’annuale assemblea della Cei, e raccolto dal suo Presidente, il cardinal Bagnasco, a proposito di una emergenza educativa per l’Italia di oggi. L’educazione esige una scelta personale, magari anche sofferta, attraverso la quale ci si appropria dei valori dei significati del vivere. Chi non ha voluto o saputo scegliere per sé, come potrà esigerlo o addirittura imporlo agli altri?
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 03/07/09.
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29. L’inquinamento spirituale
In questi giorni, le più importanti testate giornalistiche nazionali sia radiotelevisive, sia della carta stampata, hanno dato grande risalto ad alcuni passaggi dell’omelia che il Papa ha tenuto Domenica scorsa 31/05, solennità di Pentecoste.  Prima di tutto voglio ricordare che la Pentecoste, nonostante non sia accompagnata da tradizioni ed esteriorità particolari, come per esempio il Natale, non è una Domenica qualsiasi dell’anno, ma, volendo fare una scaletta, tra tutte le celebrazioni cristiane è la festa più importante, dopo la Pasqua. Già questo fa presupporre che il Papa per primo si sia impegnato a dare alla Chiesa e al mondo un messaggio forte.
Va pure detto che la prima preoccupazione di Ratzinger nelle sue omelie è quella di illustrare il valore salvifico della festa o dell’evento particolare che si celebra, per aiutare i fedeli ad accogliere e a vivere il mistero di grazia in esso presente. Commentando quindi l’evento della Pentecoste, così come lo descrive san Luca al cap. 2 degli Atti degli Apostoli, a proposito del vento impetuoso, il segno sensibile attraverso il quale si percepisce la presenza e l’azione divina dello Spirito Santo, in questo caso molto simile ad una vera e propria tempesta che ha invaso il cenacolo dove erano riuniti Maria e gli Apostoli in preghiera, ha paragonato lo Spirito Santo all’aria, elemento essenziale per la vita dell’uomo sulla terra, e ha detto: Quello che l’aria è per la vita biologica, lo è lo Spirito Santo per la vita spirituale”. Sempre in linea con lo stesso paragone ha poi aggiunto: “E come esiste un inquinamento atmosferico, che avvelena l’ambiente e gli esseri viventi, così esiste un inquinamento del cuore e dello spirito, che mortifica ed avvelena l’esistenza spirituale”, facendo anche alcuni esempi concreti, per non essere frainteso: “ad esempio immagini che spettacolarizzano il piacere, la violenza o il disprezzo per l’uomo e la donna. ”. Ma, a detta del Papa, il vero problema è che in nome della libertà l’inquinamento spirituale viene non solo tollerato, ma addirittura giustificato: “A questo sembra che ci si abitui senza difficoltà. Anche questo è libertà, si dice, senza riconoscere che tutto ciò inquina, intossica l’animo soprattutto delle nuove generazioni, e finisce poi per condizionarne la stessa libertà”.
Tra i tanti commenti pro e contro che ho letto e ascoltato, mi ha colpito quello di chi facendo finta di non capire, ha spostato la questione su un altro piano, rimandando il problema al mittente. Secondo il sociologo Alberoni infatti è la Chiesa oggi ad aver perso il contatto con le nuove generazione. Il Papa parla esclusivamente ad essa e per essa, quindi l’inquinamento spirituale è qualcosa che la riguarda in prima persona. Molti altri hanno fatto lo stesso gioco logicamente scorretto, quello cioè di cambiare il punto di vista, per poi concludere che la riflessione del Papa è fuori luogo o del tutto non pertinente. Altri invece, forti della superficialità del mestierante, propria di chi è abituato a semplificare fino alla banalità, sono partiti per la tangente, parlando e disquisendo di inquinamento “morale”, termine ed orizzonte del tutto assente dal testo papale.
Prendo atto, mio malgrado, dell’ennesimo tentativo di mistificazione della verità e della realtà, e soprattutto della pregiudiziale chiusura a qualsiasi dialogo con la Chiesa, e con chi la rappresenta, da parte dei soliti ambienti culturali ad essa refrattari, anche quando il messaggio in sé rimane molto semplice e chiaro per tutti, sia per chi lo voglia ascoltare, sia per chi lo voglia ignorare,: “La metafora del vento impetuoso di Pentecoste fa pensare a quanto invece sia prezioso respirare aria pulita, sia con i polmoni, quella fisica, sia con il cuore, quella spirituale, l’aria salubre dello spirito che è l’amore!”. Paradossalmente, come lo smog delle nostre città aumenta il desiderio e il bisogno dell’aria pura e fresca di montagna per i polmoni, così coloro che negano un qualsivoglia inquinamento spirituale, rendono ancor di più  straordinariamente necessaria quell’aria pura dello Spirito, cioè l’amore che fa bene al cuore, perché tutto ciò che non è amore avvelena, condiziona e rende meno liberi.
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 03/06/09.
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28. A quando la riconciliazione tra Chiesa e Sinagoga?
Che il passaggio in Israele sarebbe stato per Benedetto XVI molto più ostico, rispetto ai tre giorni di squisita ospitalità araba di cui ha beneficiato in Giordania, era in qualche modo prevedibile. Nessuno, più di Ratzinger, prima come teologo e poi da Papa, ha dedicato tanta attenzione ai rapporti con gli Ebrei (2005: vista alla sinagoga di Colonia; 2008: visita alla sinagoga di New York; udienze romane a diverse organizzazioni ebraiche internazionali). Tuttavia rimane da parte loro nei suoi confronti una sorta di diffidenza, evidenziatasi in modo tanto inequivocabile proprio nei giorni del suo pellegrinaggio a Gerusalemme. Se si fa eccezione della cortesia usatagli dal Presidente Simon Peres al suo arrivo in Israele, sia la visita allo Yad Vashem e al muro del pianto, che l’incontro con il Gran Rabbinato sono stati caratterizzati da momenti di freddezza, al limite dell’imbarazzo. A molti commentatori israeliani non è piaciuto ciò che il Papa ha detto al museo dell’olocausto, perché, a loro dire, in quel luogo doveva prima di tutto chiedere perdono ai sei milioni di vittime come tedesco e come cristiano. Alcuni hanno sottolineato che non ha visitato tutte le sale del memoriale, forse per non trovarsi davanti alla famosa foto del suo predecessore, Pio XII, con relativa didascalia, in cui lo si accusa di essere uno dei responsabili dello sterminio. E infine, secondo altri, non ha dimostrato la commozione di Giovanni Paolo II, né tantomeno ha suscitato l’emozione del suo augusto predecessore.
Consapevole di trovarsi in uno dei luoghi di maggiore criticità sociopolitica di tutto il pianeta, da cui dipende la pace mondiale, nell’omelia di Martedì 12, nella valle di Giosafat, che separa il monte degli Ulivi dalla città di Davide, Papa Ratzinger ha evidenziato il paradosso di Gerusalemme, da cui deriverebbero chiusure e rigidità. Da una parte c’è la sua vocazione e missione di città santa, città della pace, e dall’altra il suo destino secolare di trovarsi al centro di conflitti e divisioni, senza soluzione di continuità. Le contrapposizioni generano sofferenze, che a loro volta irrimediabilmente induriscono i cuori e impediscono al presente ogni possibile via alla pace: “In questa Santa Città dove la vita ha sconfitto la morte, dove lo Spirito è stato infuso come primo frutto della nuova creazione, la speranza continua a combattere la disperazione, la frustrazione e il cinismo, mentre la pace, che è dono e chiamata di Dio, continua ad essere minacciata dall’egoismo, dal conflitto, dalla divisione e dal peso delle passate offese.” 
Nell’incontro del mattino con i membri del Gran Rabbinato di Gerusalemme, per non smentirsi a proposito della sua disarmante trasparenza, aveva invece fatto esplicito riferimento al quel sentimento di sospettosa prevenzione con cui è stato accolto: “La fiducia è innegabilmente un elemento essenziale per un dialogo effettivo.”. Come a voler sottolineare che per dialogare bisogna essere in due, disposti da ambo le parti a far credito di buona fede al proprio interlocutore per poterlo ascoltare.
Benedetto XVI è andato in Israele pronto ad imbastire una vera riconciliazione tra cattolici ed ebrei: “Oggi ho l’opportunità di ripetere che la Chiesa Cattolica è irrevocabilmente impegnata sulla strada decisa dal Concilio Vaticano Secondo per una autentica e durevole riconciliazione fra Cristiani ed Ebrei”. Suo malgrado a dovuto prendere atto che non è stato possibile compiere il benché minimo passo avanti su questa strada. Un’occasione persa che rischia di trasformarsi in un vero e proprio boomerang per chi ha chiuso la porta. Sembra quasi che Ratzinger più entra in sinagoghe e più vede aumentare le resistenze nei suoi confronti. All’orizzonte rimane la prossima visita alla sinagoga di Roma in programma per l’autunno prossimo. Stiamo a vedere se, giocando in casa, sarà possibile superare una volta per tutte i mal di pancia ebraici, per cominciare concretamente a guardare insieme alla durevole riconciliazione.
Don Marco Belladelli
Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 16/05/09.
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27. Giordania, “Terra Santa” per il dialogo e la convivenza pacifica tra cristiani e mussulmani
Quando si dice “Terra Santa”, si pensa subito ai luoghi della vita di Gesù e alle città tradizionalmente meta dei pellegrinaggi dei cristiani, vale a dire Gerusalemme, Betlemme, Nazareth e dintorni. Ma molti degli avvenimenti raccontati nell’Antico testamento, che hanno avuto come protagonisti i Patriarchi, i Profeti e i vari Re d’Israele, ugualmente importanti per la nostra fede, si sono svolti in quello che oggi è territorio del Regno di Giordania, da dove venerdì 08/05 Benedetto XVI ha voluto cominciare il suo pellegrinaggio. Il programma del viaggio papale prevedeva all’arrivo l’inaugurazione del centro per handicappati Regina Pacis di Amman, dove l’ 80% dei ricoverati sono mussulmani. Sabato 10/05, prima di far visita all’antica basilica del “memoriale di Mosè” sul monte Nebo, luogo straordinario per riconoscere le comuni radici di ebrei e cristiani e per riaffermare “l’inseparabile vincolo” che unisce la Chiesa e il popolo eletto, ha benedetto la posa della prima pietra della futura Università cattolica di Màdaba, città posta a circa 50 KM a sud della capitale, in cui risiedono la maggioranza dei cristiani giordani. Nello stesso giorno ha visitato la moschea dedicata al defunto Re Hussein. Domenica mattina poi il Papa ha celebrato la S. Messa con tutte le Comunità Cattoliche di diverso rito diffuse in Medio Oriente, mentre nel pomeriggio si è recato al luogo del battesimo di Gesù, dove Giovanni Battista ha svolto la sua missione di precursore del Messia e dove il profeta Elia fu rapito in cielo su un carro di fuoco.
Con l’inaugurazione del centro per handicappati e con la sosta presso quella che sarà la futura Università Cattolica, il Papa ha voluto ribadire che l’annuncio del Vangelo e la presenza della Chiesa, in qualsiasi luogo della terra si deve sempre esprimere nel segno della carità verso i più poveri e della promozione umana delle giovani generazioni, attraverso l’impegno educativo e formativo. Nella celebrazione della S. Messa di Domenica nello stadio di Amman Papa Ratzinger, contento di presiedere un’assemblea, tanto diversa e variegata per tradizioni, ma altrettanto unità nella professione dell’unica fede, durante l’omelia ha messo in evidenza il contributo fondamentale delle  donne nella testimonianza di quella carità cristiana fatta di assistenza ai malati e ai poveri e di educazione dei piccoli, invocando nello stesso tempo anche nel mondo arabo il loro rispetto e la loro necessaria emancipazione. Ha poi esortato con forza i cattolici mediorientali a non abbandonare quelle terre, ma ad avere il coraggio per testimoniare Cristo con convinzione personale, a fianco degli altri cristiani, a favore dei più poveri e per costruire ponti di dialogo con le diverse culture e religioni.
L’incontro con i capi religiosi mussulmani, guidati dal principe Ghazi Bin Muhammed Bin Talal, cugino del re Abdullah II,  tenutosi davanti alla moschea dedicata al defunto re Hussein, ha rappresentato un vero e proprio sviluppo positivo, oltre ogni più ottimistica previsione, della ormai storica lectio magistralis di Ratisbona del 13 Settembre 2006. In un discorso dai contenuti e dai toni del tutto inusuali per un mussulmano, il principe si è più volte richiamato al quel documento, ringraziando Benedetto XVI di quello che disse, del suo rincrescimento per il dolore arrecato ai mussulmani a causa del fraintendimento delle sue parole, e soprattutto perché il suo pontificato  è caratterizzato “dal coraggio morale di fare e parlare secondo la propria coscienza, indipendentemente dalle mode del momento”. Ha poi orgogliosamente esaltato l’esempio della Giordania, da secoli modello di pacifica convivenza tra cristiani e mussulmani.
Oltre ai fondamentali significati religiosi e spirituali, i gesti compiuti, le parole pronunciate dal Pontefice in Giordania, unita alla cordiale e sincera accoglienza che essi hanno trovato da parte di coloro che hanno avuto l’onore di ospitarlo, sono certo che rappresenteranno in futuro dei punti di riferimento importanti, sia per la vita della Chiesa, sia per i suoi complessi rapporti con il mondo arabo-mussulmano in genere.
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il   10/05/09.
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26. Il Papa in Terra Santa.
Tra pochi giorni il Papa si recherà in Terra Santa. Il programma prevede la visita in Giordania, Israele e nei territori dell’Autorità Nazionale Palestinese. Un viaggio tanto desiderato da Benedetto XVI e altrettanto ostacolato. Poco più di sei mesi fa era ancora in corso il conflitto nella striscia di Gaza dove ci sono stati più di 1.500 morti. Tra il Gennaio e il Febbraio scorsi è seguita la polemica per la remissione della scomunica al vescovo lefebvriano negazionista Williamson. E, soprattutto in Italia, non sono ancora state superate le divergenze per la preghiera del Venerdì Santo della liturgia preconciliare che, se pur modificata dal Papa stesso, a molti rabbini proprio non va giù. Per non parlare poi delle tante ragioni di perplessità che vengono dall’interno della Chiesa stessa. Un esempio su tutti: i Vescovi dell’area interessata dall’itinerario papale avevano consigliato di rimandare a tempi di maggiore tranquillità per questa regione tanto travagliata. A tutto questo si sono aggiunte ultimamente addirittura minacce di morte nei confronti del Pontefice. Un attentato a Benedetto XVI sarebbe un evento talmente grave, da innescare reazioni difficilmente immaginabili e dalle conseguenze fuori da qualsiasi possibile controllo. Ovviamente scenari tanto drammatici sono assolutamente da scongiurare. Resta il fatto che Israeliani, Palestinesi e Arabi, sono in concorrenza gli uni con gli altri e nello stesso tempo vogliono a loro modo trarre il massimo vantaggio possibile dalla visita del Papa. Insomma, mai viaggio papale si è presentato tanto complesso dal punto di vista umano, religioso e sociopolitico.
Circa venti giorni fa, in una intervista ripresa da numerose testate giornalistiche, il Patriarca latino di Gerusalemme, Sua Beatitudine Fouad Twal, ha dichiarato: “Al Papa pellegrino, i cristiani locali dicono “Ahlan wa sahlan!”, “Benvenuto!”. Le loro inquietudini risiedono semplicemente nella domanda: “Che cosa dirà?”, o meglio “Che cosa gli si farà dire?”. Interrogativi che trovano risposta nel coraggio e nella fermezza più volte dimostrata da Papa Ratzinger. Con la sua semplicità e i suoi modi gentili, non risparmia mai niente a nessuno, sa andare dritto al nocciolo della questione, chiunque sia il suo interlocutore, in qualsiasi contesto si trovi, senza essere né inopportuno, né impertinente.
Nelle diverse occasioni in cui il Pontefice ha parlato di questo suo prossimo viaggio in Terra Santa, lui stesso ha tenuto a precisare che si tratta di pellegrinaggio, cioè di un viaggio principalmente dalla valenza religiosa. Ha anche indicato i due obiettivi principali che si propone di perseguire con la sua presenza nella terra di Gesù: confortare i cristiani di quelle regioni tanto tribolate, confermandoli nella fede e nella speranza, e contribuire con la sua presenza ad un vero e concreto processo di pace per tutti.
Il Papa conosce bene le sofferenze di queste Chiese, prima di tutto per una condizione di marginalità nella quale si trovano normalmente a vivere, a cui si aggiungono le pesanti conseguenze del conflitto arabo-israeliano, aperto da decenni e per il quale non si intravedono prossime facili soluzioni. I cristiani mediorientali sono nella stragrande maggioranza arabi e palestinesi. La loro situazione è come quella di chi si trova tra l’incudine e il martello e spesso l’unica soluzione per la sopravvivenza resta l’esilio, come è successo in IRAQ, dove dallo scoppio della guerra fino ad oggi, quasi un milione di cristiani hanno abbandonato il loro paese, cercando rifugio all’estero. 
Per quanto riguarda invece il difficile problema della pace, Benedetto XVI non si fa illusioni. Del resto non spetta a lui proporre soluzioni diplomatiche e tantomeno dettare condizioni politiche. Ricordando però quello che disse a Gerusalemme nel 1994, quando fu invitato a parlare del rapporto tra ebrei e cristiani: “ebrei e cristiani devono accogliersi reciprocamente in una più profonda riconciliazione, senza nulla togliere alla loro fede e, tanto meno, senza rinnegarla, ma anzi a partire dal fondo di questa stessa fede. Nella loro reciproca riconciliazione essi dovrebbero divenire per il mondo una forza di pace.”, mi pare di capire che ancora insisterà su questi stessi temi, ritenendo il riavvicinamento tra gli ebrei e i cristiani la base fondamentale su cui poggiare i successivi impegni di pacificazione con tutto il mondo arabo-mussulmano.
Don Marco Belladelli.
 Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 07/05/09.
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25. Il Papa, i preservativi e l’AIDS.
Martedì scorso, mentre si era in volo verso Yaoundè, la capitale del Camerun, nella ormai tradizionale conferenza stampa che il Papa tiene con i giornalisti accreditati che lo accompagnano sul suo stesso aereo, durante il tratto di andata dei suoi viaggi, un corrispondente della televisione francese ha chiesto a Ratzinger che cosa pensasse di chi giudica “La posizione della Chiesa cattolica sul modo di lottare contro l’AIDS non realistica e non efficace”. Benedetto XVI ha risposto dicendo che è vero esattamente il contrario: “Penso che la realtà più efficiente, più presente, più forte della lotta contro l’Aids sia proprio la Chiesa cattolica”, elencando di seguito tutte le varie realtà ed istituzioni religiose direttamente impegnate in questo senso. E poi ha aggiunto “Direi che non si può superare questo problema dell’Aids solo con soldi. Sono necessari, ma se non c’è l’anima che li sappia applicare, non aiutano, non si può superare con la distribuzione di preservativi: al contrario, aumentano il problema”. Ha poi anche indicato due strade da percorrere, finalizzate al cambiamento dei comportamenti e dei costumi che sono la causa di questa pandemia, “l’ umanizzazione della sessualità e una vera amicizia anche e soprattutto per le persone sofferenti”.
Il primo ad attaccare il Papa per queste sue dichiarazioni, a proposito della inefficacia dei preservativi, è stato il ministro degli esteri francese, il quale ha visto nelle parole del Pontefice addirittura “una minaccia alla salute pubblica e al dovere di salvare vite umane. A ruota sono poi arrivate le prese di posizione di un ministro olandese e di uno tedesco. Si è scomodato perfino il Fondo Monetario Internazionale e per finire il governo spagnolo, per reazione, si è impegnato ad inviare un milione di condom in Africa. Si è trattato di una vera e propria aggressione, come se da una persona tanto autorevole qual è il Papa fosse stata detta una cosa vera e da tutti conosciuta, ma del tutto sconveniente ed inopportuna. Tanto che l’ergersi a paladini in difesa della vita da parte di chi a casa propria ha legalizzato aborto eugenetico ed eutanasia è sembrato addirittura ridicolo.
Riporto alcuni dati riferiti dall’agenzia AsiaNews, che ci aiutano a capire di che cosa stiamo parlando. L’agenzia dell’Onu per la lotta all’Aids in uno studio del 2003 ha riconosciuto che il condom fallisce in almeno il 10% dei casi. Altri studi dimostrano che le percentuali di fallimento nel fermare l’epidemia raggiungono anche il 50%. In Thailandia, il dott. Somchai Pinyopornpanich, vicedirettore generale del dipartimento per il controllo delle malattie a Bangkok, ha costatato che si ammala di Aids il 46,9% di uomini che usano il preservativo e il 39,1% delle donne. Paesi come il Sud Africa, che hanno abbracciato in pieno la campagna sul “sesso sicuro” con l’uso del condom, sostenuta dall’Onu, l’Unione Europea e varie organizzazioni non governative, hanno visto uno spaventoso incremento della diffusione dell’Aids. Al contrario, Paesi dove si spingeva alla responsabilità, all’astinenza e alla fedeltà, hanno visto una riduzione dell’epidemia.
A questo punto il discorso si farebbe lungo e complesso. Di fatto ciascuno rimane libero di trarre le proprie conclusioni, con tutti i ma e i però che preferisce, e pure di continuare ad agire come meglio crede, se è convinto dell’efficacia dei preservativi. Come dice il proverbio: uomo avvisato, mezzo salvato.
Mi resta solo da dire che nella foga di attaccare il Papa, non è stato dato adeguato risalto alla notizia di poche ore dopo, che cioè Benedetto XVI, appena sbarcato a Yaoundè, portando come esempio il centro Cardinal Lèger, dove la Chiesa Camerunese cura i malati di AIDS, ha elogiato l’impegno di curarli gratuitamente, contrariamente a quanto fanno tante organizzazioni internazionali, finanziate profumatamente dai governi occidentali e dalle istituzioni sopranazionali.
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 26/03/09.
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24. Il coraggio di Benedetto XVI
E’ la seconda volta che Papa Ratzinger scrive una lettera a tutti i Vescovi del mondo per spiegare una sua decisione. La prima volta fu nel Luglio del 2007, quando liberalizzò la celebrazione della S. Messa con il rito preconciliare. La seconda volta è accaduto Giovedì scorso, 12/03, per spiegare la remissione della scomunica ai quattro Vescovi ordinati illecitamente più di vent’anni fa dal tradizionalista, Mons. Lefebvre. Mentre nel primo caso la lettera è stata pubblicata insieme al motu proprio Summorum Pontificum, ora invece segue di quasi due mesi il provvedimento di ritiro della scomunica.
Si tratta di un gesto inusuale per un Papa, come pure di un modo insolito di governare la Chiesa. Lo ha riconosciuto anche il Cardinal Ruini, quando in un suo intervento sull’ Osservatore Romano a commento della lettera parla di "una comunicazione personale che supera i limiti dell'ufficialità e si offre al lettore in maniera trasparente, consentendogli di entrare, per così dire, nell'animo del Papa". Un animo che, come avevamo auspicato nel nostro ultimo intervento su questo giornale (04/02/09), speravamo fosse rimasto sereno, nonostante le polemiche di cui era oggetto. Oggi invece veniamo a sapere quanto ha sofferto di fronte alla perplessità e alla incomprensione di tanti Vescovi, e di altri che addirittura sono arrivati ad accusarlo “di voler tornare indietro, a prima del Concilio”.
Di fronte alla “veemenza” con cui gli oppositori si sono scagliati contro di lui, il Papa avrebbe potuto benissimo scaricare le colpe sui suoi collaboratori. Invece prima di tutto comincia riconoscendo umilmente i suoi errori, assumendosene tutta la responsabilità, senza neppure tirare in ballo coloro che, invece di aiutarlo, lo hanno esposto a questo vergognoso tiro al piccione. Anzi, quando parla di internet come di una fonte di notizie da non trascurare, aggiunge pure che per il futuro farà tesoro di questa brutta esperienza.
Nel passaggio successivo della lettera, Benedetto XVI torna a spiegare “il significato positivo come anche il limite del provvedimento del 21 gennaio 2009”, che cioè la scomunica è una sanzione disciplinare personale, la sua remissione faceva seguito alla disponibilità dimostrata dagli interessati di riconoscere l’autorità del Papa e del Concilio e non comportava l’automatico riconoscimento canonico della Fraternità San Pio X.
Nella parte finale affronta in modo aperto e diretto quelle che egli ha sentito come le critiche più pesanti, perché rivolte contro la sua persona e il suo ministero: “Ora però rimane la questione: Era tale provvedimento necessario? Costituiva veramente una priorità? Non ci sono forse cose molto più importanti?”. La risposta è altrettanto lapidaria e non lascia alcuna possibilità di replica. Se qualcuno non lo avesse ancora capito, “l’impegno faticoso per la fede, per la speranza e per l’amore nel mondo costituisce in questo momento (e, in forme diverse, sempre) la vera priorità per la Chiesa, allora ne fanno parte anche le riconciliazioni piccole e medie.”. 
A coloro che in questi anni nella Chiesa sono diventati maestri del politicamente corretto, cioè espertissimi nel calcolare l’opportunità o meno di certi gesti o di certe parole, il Papa risponde riportando al centro dell’esperienza cristiana l’essenza del Vangelo. Quando poi Ratzinger stesso rilegge tutto l’accaduto alla luce di quanto San Paolo scrive ai Galati (cfr. 5,13-15), non si può non pensare che, se siamo arrivati a questo punto, lo si debba ad una caduta della tensione spirituale ed alla conseguente carenza di integrità morale. 
Se qualcuno poi non se ne fosse ancora accorto o non ne fosse pienamente convinto, in questa lettera Benedetto XVI dimostra tutto il suo coraggio di non fuggire “per paura, davanti ai lupi”, da qualsiasi parte essi vengano, dall’interno o dall’esterno della Chiesa Cattolicacome aveva promesso quattro anni fa all’inizio del suo pontificato.
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Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 17/03/09.
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23. Lefebvriani, tra scomuniche e negazionismo.
Al termine dell’udienza di Mercoledì 28/01 scorso in sala Paolo VI, alla quale erano presenti gli artisti del circo Medrano, uno di loro ha presentato al Papa un leoncino e Ratzinger, contento come un bambino, lo ha accarezzato. Guardando questa bella immagine, vorrei pensare che, pur trovandosi al centro di aspre polemiche, quali quelle che si sono scatenate contro di lui in questa ultima  settimana, il Papa sia rimasto sereno e pacifico, aiutato da quella semplicità disarmante e quasi fanciullesca che lo contraddistingue.
Tutto è cominciato sabato 24/01, quando è stato reso noto il decreto di ritiro della scomunica ai quattro Vescovi ordinati illecitamente più di vent’anni fa dal Vescovo ulta tradizionalista francese Mons. Lefebvre. Immediatamente si sono aperti due fronti critici, uno interno alla Chiesa e un altro esterno. Il primo riguardava la validità del Concilio Vaticano II. Ho sentito e letto dichiarazioni contrapposte, tra chi, stracciandosi le vesti, vedeva in questo gesto del Papa la fine del Concilio, e chi invece cantava vittoria, perché finalmente si erano riconosciute le ragioni dei paladini della tradizione pre-conciliare. L’altro fronte si riferiva invece alle dichiarazioni negazioniste della shoah fatte da uno dei quattro Vescovi ex scomunicati, Richard Williamson. Qualcuno, con troppa precipitazione e saltando dei passaggi obbligati, prima di tipo logico e poi istituzionale, ha pensato che l’atto di perdono del Papa significasse anche avvalorare le affermazioni del Williamson. La coincidenza poi con la celebrazione del giorno della memoria per tutte del vittime del nazifascismo ha fatto da straordinario amplificatore alla questione.
Ci associamo alla comprensibile indignazione della Comunità Ebraica, che, di fronte alle assurde tesi dei negazionisti, vede di nuovo umiliati e offesi tutti i milioni di vittime dell’olocausto e il riaffacciarsi minaccioso dello spettro dell’antigiudaismo e dell’antisemitismo. Davanti a tanto rinnovato dolore, nella stessa udienza già citata, Benedetto XVI non ha mancato di manifestare tutta la sua più sentita e partecipata solidarietà, dicendo: “Mentre rinnovo con affetto l’espressione della mia piena e indiscutibile solidarietà con i nostri Fratelli destinatari della Prima Alleanza, auspico che la memoria della Shoah induca l’umanità a riflettere sulla imprevedibile potenza del male quando conquista il cuore dell’uomo. La Shoah sia per tutti monito contro l’oblio, contro la negazione o il riduzionismo, perché la violenza fatta contro un solo essere umano è violenza contro tutti.
Meraviglia però che in Vaticano sia sfuggito un particolare tanto importante e delicato riguardante la questione ebraica, quando sarebbe stato sufficiente visitare il sito internet dello storico inglese David John Cawdell Irving, uno tra i maggiori esponenti del negazionismo, e per questo già condannato a tre anni di carcere in Austria, per rendersi conto che il Williamson era un suo adepto. Pare comunque che, dopo i tuoni e i fulmini degli ultimi giorni, i rapporti tra Vaticano e mondo ebraico siano tornati più sereni, anche perché l’alzare ulteriormente i toni, avrebbe rischiato di far saltare la programmata visita a Maggio del Papa in Israele. Cosa che non conviene a nessuna delle due parti.
L’altra polemica tutta interna alla Chiesa, riguarda invece l’accoglienza del Concilio Vaticano II da parte degli eredi di Mons. Lefebvre, oggi riuniti nella Fraternità sacerdotale San Pio X.  Il Papa stesso ha spiegato che il suo gesto va compreso nell’orizzonte specifico del suo ministero di successore di Pietro a servizio all’unità della Chiesa. Per questo ha ritenuto necessario rispondere alla sofferenza manifestata dai quattro presuli con un atto di paterna misericordia, al quale deve seguire “il sollecito impegno da parte loro di compiere gli ulteriori passi necessari per realizzare la piena comunione con la Chiesa, testimoniando così vera fedeltà e vero riconoscimento del magistero e dell’autorità del Papa e del Concilio Vaticano II.” (28/01/09).
Al di là delle rivalse anticonciliari e antitradizionaliste, il ritiro della scomunica non significa ancora la piena comunione della Fraternità San Pio X con quella Chiesa cattolica romana, di cui essi dicono di sentirsi parte e di voler servire con tutte le loro forze; come del resto non sono previste particolari manovre revisionistiche, che eviti loro di fare i conti con il Concilio. Tra i lamenti di chi vede il Concilio morto e sepolto e i cori trionfanti dei tradizionalisti, scelgo la serena letizia di Benedetto XVI. Come si è già verificato per il famoso discorso di Ratisbona e per altre situazioni critiche del suo pontificato, anche in questo caso alla fine il vero vincitore sarà lui.
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 04/02/09.
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22. Il discorso di Obama
Credo sia difficile trovare nella storia un uomo politico che abbia conosciuto un successo pari a quello di cui sta godendo Barak Obama, ancor prima di esercitare il mandato presidenziale, ricevuto dagli americani il Novembre scorso. Si è cominciato a parlare un gran bene di lui già un anno fa, quando vinse la prima battaglia nelle primarie dell’Iowa. Sei mesi dopo, alla convention del partito democratico per la candidatura, si è trattato di un vero e proprio trionfo. Per non parlare poi della contagiosa Obamomania che è seguita al momento dell’elezione, il 5 novembre scorso, tanto che, per calmare gli entusiasmi dei suoi sostenitori, lui stesso ha dovuto ricordare di non essere nato in una grotta. L’apice, comunque, lo abbiamo toccato ieri, giorno del suo insediamento a Washington, con più di due milioni di persone presenti, senza contare quelli che hanno seguito l’avvenimento attraverso i mass media. A questo proposito vi racconto una curiosità. Ieri mattina, facendo il solito giro di visita ai malati in ospedale, giunto in rianimazione, dietro ad un paziente intubato, ma vigile, attaccato al muro c’era un foglio con una scritta che diceva: ore 17,50 accendere la televisione per seguire il discorso di Obama. Insomma sembra che proprio nessuno, nemmeno i quasi moribondi, abbia voluto perdersi questo momento storico.
Come diceva il Poeta, se sarà vera gloria, ai posteri l’ardua sentenza. Per ora ci accontentiamo del bel discorso che il nuovo Presidente ha pronunciato nel giorno del suo insediamento, con tutto quello che di positivo ha suscitato nell’animo di chi lo ha ascoltato.
Prima di tutto ha meravigliato per la straordinaria capacità oratoria. Ha parlato senza leggere, dimostrando una padronanza di parola e concettuale davvero fuori del comune. Ancor più stupefacenti sono le cose che ha detto, cose che ci farebbe piacere sentir dire anche dai nostri litigiosi politici nostrani.
Si è posto davanti ai suoi concittadini con l’umiltà e la responsabilità di chi è consapevole del peso del mandato ricevuto, ma anche con la determinazione di chi vuol fare tutto ciò che è nelle sue possibilità per servire al meglio il suo grande Paese. Ha fatto ripetutamente appello alla storia degli Stati Uniti d’America, con i suoi momenti di gloria, di sacrificio e di contraddizione, per risvegliare nel cuore di chi lo ascoltava l’orgoglio per l’alto progresso civile raggiunto dal suo popolo. Non ha esitato a citare la sacra Scrittura per incitare a continuare a crescere su questa strada, e soprattutto per riconoscere in quello che si stava vivendo il compimento di una promessa divina, che cioè tutti gli uomini sono uguali.
Non si è nascosto alle sfide che attendono lui, gli americani e tutto il mondo, evitando saggiamente la tentazione di proporre ricette preconfezionate, come a dire: non preoccupatevi io sono il migliore di tutti e per ogni problema ho già pronte tutte le soluzioni. Ha invece coraggiosamente denunciato ciò che non va, come pure i cattivi comportamenti di chi con egoismo e con non meno cinismo ha pensato soltanto a se stesso.
La conclusione non poteva che essere nel segno della speranza, una Speranza con la “S” maiuscola, non fatta di promesse illusorie, ma della concretezza del vivere e lottare insieme coraggiosamente ogni giorno, per custodire la libertà ricevuta da trasmettere alle giovani generazioni, condizione indispensabile per tendere, con la grazia di Dio, ad un futuro migliore per tutti.
Nel suo discorso Obama ha fortemente affermato il primato dello spirito, rispetto a qualsiasi altra dimensione dell’animo umano. Dice san Paolo: “Lo spirito è vita” (Rom 8,10). Soltanto puntando tutti insieme su di esso sarà possibile rialzarsi, affrontare e vincere le sfide, che ci stanno davanti, e rimettersi a camminare nella giusta direzione.
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MN il 22/01/09.
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21. La preghiera davanti al Duomo di Milano
Ad oltre dieci giorni di distanza sono ancora in molti ad interrogarsi e a prendere posizione a proposito della preghiera dei mussulmani davanti al Duomo di Milano e alla cattedrale di San Petronio a Bologna di sabato 3 Gennaio scorso. Forse perché sulle cose religiose noi occidentali siamo un po’ a scoppio ritardato e non sempre pronti a cogliere le conseguenze a cui portano certi avvenimenti. 
Il fatto: al termine delle manifestazioni contro la guerra nella striscia di Gaza tra Israele e Hamas, numerosi manifestati si sono raccolti in preghiera davanti al Duomo e davanti a san Petronio. I presenti sono rimasti sbalorditi, trovandosi di fronte a qualcosa del tutto inaspettato. Qualcuno invece, vedendo soltanto le immagini, ha pensato ad un fotomontaggio. Insomma uno scherzo di dubbio gusto e niente più. Invece era tutto vero.
Credo che nessuno dubiti sul valore provocatorio del gesto. Sicuramente si è trattato di un fuori programma, ma per come si sono svolte le cose, dobbiamo pure mettere in conto la premeditazione. Infatti al termine del corteo autorizzato, i manifestanti, invece di disperdersi, hanno rotto i cordoni della polizia, hanno bruciato le bandiere israeliane e poi, guidati dal famoso iman di via Jenner, noto esponente del fondamentalismo e più volte implicato in vicende di terrorismo, hanno inscenato questa preghiera a cielo aperto sul sagrato del Duomo.
Navarro Valls, già direttore della sala stampa vaticana ai tempi di Giovanni Paolo II, ha scritto su La Repubblica che la libertà religiosa altrui è garanzia e conferma di quella libertà di espressione, di cui l’Europa dovrebbe andare fiera. Ma, in nome del nostro orgoglio libertario occidentale, a quando la reciprocità? Ricordo che qualche anno fa, trovandomi a Gerusalemme sulla spianata del Tempio, dove Dio ha promesso di ascoltare chiunque lo avesse invocato (cfr 1Re 8,41ss), avendo invitato i pellegrini che accompagnavo a raccogliersi in preghiera, così come è scritto nella Bibbia, non abbiamo avuto neanche il tempo per un Padre nostro. Prima siamo stati disturbati da dei bambini, che hanno tentato di strapparmi la bibbia di mano, e poi sono intervenuti i sorveglianti presenti sul posto e ci hanno impedito di proseguire.
Oltre al problema della reciprocità, davanti al quale i mussulmani fanno e faranno orecchie da mercante, ancora per molto tempo, ciò che risulta più inquietante è l’aspetto di sfida presente nella preghiera sul sagrato. Prima di tutto sfida alla legalità, nell’andare oltre i limiti concessi e a quanto era stato concordato. E poi sfida ideologica e politica, nel momento in cui le ragioni della protesta per la guerra in corso a Gaza si sono trasformate nelle grida delle preghiere ad Allah e delle sure del Corano. Più che la forza spirituale della preghiera, ciò che ha impressionato è stata un altra forza, molto più prossima alla violenza, che non al sincero desiderio di pace. Per completezza d’informazione, bisogna anche dire che quelli in piazza non rappresentavano tutti i mussulmani d’Italia, perché nell’Islam non esiste una gerarchia unanimemente riconosciuta come nella Chiesa cattolica, e quindi nessuno può ergersi a rappresentate di tutti gli altri.
Questi fatti, ed altri simili, ci costringono comunque a prendere coscienza quanto, soprattutto noi italiani, siamo ancora molto impreparati al confronto culturale con il mondo arabo. Non mi riferisco soltanto alla carenza di informazioni e di conoscenze, ma in particolare al confronto con la loro specifica mentalità. All’origine delle ambiguità tra il politico e il religioso verificatesi a Milano e a Bologna c’è l’ingenuità di trasferire la nostra ottica a loro. Un abbaglio accuratamente da evitare in futuro, se si vuole avanzare verso una vera ed autentica integrazione.
Con la loro preghiera improvvisata davanti alle nostre cattedrali, in fondo i mussulmani hanno occupato uno spazio da noi, cristiani, abbandonato da tempo, o utilizzato soltanto occasionalmente per concerti e mercatini. Ma i sagrati delle nostre chiese sono stati voluti dai nostri antenati per ben altre ragioni, che a noi, generazione emancipata e secolarizzata del terzo millennio, non interessano più. Non sarà che vedendo loro, sentiamo nostalgia per quel bene spirituale del pregare insieme, forse troppo in fretta e con altrettanta superficialità, messo da parte?
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA  il 15/01/09.
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20. Chiesa e crisi economica
In attesa della pubblicazione dell’enciclica sociale, che si dice sia stata mandata ad una ulteriore revisione per renderla più corrispondente alla situazione attuale, in questi ultimi mesi non sono mancati i pronunciamenti degli uomini di Chiesa a proposito della grave situazione economica che stiamo attraversando. Ha cominciato il Papa stesso quando tre mesi fa, in una meditazione a braccio durante il recente Sinodo sulla Parola di Dio ebbe a dire: Lo vediamo adesso nel crollo delle grandi banche: questi soldi scompaiono, sono niente. … Solo la Parola di Dio è fondamento di tutta la realtà, è stabile come il cielo e più che il cielo, è la realtà” (06/10/2008).
In precedenza il cardinal Bagnasco, Presidente della C.E.I., negli  interventi di apertura dei periodici incontri del Consiglio permanente, non aveva mancato di sottolineare l’aggravarsi della situazione economica del paese, denunciando le difficoltà di molte famiglie ad arrivare a fine mese, e richiamando il dovere della carità cristiana a soccorrere nelle necessità fondamentali del mangiare e del vestire color che sono oppressi dalla povertà. E proprio nei giorni precedenti il Natale la CEI, attingendo al gettito dell’8 x 1000, ha costituito un fondo per aiutare le fasce sociali più deboli, colpite dalla crisi economica.
Il tempo natalizio, con tutte le varie celebrazioni che lo caratterizzano e i numerosi interventi previsti, è stata l’occasione, soprattutto per il Papa, per ritornare sul problema della crisi economica che investe tutto il mondo e dire una parola chiara su come uscire da questa grave situazione. Già nel messaggio per la giornata mondiale della pace del 1° Gennaio scorso, pubblicato ai primi di Dicembre, si metteva in relazione l’impegno per la pacifica convivenza tra i popoli nel mondo con la lotta alla povertà, sotto tutte le forme nelle quali essa si presenta: economica, culturale, morale e spirituale. Al n. 10 del messaggio si fa esplicito riferimento alla ormai famosa finanza creativa, il cui difetto di fondo sta nell’essere finalizzata non a sostenere lo sviluppo economico concreto dei vari paesi del mondo, ma unicamente a produrre rendite immediate che, come stiamo vedendo, alla fine si dimostra dannosa per tutti, anche per chi per lungo tempo ha beneficiato di tali vantaggi.
Nell’omelia della notte di Natale, nel messaggio Urbi et Orbi dello stesso giorno e ancora nel primo giorno dell’anno il Papa ha parlato soprattutto della necessità e dell’urgenza di cambiare prima di tutto il modello di sviluppo economico. La logica della cosiddetta scuola neoconsevatrice, quella che fino ad oggi ha dettato legge ai mercati di tutto il mondo, dice: prima creiamo reddito e poi lo redistribuiamo. Ratzinger dice esattamente il contrario: siccome la redistribuzione è la causa dello sviluppo, essa viene prima di qualsiasi altra cosa. Tanto per intenderci: vi ricordate la parabola evangelica in cui c’è un padrone che prima di partire per un lungo viaggio distribuisce ai suoi servi le sue sostanze, a chi dieci talenti, a chi cinque e a chi uno, a ciascuno secondo le sue capacità? Al suo ritorno i servi, chiamati al  rendiconto, orgogliosamente mostrano di aver raddoppiato il capitale ricevuto. (cfr. Mt 25,14-30). Questo è il modello di sviluppo che la Chiesa propone di seguire, quello in cui tutti sono coinvolti nel processo produttivo. Insomma l’equità deve essere il principio fondante dell’economia. Soltanto così lo sviluppo produrrà ancor più equità. Diversamente si diventa tutti più poveri. Come la cronaca recente dimostra, anche coloro che pensavano di arricchirsi sulle spalle altrui alla fine sono rimasti con niente in mano.
Già nel Novembre del 1985, in una conferenza tenuta presso l’Università Urbaniana di Roma, l’allora Cardinal Ratzinger aveva previsto la situazione che oggi stiamo vivendo. Fa parte della missione della Chiesa svolgere anche questo compito, quello cioè di farsi baluardo in difesa dei più poveri, contro coloro che hanno fatto (e continueranno a fare!) della logica del profitto, e del potere che da esso ne deriva, la ragione del loro vivere. 
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 09/01/09.
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19. Vivere come se Dio ci fosse!
Ad Oxford, città inglese famosa in tutto il mondo per la sua università, qualche mese fa il Consiglio comunale ha abolito la parola “Natale” (in inglese “Christmas”) per ritornare all’antico appellativo di “festa della luce invernale”, denominazione precedente all’avvento del cristianesimo. A Valladolid in Spagna un giudice ha ordinato la rimozione dei crocifissi da una scuola, in nome della neutralità e dell’equidistanza dello Stato da tutte le religioni.
Ogni giorno nuovi fatti di cronaca ci costringono a  prendere atto, nostro malgrado, che di fatto anche nei paesi di antica tradizione cristiana ormai molti vivono come se Dio non ci fosse: etsi Deus non daretur. Una formula elaborata nel XVII secolo per salvaguardare quei principi su cui si fondava la convivenza civile e sociale, quando la religione cristiana a causa della riforma protestante, da fattore di unità dei popoli europei, si era trasformata nella prima e più irriducibile causa di conflitto e di divisione.
Qualcuno invece pensa che sarebbe meglio per tutti ricominciare a vivere come se Dio ci fosse. E’ l’intellettuale tedesco Robert Spaemann a proporlo provocatoriamente, facendo eco a quanto va dicendo da oltre tre anni a questa parte Papa Benedetto XVI. Nel suo libro, pubblicato recentemente anche in Italia da Cantagalli, dal titolo La diceria immortale, in riferimento al problema dell’esistenza di Dio, questione sempre viva e controversa fin dagli albori della storia dell’umanità, il filosofo d’oltralpe raccoglie quella che secondo lui è la sfida paradossale lanciata da Ratzinger alla cultura moderna (ed europea in particolare), cioè di tornare a vivere come se Dio ci fosse, sia che si creda, sia che non si creda.
Nella storia del pensiero, l’esistenza di Dio è sempre stata il presupposto per la ricerca della Verità. Anche il grande Kant ha avuto bisogno di questo postulato su cui fondare gli imperativi categorici morali della sua ragion pratica.
Dice Spaemann: “Il tentativo, portato all’estremo, di plasmare le cose umane facendo completamente a meno di Dio ci conduce sempre di più sull’orlo dell’abisso, verso l’accantonamento totale dell’uomo. E continua : Dovremmo allora capovolgere l’assioma degli illuministi e dire: anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita 'veluti si Deus daretur', come se Dio ci fosse. Questo è il consiglio che già Pascal dava agli amici non credenti; è il consiglio che vorremmo dare anche oggi ai nostri amici che non credono. Così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgentemente bisogno".
Proviamo a stare al gioco della provocazione. Accettare questo consiglio renderebbe la nostra vita di uomini e di donne del terzo millennio migliore o peggiore di quanto lo sia oggi, in rapporto a noi stessi, agli altri e al mondo che ci circonda? In che cosa e come la cambierebbe? Certo, si tratterebbe di andare nella direzione esattamente opposta a quella che si è intrapresa ad Oxford e a Valladolid, dove ci si è adeguati alle vecchie logiche dell’ etsi Deus non daretur, secondo cui Dio, con tutto quello che lo riguarda, è ancora ritenuto una complicazione della umana convivenza.
Ma per non perderci nei meandri dei sofismi filosofici e per realizzare il più concretamente possibile che cosa significhi vivere come se Dio esistesse, visto che siamo prossimi al Natale, provate a fare queste riflessioni davanti all’umile semplicità di un Presepe. Avete presente quell’atmosfera di assoluta armonia tra cielo e terra, dove nessuno è escluso e tutti sono felici e contenti di ciò che hanno e di stare al loro posto? Il solo fatto di riuscire ad immaginare (tanto da rappresentarla!) che questa condizione paradisiaca possa sostituirsi alla nostra tribolata esistenza terrena, vuol dire che non è qualcosa di irreale, ma di possibile. Forse ci siamo dimenticati che il Dio cristiano è il Dio dell’amore ai nemici, del beati i poveri, Colui che guarisce da ogni malattia, che perdona ricchi e ai poveri. E’ colui che libera gli schiavi, riscatta gli emarginati e nel quale tutti i conflitti si ricompongono? E’ sempre Lui il Massimo Garante della libertà umana, anche di chi Lo nega, Lo rinnega e Lo combatte.
Non sarebbe meglio allora anche per coloro che ancora oggi si danno tanto da fare per sbarazzarsi di Dio, se davvero hanno tanto a cuore il bene comune,  accettare il consiglio di Spaemann?
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il  27/11/2008
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18. Cristiani e Mussulmani in dialogo.
Giovedì 6 Novembre si è concluso a Roma il primo seminario del Forum cattolico-mussulmano. Un evento quasi completamente ignorato dai grandi quotidiani nazionali e dai telegiornali, tutti concentrati sulla vittoria di Obama, che però, dopo i ventilati scontri di civiltà ripetutamente evocati da più parti, a cominciare da quel fatidico 11 Settembre 2001, merita di essere messo in risalto, prima di tutto  come metodo da usarsi per superare le conflittualità, poi per i contenuti oggetto del confronto tra le parti ed infine anche per le conseguenze concrete e immediate che già si sono registrate.
Se pensiamo poi che all’origine di questo incontro tra cristiani e mussulmani c’è il famoso discorso di Ratisbona del 12/09/2006 (quello in cui Ratzinger citava lo scritto di Manuele II Paleologo, imperatore di Costantinopoli, che in un suo dialogo con un colto uomo persiano giudicava negativamente l’Islam in quanto religione che prevede la possibilità di essere imposta anche con il ricorso alla violenza), che negli ambienti mussulmani fondamentalisti e non solo, fu giudicato come un offesa irreparabile, tanto da scatenare reazioni così violente, fino ad arrivare addirittura alle minacce di morte per il Papa, la cosa diventa ancora più sorprendente e intrigante. Passata la burrasca, si cominciò invece a riflettere seriamente sul contenuto di quel discorso, che cioè nel rapporto tra le varie religione si doveva escludere qualsiasi ricorso alla violenza e che la ragione doveva diventare il criterio comune in base al quale trovare dei punti d’incontro per una convivenza pacifica di tutti. E così il 12 Ottobre 2007 138 Personalità mussulmane indirizzarono una lettera al Papa e a tutti i Capi delle varie Chiese cristiane del mondo invitandoli a confrontarsi su ciò che le due fedi e pratiche religiose hanno in comune: i due comandamenti dell’amore. 
Nell’udienza concessa a coloro che hanno partecipato al seminario, Benedetto XVI ha richiamato la necessità che tutti insieme si concorra alla promozione della dignità della persona, donne comprese, e a garantire il libero esercizio dei diritti umani “nel pieno rispetto della libertà di coscienza e della libertà di religione di ogni individuo”.
Senza nascondere le diversità, che cominciano dal modo diverso di intendere Dio, dopo tre giorni di dibattito sul tema al centro del confronto: i due comandamenti dell’amore di Dio e del prossimo, nella dichiarazione finale in 15 punti sono stati definiti ambiti precisi nei quali è possibile ritrovarsi insieme fin da oggi, come per esempio sul valore della vita umana e della sua dimensione trascendente, la dignità della persona e dei diritti individuali che ne derivano, inclusa la libertà religiosa, la necessità di rinunciare a qualsiasi forma di violenza e oppressione, soprattutto quando viene usata nel nome di Dio, come nel caso degli attentati terroristici, e l’auspicio per una finanza eticamente responsabile.
Una prima conseguenza concreta, positiva e importante di questo seminario è stata la coraggiosa Lettera dei 144. I firmatari sono cristiani, cattolici, ortodossi e protestanti, 77 dei quali convertiti dall’Islam, tutti che vivono nell’Africa del nord o in Medio Oriente. Per la prima volta in modo pubblico chiedono che nei paesi arabi si metta fine alla condizione di “dhimmi” (gruppo protetto grazie al pagamento di una tassa al governo islamico, escluso dalla effettiva parità nella società), cioè di cittadini di seconda categoria loro riservata, che non si applichi la legge islamica per i non mussulmani e che venga garantita la libertà di cambiare religione come un diritto fondamentale.
Ora alle parole devono seguire i fatti. Se è vero che tra cristiani e mussulmani c’è bisogno di superare i pregiudizi e di non demonizzarsi a vicenda, è altrettanto vero che quella libertà che oggi essi godono qui in Occidente, loro non sono pronti a garantirla ai cristiani che vivono nei loro paesi. Insomma a Roma da oltre dieci anni c’è una grande Moschea, quanto dobbiamo ancora attendere per costruire una chiesa a La Mecca?
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il  11/11/2008
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17. Il Sinodo sulla Parola di Dio
e le prediche della Domenica.
Qualche giorno fa un amico che va alla S. Messa tutti giorni, quindi non proprio a digiuno delle cose di Chiesa, mi ha chiesto: “Scusa, ma che cos’è il Sinodo?”.  Apertosi solennemente a Roma Domenica 5 Ottobre, con una celebrazione nella basilica di San Paolo fuori le mura presieduta dal Papa, il Sinodo è un’assemblea di Vescovi, voluto da Paolo VI al termine del Concilio Vaticano II “per favorire l’unione e la collaborazione dei Vescovi di tutto il mondo con la Sede Apostolica, mediante uno studio comune delle condizioni della Chiesa e la soluzione concorde delle questioni relative alla sua missione”.
Si riunisce ordinariamente ogni tre anni e straordinariamente a seconda delle necessità. Può essere universale, cioè per tutta la Chiesa, oppure riguardare soltanto certe regioni, come è successo per i sinodi continentali. Nel nostro caso si tratta della XII assemblea ordinaria, di cui fanno parte 253 Padri sinodali, provenienti da tutto il mondo. Ad essi si devono aggiungere gli esperti, gli uditori, i "delegati fraterni" in rappresentanza delle altre Chiese, Ortodosse o Protestanti che siano, e alcuni invitati speciali, tra cui per la prima volta un ebreo, il rabbino capo della sinagoga di Haifa, Shear-Yashuv Cohen. I lavori si svolgono generalmente nell’arco di tre settimane, durante le quali si discute il tema all’ordine del giorno, quest’anno: "La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa".
Come corollario, la prima settimana è stata accompagnata dalla maratona televisiva LABIBBIAGIORNOENOTTE, durante la quale nella basilica romana di Santa Croce in Gerusalemme è stata letta tutta la Bibbia, dalla Genesi fino all’Apocalisse. L’iniziativa (che ha avuto un precedente più o meno simile anche a Mantova nel Marzo 2007) organizzata dalla RAI in collaborazione con il Vaticano e trasmessa in diretta sul canale satellitare RAI Educational 2, si è aperta con la partecipazione dello stesso Benedetto XVI, il primo dei circa 1200 lettori che si sono alternati al leggio.
Da oltre dieci giorni i Padri sinodali si stanno confrontando non tanto sui principi dottrinali, dati per scontati e condivisi, quanto piuttosto sugli aspetti pastorali dell’accoglienza della Parola di Dio oggi da parte del Popolo di Dio, della sua centralità nella vita dei credenti e della sua ulteriore diffusione presso coloro che ancora non conoscono il Vangelo. Nel corso del dibattito è emerso che una delle principali vie per accostare e conoscere la Parola di Dio sono le prediche che si ascoltano ogni domenica nella S. Messa. Il sentimento più diffuso nell’assemblea sinodale è quello della viva preoccupazione per il livello generalmente scadente delle omelie. Gli aggettivi più frequenti per definirle sono: lunghe, noiose, a volte banali, a volte invece troppo accademiche e spesso non pertinenti con i temi proposti dalle letture bibliche. Dall’insistenza con un cui si è parlato di questo problema, si capisce che esso riguarda tutta la Chiesa, da nord a sud, da est a ovest. Se è vero che mal comune, mezzo gaudio, è altrettanto vero che per l’importanza assunta dalla predicazione della Parola di Dio nelle Comunità cristiane concrete, cosi capillarmente diffusa come nel caso delle assemblee eucaristiche domenicali, e non solo, si rendono necessari interventi immediati, efficaci e concreti. L’attenzione del Padri sinodali si è quindi soffermata prima di tutto sulla formazione dei sacerdoti. Devono essere preparati a diventare dei veri conoscitori della Bibbia, sia in senso scientifico, per tutte quelle problematiche collegate all’interpretazione del testo, sia nel senso spirituale, per quel che riguarda invece il significato della Parola, che rappresenta il vero nutrimento della fede dei credenti che li ascoltano. Per raggiungere questi due obiettivi sono necessari studio e preghiera.
Se qualcuno non è soddisfatto delle omelie del suo prete, oltre a lamentarsi e a criticare, oppure cambiare chiesa, potrebbe fare qualcosa di più utile a tutti, come per esempio chiedere al proprio sacerdote di riunirsi periodicamente a leggere la Parola di Dio e a pregare con essa. Si tratterebbe di un modo più fraterno per invogliarlo a riprendere lo studio e la meditazione della Parola di Dio e ne guadagnerebbe non soltanto la qualità dell’omelia, ma soprattutto la vita spirituale di tutta la parrocchia.
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 22 Ottobre 2008
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16. la “ratio” di ratzinger.
Negli ultimi due anni Papa Ratzinger ha pronunciato tre interventi, davanti ad importanti consessi internazionali, di intellettuali e non, nei quali ha indicato la “ragione umana” come il punto di equilibrio e la via maestra da seguire per risolvere altrettanti nodi problematici della cultura del nostro tempo, quali i rapporti tra Stato e Chiesa, tra fede e ragione e tra scienza e fede.
Cominciamo dall’ultimo discorso tenuto a Parigi in occasione della sua recente visita in Francia. Il 12 Settembre scorso, dopo la calorosa accoglienza delle massime autorità francesi, presso il Collegio dei Bernardini, davanti a 700 persone, rappresentanti del mondo culturale di quel paese, ha parlato sul tema: “Le origine della teologia occidentale e le radici della cultura europea”. La ricerca di Dio (quaerere Deum) dei monaci dell’alto medioevo è stato l’inizio di un percorso che li ha indotti e condotti ad allargare il campo delle loro indagini e conoscenze ad altri ambiti della natura. Così sono nate le scienze profane, cioè la eruditio, come la chiama il Papa, l’inizio di ciò che in senso più ampio oggi chiamiamo “cultura”. Quel cammino, che aveva come fine l’incontro con Dio, è stato possibile grazie alla ragione umana. Nella sua esemplarità, esso rimane un metodo oggi ancora valido ed è anche il fondamento di ogni vera cultura. La conseguenza, neppure tanto implicita, è che ogni laicità non può prescindere dalla spiritualità, in quanto, secondo il percorso appena illustrato, quest’ultima è la garante della libertà e dell’autonomia delle realtà terrene. Questi principi trovano una loro concreta ed immediata applicazione nella necessaria distinzione tra la sfera politica e quella religiosa, dove più è necessaria quella sana laicità, l’unica capace di riequilibrare oggi il tanto problematico rapporto tra Stato e Chiesa.
Il 12 Settembre di due anni fa, Benedetto XVI pronunziò invece la ormai famosa lectio magistralis di Ratisbona, a cui seguirono le violente reazioni soprattutto da parte del mondo arabo, ma anche di alcuni intellettuali occidentali, accodatisi con malcelato opportunismo. Ad innescare la polemica fu la citazione di uno scritto di Manuele II Paleologo, imperatore di Costantinopoli, che in un suo dialogo con un colto uomo persiano, giudicava negativamente l’Islam, religione che prevede la possibilità di essere imposta, laddove fosse necessario, anche con il ricorso alla violenza. Perfino il rammarico per il fraintendimento patito, espresso dal Papa nell’Angelus della Domenica successiva, fu equivocato da certa stampa come un formale atto di scuse. Il tema del discorso era “Il rapporto tra fede e ragione”. Invece che di un attacco all’Islam, si trattava di una dura critica alla ragione moderna, per il suo sottrarsi in modo arrogante dal confronto con la fede. Questo arroccamento, da una parte lascia spazio all’insorgere dei fondamentalismi religiosi, con le conseguenze che oggi tutti ben conosciamo, dall’altra ci si concede di usare la ragione per dimostrare tutto e il contrario di tutto, conducendo la cultura occidentale moderna dentro il vicolo cieco del soggettivismo più assurdo e contraddittorio. Oggi quel contributo è giudicato da molti intellettuali come una pietra miliare da cui non si può prescindere, sia per affrontare il problema del rapporto tra fede e ragione, sia per trovare un punto di equilibrio nel dialogo interreligioso.
Il terzo discorso è quello “non” pronunciato all’università de La Sapienza di Roma il 17 Gennaio scorso, un fatto vergognoso ed offensivo non soltanto per i credenti, ma per la coscienza civile e democratica di tutti gli italiani. Allora fu affidato al Papa il tema de “Il rapporto tra scienza e fede”. Mi limito a citare un passaggio conclusivo di quel discorso: “Se la ragione – sollecita della sua presunta purezza – diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola.”.
E’ il grande rischio che sta correndo la cultura europea oggi. Svincolarsi dalla propria radice cristiana, significa frantumarsi in tanti piccoli universi insignificanti, per poi essere riassorbiti da qualcosa di più forte ed unitario. Basta guardare a ciò che già sta succedendo in Inghilterra (e in parte anche in Francia), dove in nome della multiculturalità sono nate delle corti in cui si giudica secondo la sharìa islamica e non secondo il diritto comune dello stato sovrano, uguale per tutti.
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 30 Settembre 2008
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15. Violenza anticristiana in India
I recenti scontri tra cristiani e indù avvenuti nella regione dell’Orissa, stato del nord-est dell’India, meritano un approfondimento, prima di tutto per capire bene come stanno le cose.
Padre Giorgio Bernardelli del PIME, in un articolo sulla rivista missionaria MONDO E MISSIONE del Maggio scorso, dal titolo: Orissa, i perseguitati di serie B, dice che i disordini sono addirittura precedenti al Natale 2007. Allora il bilancio fu di sette morti e di centinai di feriti, oltre alla distruzione di chiese, conventi, scuole, centri pastorali, socio-culturali e dispensari. Gli scontri di questi ultimi giorni, di cui si sono occupati i mezzi di informazione del mondo intero, non sono altro che l’epilogo di una scia ininterrotta di violenze, a seguito del pesante clima di intimidazione nel quale sono costretti a vivere da anni i cristiani di quello stato. L’arcivescovo di Chuttack-Bhubaneswar, mons. Raphael Cheenath, nel cui territorio si trova il distretto di Kandhamal, teatro degli scontri, già il 22 Dicembre scorso aveva allertato le forze di polizia, onde prevenire nella prossimità delle festività natalizie, molto probabili rappresaglie da parte dei fondamentalisti indù. Le autorità del luogo, non soltanto non hanno minimamente contrastato i facinorosi, che a cominciare dal 24/12, per quattro giorni hanno agito indisturbati, ma addirittura nei giorni successivi hanno pure impedito alle Ong internazionali, presenti sul territorio, di portare aiuto alle vittime, in nome di non ben giustificati motivi di ordine pubblico. Oltre all’impagabile costo umano in termini di sofferenza, in pochi mesi è andato distrutto il lavoro di oltre trent’anni di attività missionaria della Chiesa.
In una nota apparsa venerdì 29/08 sull’ Osservatore Romano la Conferenza episcopale dell’India lamenta che la recrudescenza dell’estremismo induista, non soltanto nei confronti dei cristiani, ma anche contro i musulmani e i buddisti, si va via, via diffondendo anche in altri stati dell’unione. Infatti, mentre la Costituzione indiana riconosce la libertà di culto, la legislazione di alcuni stati federati prevede norme che sanzionano le conversioni dall'induismo ad altre fedi. Alla base del contrasto c’è il problema dei dalit. Ricordo che la società indiana da oltre millecinquecento anni è costruita sul sistema delle caste, con quattro principali livelli. Le persone al di fuori di esse sono considerate fuori casta o intoccabili. Oggi sono chiamati tutti insieme dalit, termine sanscrito che sta per «calpestati». Molti di essi si convertono al cristianesimo, dove trovano riscatto umano ed emancipazione culturale e sociale dalla loro insuperabile e umiliante condizione di marginalità, elevandosi fino ad assumere all’interno della Comunità cristiana compiti di responsabilità, in quanto religiosi e sacerdoti. Un affrancamento che spesso non è accettato nemmeno dagli stessi cristiani dell’India, provate a immaginare come possono reagire coloro che vedono così stravolto un sistema sociale rimasto immutato da tempo immemorabile. A questo problema si collegano poi gli enormi interessi politici ed economici, collegati allo straordinario grado di crescita e di sviluppo che sta interessando tutto il subcontinente indiano, nel quale sono coinvolte oltre un miliardo di persone.
Un ultimo pensiero a proposito delle persecuzioni contro i cristiani, tema già da me affrontato in un articolo del Giugno scorso sul magazine mensile MANTOVACHIAMAGARDA, in edicola con LA VOCE ogni primo giovedì del mese. Dal 2003 in alcune risoluzioni dell’ONU si parla espressamente di “cristianofobia”, termine generico con il quale si indicano tutti gli abusi a cui sono soggetti i cristiani nelle varie regioni del mondo. La discriminazione e l’intolleranza comincia con l’ignoranza del cristianesimo, a cui molto contribuiscono i mezzi di informazione, trovano poi forza e conferma nei provvedimenti legislativi ad hoc, per sfociare infine in vere e proprie forme di violenza e di persecuzioni. Quello che stupisce è che, soprattutto qui in Occidente, quando vengono ammazzati dei cristiani non ci si indigna così tanto, come quando a subire sono i monaci del Myanmar o quelli del Tibet. C’ è differenza tra la sofferenza degli uni e degli altri? Oppure dipende dal fatto che la laicità culturale ed istituzionale vale soltanto davanti alla croce e non davanti ad altri simboli religiosi?
Don Marco Belladelli.
  Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 2 Settembre 2008
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14. A proposito della Santa Rita di Milano
Lo scandalo della casa di cura milanese Santa Rita continua ad arricchirsi di nuovi particolari. Dopo gli interventi chirurgici del tutto gratuiti e l’impianto a casaccio di protesi ortopediche, le cronache di questi ultimi giorni parlano addirittura di pazienti usati come cavie. Più vanno avanti le indagini e più si rimane senza parole. Neanche si fossero ispirati alle esilaranti e surrealistiche performance di certi comici, che vanno per la maggiore. Il grave è che invece non c’è proprio niente da ridere.
Mentre la magistratura continua il proprio lavoro per individuare i colpevoli, nelle loro specifiche responsabilità, non possiamo fare a meno di interrogarci sul perché, nella città italiana da tutti additata come modello di funzionalità e modernità, si sia potuto arrivare a tanto? Quale meccanismo ha fatto impazzire il sistema della efficientissima Regione Lombardia, dove ancora ci si vanta di amministrare in ossequio ai rigorosi e scrupolosi canoni di asburgica memoria? Finora l’unica risposta è: gonfiare i DRGs, o ROD, cioè aumentare gli introiti. Ora vi spiego cosa significano queste due sigle, ai più sconosciute, e che c’entrano con i profitti.
Scusatemi se la prendo un po’ alla larga. Da trent’anni (1978) in Italia abbiamo il Sistema sanitario nazionale (SSN), che ha sostituito le vecchie mute. Dopo lo scandalo Poggiolini, De Lorenzo e compagnia dei primi anni novanta, per ridurre gli sprechi, dovuti soprattutto alle pesanti interferenze politiche, si è pensato di riformare il sistema. Nel ’95 è entrata in vigore la cosiddetta aziendalizzazione, con la quale si voluto ripensare il SSN secondo principi e criteri propri del libero mercato: il paziente diventa così un cliente, l’ospedale un’azienda e i trattamenti terapeutici la merce di scambio. Ogni diagnosi viene monetizzata in una cifra, che la Regione di appartenenza del malato dovrà corrispondere all’istituto che l’ha fornita. Nascono i ROD (raggruppamento omogeneo delle diagnosi, o DRGs in inglese), cioè il catalogo di tutte le possibili prestazioni sanitarie, la cui quantificazione moltiplicata con i risultati di ogni singola struttura, viene a rappresentare il fatturato di un’azienda sui generis, qual è un ospedale. Sempre con l’intento di risparmiare, visto che la sanità privata in genere è più economica di quella pubblica, soprattutto in Lombardia si è proceduto all’accreditamento di numerose strutture sanitarie private al SSN, alle quali il cittadino può rivolgersi liberamente, senza nessun particolare aggravio di spesa. 
E come si dice, fatta la legge, fatto l’inganno. Così alla Santa Rita, dopo aver ottenuto l’accreditamento dalla Regione, per aumentare i loro utili hanno pensato bene di inventarsi diagnosi inesistenti, facendo riferimento ovviamente a quelle meglio remunerate, ai danni dei poveri ed ignari pazienti, ai quali non pareva vero di essere curati in una bella clinica a spese del SSN.
Proprio sul problema dell’accreditamento dei privati, poco meno di una decina di anni fa, ci fu una dura polemica tra l’allora ministro della sanità, On. Bindi e il presidente della regione Lombardia, On. Formigoni, il quale accusava l’esponente del governo di statalismo, mentre a suo dire la sanità doveva essere al servizio dei cittadini e della loro libera scelta.
Andando oltre la demagogia, pesante tara della politica italiana e non dei nostri giorni, le recenti vicende delle clinica Santa Rita evidenziano sfacciatamente i limiti di certe impostazioni. Come si fa, per esempio, a parlare di libera scelta del cittadino, quando è in gioco la salute della persona? Chi è quel tale che si rivolge alle strutture sanitarie con la stessa disinvoltura e tranquillità con cui si aggirerebbe all’interno di un centro commerciale per comparare qualità e prezzi dei prodotti? Perché invece di affrontare un vero risanamento del sistema sanitario pubblico, rimasto totalmente assoggettato agli interessi della maggioranza politica di turno e dissolto in venti sotto-sistemi regionali con qualità ed efficienza diametralmente opposti l’uno dall’altro, si è preferito affidarsi ai privati, il cui fine, si sa, non è certo quello di emulare il Buon Samaritano?
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 20 Giugno 2008
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13. Fine dell’anno scolastico
ed emergenza educativa
La scorsa settimana molti genitori hanno partecipato ai saggi di fine d’anno organizzati dagli insegnanti dei loro figli, magari facendo pure i salti mortali tra i vari impegni, professionali e non, per non mancare. Così tra canti suoni e balli, baci e abbracci, e un arrivederci a Settembre, anche quest’anno scolastico è finito in bellezza.
A Roma, in una delle feste di fine d’anno che abitualmente seguono ai saggi sopra citati, una ragazzina di sedici anni è stata aggredita dalle compagne di classe a colpi di gavettoni, fino a mandarla all’ospedale. La giustificazione: era troppo bella e i maschi non avevano occhi che per lei. Insomma, un caso di concorrenza sleale, e non essendo stata ancora istituita una particolare Authority per dirimere tali problemi, le poverine hanno pensato bene di farsi giustizia da sole. A Milano invece sabato scorso due fratelli annoiati (non so se per la fine della scuola o per altro) hanno sparato sul tram che passa sotto casa loro, ferendo un passeggero.
Sono soltanto gli ultimi episodi di bullismo, fra i tanti che nei mesi scorsi hanno occupato le cronache nazionali, nuovo e ripugnante corollario alla vita scolastica e al tempo libero delle nuove generazioni. Questi fatti si vanno sempre più spesso configurando come reati, perseguibili penalmente, quando non si arriva all’omicidio vero e proprio, come nei due casi dei balordi di Verona, che per un nulla hanno massacrato di botte Nicola Tommasoli, e della quattordicenne di Niscemi (Caltanisetta), la povera Lorena Cultraro, strangolata e buttata in una vasca per l’irrigazione, perché, rimasta incinta dopo la violenza subita dai suoi tre aguzzini, tutti minorenni, aveva minacciato di denunciarli, portando come prova la gravidanza.
Il fenomeno del bullismo trova spazio anche sul sito della Polizia di Stato, dove si legge questa descrizione: Atti di intimidazione, sopraffazione, oppressione fisica o psicologica commessi da un soggetto "forte" (bullo) nei confronti di uno "debole" (vittima) in modo intenzionale e ripetuto nel tempo. Le aggressioni possono essere: fisiche: calci, pugni, sottrazione di beni; verbali: minacce, offese, insulti, prese in giro; psicologiche: esclusione, isolamento, diffusione di calunnie. Il fenomeno riguarda maschi e femmine e si manifesta soprattutto in ambito scolastico, ma anche in strada, nei locali e nei luoghi di ritrovo. Seguono indicazioni su che cosa fare e/o a chi rivolgersi se ci si trovasse coinvolti personalmente.
Ciò che più sorprende poi è lo stupore dei genitori dei responsabili di queste azioni, i quali post factum affermano di non aver mai notato nulla di anormale nei loro figli, a loro dire le persone più brave e tranquille del mondo, quando addirittura non si arriva all’assurdo della giustificazione.
Le agenzie impegnate a vari livelli e ambiti nella formazione dei giovani parlano ormai apertamente di una vera e propria emergenza educativa. La nostra società si può configurare come la sovrapposizione di una generazione sull’altra, stratificazione caratterizzata da una sempre più netta separazione tra i vari elementi, per l’incapacità di comunicare tra di loro. Nessuna epoca storica ha riversato tanta ricchezza di affetti e ancor più abbondanza di beni materiali sui propri figli, come è successo negli ultimi cinquanta anni. D’altro canto nel passato non si è mai notato nei giovani un vuoto spirituale come quello che si registra oggi, dovuto all’incapacità degli adulti di trasmettere e di condividere quei valori e quegli ideali su cui si fonda e si sviluppa un progetto di vita.
Consapevole che il mestiere del genitore è il più difficile del mondo, lasciando da parte la presunzione di chi ha le soluzioni in tasca, come pure la banalità di chi pensa che il problema non lo riguardi, mi permetto di rivolgere un invito a tutti gli adulti che hanno la pazienza di leggermi. Impegniamoci nei prossimi tre mesi ad avere un occhio di riguardo nei confronti dei giovani di famiglia e non che ci girano intorno, non solo per prevenire certe problematiche da bullismo, ma per essere ai loro occhi e soprattutto ai loro cuori testimoni credibili di quelle realtà e di quei valori su cui è possibile costruire sia l’esistenza personale, sia progetti di vita sociale.
Don Marco Belladelli
Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 13 Giugno 2008
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12. il ritorno di Padre Pio.
Ieri, attraversando una piazza di Roma, ho notato una troupe televisiva che intervistava i passanti, chiedendo i loro pareri sull’imminente ostensione del corpo di Padre Pio. Al volo ho colto la provocazione del giornalista: “ … Allora perché non si fa la stessa cosa per Giovanni Paolo II?”.
Al di là di ogni valutazione circa l’opportunità o meno di una tale iniziativa, c’è da dire che tra le azioni previste dalla Chiesa nella promozione del culto dei santi, in occasione della beatificazione, della canonizzazione, o in coincidenza con qualche anniversario importante riferito alla vita, alla morte o a qualche altro fatto particolare dell’opera del santo stesso, è contemplata anche la ricognizione dello stato di conservazione delle reliquie o del corpo. Insomma quello che sta avvenendo per Padre Pio, lo si fa abitualmente anche per tutti gli altri santi, ovviamente con molto meno clamore. Nel 1986 per esempio è stata fatta la stessa cosa anche per il corpo del nostro patrono, S. Anselmo, da oltre novecento anni custodito sotto l’altare maggiore del duomo di Mantova.
Farò più rumore da morto che da vivo”. Lo disse lo stesso Padre Pio a chi gli faceva notare l’esagerato fermento che c’era attorno alla sua persona. E di quanto fossero profetiche quelle parole, ce ne siamo accorti da quarant’anni a questa parte. In tutto questo tempo non è mancata occasione per parlare e sparlare del Santo del Gargano. Ci mancava soltanto l’ostensione della salma, annunciata dal Vescovo, Mons. D’Ambrosio, il 6 Gennaio scorso e apertasi il 24 Aprile, per alimentare nuovi entusiasmi tra gli estimatori e antiche polemiche invece da parte dei suoi detrattori. 
Sono novant’anni che Padre Pio fa parlare di sé, a cominciare da quel 20 Settembre del 1918, giorno in cui sul suo corpo comparvero improvvisamente e misteriosamente le stigmate, visibili a tutti, cioè le cinque piaghe che ricordano la crocifissione di Gesù. Fino ad allora la sua straordinarietà era nota soltanto a coloro che lo avevano frequentato personalmente, per consuetudine o familiarità. Dopo invece divenne famoso in tutto il mondo. Insieme a questo segno, Padre Pio ha ricevuto anche tanti altri carismi, quali le visioni a distanza, nello spazio e nel tempo, la capacità di leggere nei cuori e nelle coscienze per indurre le persone alla conversione o per procurare loro guarigione fisica e/o spirituale, la bilocazione, il potere di liberazione da qualsiasi legame col maligno, insieme anche ad una capacità sovrumana di sopportare dolore e sofferenze, fame e sete. Tutti questi doni inequivocabilmente di origine soprannaturale, li ha sempre messi a disposizione esclusivamente di coloro che accorrevano a lui per avere sollievo dalle loro pene e sofferenze fisiche e spirituali.
Di nessun santo o personaggio storico si è scritto tanto come per lui. Dopo la morte la sua bibliografia ha continuato ad arricchirsi di nuovi titoli, fino ai nostri giorni. E’ dell’autunno scorso l’ultima polemica suscitata da Sergio Luzzatto, docente di storia presso l’università di Torino, secondo il quale il Cappuccino del Gargano sarebbe un’impostore, a cui hanno subito replicato due esperti giornalisti, Saverio Gaeta e Andrea Tornielli, confutando punto per punto le tesi del Luzzatto. Ai libri si sono poi aggiunte le varie fiction in occasione della sua beatificazione e canonizzazione, le quali hanno ancor più contribuito a diffondere la sua popolarità.
Nonostante tutto la figura di Padre Pio è stata e continua ad essere un mistero per tutti, sia per i non credenti, sia per i credenti. Allora ci chiediamo: era proprio necessaria questa ostensione? Che cosa aggiunge alla sua santità?
Ci aiuta a rispondere a queste domande il noto giornalista e scrittore Antonio Socci. Lui pure ha voluto confrontarsi con la figura di Padre Pio. Ci ha raccontato l’esito di questo incontro in un volume pubblicato recentemente, dal titolo Il segreto di Padre Pio, edito da Rizzoli. A suo dire il mistero di Padre Pio è riassunto in questa sua frase, scritta nel lontano 1915: “Tutti i tormenti di questa terra raccolti in un fascio, io li accetto, o mio Dio, io li desidero qual mia porzione, ma non potrei giammai rassegnarmi di essere separato da voi per mancanza di amore”. Come si può capire, la sua missione non è ancora finita, ma si prolunga nel tempo, fin dove e fino a quando Dio lo vorrà. Insomma Padre Pio è un alter Christus, cioè un segno forte, concreto, ben radicato nella storia e nell’animo dell’umanità, contro il quale tutti prima o poi, bene o male,  inciamperanno, per convincersi attraverso di lui della bontà del Dono di salvezza offerto da Gesù agli uomini. Quando ci arrenderemo a tanta evidenza, sarà sempre troppo tardi.
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 26/04/08.
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11. La domenica in albis
di magdi allam 
Domenica in albis deponendis. Da secoli la Domenica successiva alla Pasqua è così chiamata, perché anticamente coloro che avevano ricevuto il battesimo nella notte del Sabato santo, deponevano la veste bianca, indossata per l’occasione, come segno della loro vita nuova di cristiani e della loro dignità di figli di Dio, a immagine e somiglianza di Gesù. Anche Magdi Cristiano Allam deporrà oggi la sua veste bianca. E speriamo che insieme con i segni liturgici vengano deposte anche tutte le polemiche che in questa settimana hanno animato il dibattito culturale e mediatico a seguito della sua conversione.
Se ne sono dette di tutti i colori, a proposito e a sproposito. C’è chi subito, ha gridato all’apostasia; chi addirittura ha parlato di una minaccia contro l’Islam. Non poteva mancare poi chi ha colto l’occasione per insultare nuovamente Papa Benedetto XVI, indicandolo come un provocatore nato, perché ha acconsentito a battezzarlo personalmente, con tanta solennità, durante la Veglia pasquale nella basilica di San Pietro, quando si aveva la certezza che quelle immagini avrebbero fatto il giro del mondo. C’era bisogno di buttare altra benzina sul fuoco delle difficili relazioni tra Occidente e Islam? Non ne ha avuto abbastanza delle grane che ha causato il suo famoso discorso di Ratisbona del Settembre 2006? E che dire poi de Il Corriere della Sera, il maggiore quotidiano italiano di cui Allam è collaboratore da cinque anni e vice-Direttore ad personam, che lo censura, pubblicando solo parzialmente una sua lettera inviata al Direttore, Paolo Mieli, in cui il neo battezzato illustra il suo percorso umano, spirituale, culturale e sociale, che lo ha portato a vivere quello che egli stesso definisce “il giorno più bello della vita” e “un fatto storico, eccezionale e indimenticabile, che segna una svolta radicale e definitiva rispetto al passato”? E’ significativo che di quella lettera sia stata tagliata propria la parte che fa riferimento agli aspetti umani e spirituali, accentuando così quasi esclusivamente il valore polemico e politico della scelta di Magdi Cristiano. Leggendola per intero si capisce che la conversione non è semplicemente un abbandono di un islam “che è fisiologicamente violento e storicamente conflittuale”, ma anche di un occidente che ha fatto “dell’ateismo sventolato come fede” la propria bandiera.
Anche se, da come pare, Il Corriere lo preferiva mussulmano, non si può banalizzare la decisione di Magdi Allam alla stregua di un semplice cambio di campo, una specie di trasformismo religioso e culturale, paragonabile a quello a cui ci hanno abituato tanti politici nostrani in questi ultimi quindici anni. Il suo è un vero e proprio incontro con il Cristo risorto, fino ad accettare la logica dell’amore ai nemici. E’ lui stesso che lo riconosce esplicitamente, quando dice: “Il miracolo della Risurrezione di Cristo si è riverberato sulla mia anima liberandola dalle tenebre di una predicazione dove l’odio e l’intolleranza nei confronti del ‘diverso’ ”.  Secondo lui quella intrapresa è l’unica vera strada che gli permette “di aderire all’autentica religione della Verità, della Vita e della Libertà. Nella mia prima Pasqua da cristiano io non ho scoperto solo Gesù, ho scoperto per la prima volta il vero e unico Dio, che è il Dio della Fede e Ragione.”.
Di fronte ad una straordinaria pagina di storia dell’umanità, dove al centro ci sono la ricerca della Verità, l’amore per la Vita e il rispetto per la Libertà individuale di chicchessia, è triste vedere come anche questo fatto venga faziosamente manipolato, per essere asservito e sacrificato alla logica del potere e delle convenienze di qualcuno. L’altra cosa che mi colpisce, anche se purtroppo non è una novità in assolto e per questo è sempre più evidente, è il disagio, per non dire il fastidio, di certi ambienti culturali e sociali tutte le volte che si ha esplicitamente a che fare con avvenimenti che fanno riferimento a Dio, a Cristo o alla Chiesa. Quando verrà il giorno in cui in questo nostro Occidente, salvato dal Cristianesimo, si deporranno definitivamente questi stupidi pregiudizi, causa di sterili polemiche, di infondati accuse, fino ad arrivare a vere e proprie forme di disprezzo, per tutto ciò che è cristiano?
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 31/03/08.
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 10. Pasqua, La novità
e il pericolo della deriva
A pochi giorni di distanza Benedetto XVI, con il suo solito stile fatto di mitezza, ma di altrettanta chiarezza e puntuale precisione, sempre a scanso di possibili fraintendimenti ed equivoci, ha lanciato due forti moniti alla Chiesa. Tutti coloro che prendono sul serio la loro fede cristiana non possono ignorare questi due passaggi e, in questo tempo dedicato alle solenni celebrazioni pasquali, non trovare il tempo per riflettere su di essi e capire che cosa comporti oggi il dichiararsi cristiani.
Cominciamo da Sabato 8 Marzo, quando ricevendo in udienza l’assemblea plenaria del Pontificio Consiglio per la Cultura ha detto: “Questa secolarizzazione non è soltanto una minaccia esterna per i credenti, ma si manifesta già da tempo in seno alla Chiesa stessa. Snatura dall’interno e in profondità la fede cristiana e, di conseguenza, lo stile di vita e il comportamento quotidiano dei credenti. Essi vivono nel mondo e sono spesso segnati, se non condizionati, dalla cultura dell’immagine che impone modelli e impulsi contraddittori, nella negazione pratica di Dio: non c’è più bisogno di Dio, di pensare a Lui e di ritornare a Lui. Inoltre, la mentalità edonistica e consumistica predominante favorisce, nei fedeli come nei pastori, una deriva verso la superficialità e un egocentrismo che nuoce alla vita ecclesiale.”.
Otto giorni dopo, nell’omelia della Domenica delle Palme in piazza S. Pietro, parlando del mercanteggiare legalizzato a cui si era ridotto il culto nel tempio di Gerusalemme al tempo di Gesù, ha detto: “Tutto ciò deve oggi far pensare anche noi come cristiani: è la nostra fede abbastanza pura ed aperta, così che a partire da essa anche i “pagani”, le persone che oggi sono in ricerca e hanno le loro domande, possano intuire la luce dell’unico Dio, associarsi negli atri della fede alla nostra preghiera e con il loro domandare diventare forse adoratori pure loro? La consapevolezza che l’avidità è idolatria raggiunge anche il nostro cuore e la nostra prassi di vita? Non lasciamo forse in vari modi entrare gli idoli anche nel mondo della nostra fede? Siamo disposti a lasciarci sempre di nuovo purificare dal Signore, permettendoGli di cacciare da noi e dalla Chiesa tutto ciò che Gli è contrario?”.
Insomma, secondo il Santo Padre, da una parte la fede cristiana è snaturata per il condizionamento che subisce dalla cultura secolarizzata nella quale viviamo; dall’altra la riduzione della religione a praticheidolatriche -mercantileggianti offusca la luce di Dio per noi e per tutti coloro che lo cercano con cuore sincero.
Non è la prima volta che il Papa si occupa e si preoccupa delle difficili condizioni in cui versa la Chiesa. Ricordiamo la famosa Via Crucis del Venerdì santo del 2005, quando, ancora vivo Giovanni Paolo II, l’allora Cardinal Ratzinger nel commento alla nona stazione deplorava la sporcizia che c’è dentro la Chiesa, denunciando abusi di potere, vanità, superbia, autosufficienza, eccesso di protagonismo e tante altre cose. Tra l’altro il tema degli abusi sacramentali è anche una delle motivazioni che ha indotto Benedetto XVI a reintrodurre l’antica liturgia pre-conciliare. Anche nell’ultima enciclica, Spe Salvi, pubblicata il 30 Novembre scorso, non si è lasciato sfuggire l’occasione per mettere in evidenza come in questi ultimi decenni l’aria conciliare abbia significato per qualcuno un cedimento più alle istanze della modernità, che non a quelle della fedeltà alle proprie radici (cfr. SS n.22).
L’alta autorità da cui viene questo monito, unito alla ripetuta insistenza con cui si denuncia questa deriva della Chiesa, che interessa tanto i fedeli quanto i pastori, non può non diventare una delle priorità su cui riflettere e confrontarsi all’interno della Chiesa di oggi. L’urgenza e la necessità di un tale dibattito, non nasce tanto dal bisogno di perseguire una perfezione, mai totalmente realizzabile e raggiungibile nella condizione storica, quanto piuttosto dall’esigenza di riproporre alle generazioni di oggi il Cristo del Vangelo in tutta la sua potenza di vero Salvatore dell’umanità: “Al commercio di animali e agli affari col denaro Gesù contrappone la sua bontà risanatrice. Essa è la vera purificazione del tempio. Egli non viene come distruttore; non viene con la spada del rivoluzionario. Viene col dono della guarigione. Si dedica a coloro che a causa della loro infermità vengono spinti agli estremi della loro vita e al margine della società. Gesù mostra Dio come Colui che ama, e il suo potere come il potere dell’amore. E così dice a noi che cosa per sempre farà parte del giusto culto di Dio: il guarire, il servire, la bontà che risana.” (dall’omelia della Domenica delle Palme).
Se la Chiesa venisse meno alla fedeltà e al mandato di Cristo, non avrebbe più senso di esistere. Siccome questo non può essere, allora avanti con la sfida alla modernità, non per il gusto del conflitto, ma per aprire nuovi orizzonti di vita e di speranza per l’oggi e per il domani. Buona Pasqua!.
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 21/03/08.
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9. Fate tacere Ratzinger!
Giovedì 17 Gennaio il Papa avrebbe dovuto partecipare all’inaugurazione del nuovo anno accademico all’università de La Sapienza di Roma. Martedì 15/01 alle ore 17 e qualche minuto la sala stampa vaticana diramava il seguente comunicato:  A seguito delle ben note vicende di questi giorni in rapporto alla visita del Santo Padre all’Università degli Studi "La Sapienza" di Roma, che su invito del Rettore Magnifico avrebbe dovuto verificarsi giovedì 17 gennaio, si è ritenuto opportuno soprassedere all’evento. Il Santo Padre invierà, tuttavia, il previsto intervento.
L’effetto è stato pari all’esplosione di una bomba. I commenti e le reazioni si sono sprecate. Da una parte lo sconcerto e lo sdegno della stragrande maggioranza degli italiani, cattolici e non, che vedono in questo fatto il segno della grave crisi culturale che attraversa il nostro Paese. Dall’altra una neanche tanto malcelata soddisfazione di uno sparuto gruppo di irriducibili anticlericali, gongolanti per essere riusciti con i loro metodi violenti, almeno una volta, a far tacere non tanto il Papa, quanto piuttosto il “Ratzinger". Diciamo subito che questa minoranza numericamente insignificante (67 professori su 4.500, 1,375% e un centinaio di studenti contro le decine di migliaia che frequentano l’università) non sarebbe arrivata a tanto senza la complicità dei mass media, che farisaicamente ieri hanno concesso loro le prime pagine dei giornali nazionali e le copertine dei vari TG, oggi si stracciano le vesti per l’accaduto. Tanta enfasi non si giustifica soltanto con il diritto di cronaca, ma risponde alle logiche e agli interessi, neanche tanto oscuri, di chi oggi controlla il mondo dell’informazione in Italia.
In un mio intervento su MANTOVACHIAMAGARDA del Febbraio scorso avevo accennato a questa sempre più crescente insofferenza di certi ambienti laicisti e radicali nazionali verso questo Papa, che con il suo argomentare logico, puntuale e preciso smaschera le loro mistificazioni ideologiche fondate su uno scientismo libertario, bolso e superato. Coloro che hanno impedito al Papa di partecipare all’inaugurazione dell’anno accademico sono contenti, perché sono riusciti nell’intento di chiudere la bocca all’uomo Ratzinger, la cui parola, chiara e forte, oggi ancor più amplificata e autorevole per l’alto mandato di cui è investito, non solo illumina, ma sbaraglia gli avversari. E quando non si è più in grado di sostenere il confronto rispettoso e il dialogo corretto, per prevalere non resta che la violenza, in qualsiasi forma la si esprima. Nell’atteggiamento assolutamente irriducibile e assurdamente irrazionale di questi “scienziati” anti-papalini del terzo millennio e dei loro adepti, mi è parso di cogliere come una specie di furore sacrilego, cosa ben diversa da ciò che comunemente chiamiamo passione ideologica, insomma qualcosa che mi ha ricordato certe scene evangeliche, nelle quali con la stessa collera diabolica ci si scagliava contro Gesù per farlo tacere. In proposito, qualora gli apostoli si fossero trovati nelle stesse situazioni, Gesù ha dato delle indicazioni ben precise: “Se qualcuno poi non vi accoglierà e non darà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dai vostri piedi.” (Mt 10,14). Allora quel “soprassedere” contenuto nel comunicato della Santa Sede che cosa significa? E’ un rimandare a tempi migliori, visto che un primo spostamento c’era già stato, dal 30/11 al 17/01, oppure il Papa ha voluto evangelicamente scuotere anzitempo dalle proprie scarpe, prima ancora che ne fossero imbrattate, la polvere di questa anticultura irragionevolmente laicista e arrogante contro coloro che ottusamente ancora la rappresentano e la sostengono?
Una tale lettura dei fatti di questi giorni può risultare ai più un po’ stravagante, lo riconosco. Non lo è, se ricordiamo le parole pronunciate da Benedetto XVI all’inizio del suo pontificato: Pregate per me, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi. Come per dire, se proprio non lo avessimo ancora capito, che quelli che stiamo vivendo sono proprio tempi da lupi.
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su “LA VOCE DI MANTOVA” il 18/01/2008
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8. la moratoria sull’aborto 
Da alcuni giorni seguo con interesse il dibattito che si sta sviluppando attorno alla proposta di Giuliano Ferrara per una moratoria mondiale sull’aborto. Lanciata poco meno di un mese fa, immediatamente dopo il successo ottenuto dall’altra moratoria, quella contro la pena di morte, votata da 104 paesi aderenti dell’ONU, nel suo appello il Direttore de Il Foglio si rivolge alle buone coscienze che si rallegrano per questo risultato, perché ora riflettano sulla strage eugenetica, razzista e sessista degli innocenti, che riguarda centinaia di milioni di esseri umani. A sostegno della sua iniziativa, dalla vigilia di Natale fino al 1° dell’anno, giorni nei quali tutti si abbuffano più del solito, il Ferrara si è anche sottoposto ad un digiuno, o come lo ha chiamato lui stesso, una dieta speciale contro l’ipocrisia e la bruttezza di un tempo in cui la morte viene bandita in nome del diritto universale alla vita e blandita, coccolata come un dramma soggettivo, nella spregevole forma, e molto oggettiva, dell’aborto chirurgico o farmaceutico.
Soltanto lui, nella sua veste di ateo devoto, come ultimamente si autodefinisce, poteva imbarcarsi in un impresa del genere, tanto da sorprendere un po’ proditoriamente, senza dubbio in modo provocatorio, il cosiddetto mondo laico italiano (e non solo), di cui è figlio e, per un certo verso, ancora partecipe, su un tema così sensibile, come l’aborto, che da trent’anni viene sbandierato come una conquista importante e rilevante di emancipazione umana, sociale e civile, così come la intende questo stesso ambiente culturale.
Nelle reazioni traspare evidente per un certo verso il fastidio di chi a questo punto non può sottrarsi al confronto, e d’altra parte l’imbarazzo di trovarsi a corto di ragioni per difendere posizioni fino ad oggi date per assodate e assolutamente indiscutibili. Al di là dei diktat della Turco, intanto tra i politici di entrambi gli schieramenti (quindi non da parte dei mal tollerati volontari del Movimento per la vita che in tutti questi anni si sono dati da fare per far venire al mondo circa 200.000 bambini italiani destinati ad non vedere la luce) si è cominciato a dire che, se la famosa 194, la legge che ha legalizzato l’aborto, è stata approvata prima di tutto a tutela la maternità, bisogna applicarne tutti quegli aspetti che fino ad oggi sono stati disattesi, a cominciare dal corretto funzionamento dei consultori pubblici o privati che siano. Davanti ai numeri di questa piaga (nel suo appello Ferrara denuncia più di un miliardo di aborti praticati legalmente in questi ultimi decenni nel mondo, tra cui sono incluse le 500.000 donne che non hanno visto la luce in India, come misura di controllo demografico) lascia sconcertanti l’equivoca perplessità di certi cattolici, che si interrogano sulla opportunità politica di questa battaglia.
Secondo il mio modesto parere, non è altro che la risposta ad un altro appello, ben più autorevole e dalle dimensioni davvero universali, lanciato tredici anni or sono dal grande Giovanni Paolo II nell’enciclica Evangelium vitae:

Il monito del Papa aveva e continua ad avere la forza profetica, propria del Vangelo, cioè una Parola, che una volta seminata, non si sa bene né come né perché porta frutto nei modi e nei tempi del tutto imprevedibili.
Ci voleva l’Ateo-devoto di turno per farci aprire gli occhi su quale insidiosissimo bivio stia davanti a noi a proposito dei sensibilissimi temi della vita umana. E’ venuto il momento di darsi una regolata, a cominciare dalle scelte personali, per continuare poi con le scelte politiche di chi ci governa, perché o si è sempre e comunque a favore della vita umana, e quindi si contribuisce al benessere futuro dell’umanità, o si è inequivocabilmente contro di essa.
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su “LA VOCE DI MANTOVA” il 15/01/2008
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7. Speranza cristiana e
declino del mondo 
Venerdì 30 Novembre scorso è stata pubblicata la seconda enciclica di Benedetto XVI. Annunciata dai soliti ben informati già quest’estate come un intervento sui temi sociali del nostro tempo, ancora una volta Papa Ratzinger spiazza tutti scegliendo invece di parlare della seconda virtù teologale, la Speranza.
La Spe salvi, questo è il titolo della nuova enciclica, si presenta come una grande lectio magistralis, che a partire dal concetto cristiano di Speranza, si sviluppa lasciandosi incalzare dalle domande che di volta in volta sorgono in relazione a quanto si va progressivamente esponendo. Il discorso spazia dai problemi di ermeneutica teologica, al confronto con la cultura moderna, dalla testimonianza coraggiosa dei martiri e dei santi, alla valorizzazione dei fioretti, i piccoli sacrifici quotidiani per mezzo dei quali in un passato recente anche un bambino imparava a unire la propria vita a quella di Gesù.
Secondo il Papa, la novità del cristianesimo consiste nel possedere già al presente ciò che si spera per il futuro, tanto che tutto quanto viene vissuto e sperimentato nell’oggi diventa la prova certa, e non illusoria, di quel qualcosa di ancora più grande che ci attende. “Il cielo non è vuoto. La vita non è un semplice prodotto delle leggi e della casualità della materia, ma in tutto e contemporaneamente al di sopra di tutto c'è una volontà personale, c'è uno Spirito che in Gesù si è rivelato come Amore” (n.5), uno Spirito che ci conosce e che è possibile incontrare. La dinamica esistenziale, propria della virtù della Speranza, è quella che ci orienta verso quella beatitudine, che ancora non conosciamo, ma dalla quale ci sentiamo straordinariamente attratti. Il lavoro quotidiano per procurarci il pane del corpo e dell’anima, ci prepara anche per il nuovo Paradiso che sta davanti a noi.
Segue a questo punto il confronto con l’epoca moderna, che occupa circa un terzo di tutto il documento. Tanto rilievo evidenzia l’importanza di questo passaggio. E’ la parte infatti che più è stata presa in considerazione dai vari commentatori sui giornali e nel corso dei vari dibattiti che sono seguiti. Ancora una volta il Papa va dritto al cuore della questione. La modernità è iniziata con un passaggio sconcertante: la sostituzione della fede in Dio con la fede nel progresso scientifico e tecnologico, dominato dalla ragione, perfettamente libera. Attraverso l’analisi dei vari passaggi storici e culturali, illustra l’ambiguità del progresso e la necessità di una autocritica dell’età moderna, a cui si accompagna pure l’autocritica di un certo cristianesimo moderno, non del tutto immune da un contagio, nemmeno tanto superficiale.
L’enciclica si conclude con l’indicazione di tre “luoghi” di apprendimento e di esercizio della Speranza: la preghiera, l’agire e il soffrire, il Giudizio finale a cui tutti saremo sottoposti.
Perché il Papa ha scelto di parlare proprio della Speranza? Perché senza questa prospettiva, tanto profonda da comprendere addirittura l’orizzonte dell’eternità, e senza questo fondamento altrettanto solido, rappresentato dall’attualità del gesto di Amore di Gesù, l’unico capace di suscitare in coloro che ne sono toccati altrettanta forza di speranza per chi vive nel buio, tutto si ridurrebbe a mera materialità. Non si tratta di un problema contingente, ma del banco di prova per ciò che veramente vale in assoluto e oltre ogni limite. Dalla citazione dello Pseudo-Rufino, secondo il quale “Il genere umano vive grazie a pochi; se non ci fossero quelli, il mondo perirebbe...” (n. 15), si capisce che dalla testimonianza di questa Speranza dipendono le sorti del mondo. Oggi c’è più che mai bisogno di quella stessa Speranza che già duemila anni fa ha trasformato la vita di molti uomini e donne, fino a renderli capaci di sopportare le situazioni più dolorose e umilianti, senza disperare della propria salvezza. La modernità ha dimostrato che la scienza (e con lei anche la tecnologia) è una via indiscutibilmente utile per l’emancipazione, ma non per la redenzione dell’uomo. Lo stesso discorso vale anche per le strutture. La loro bontà costituisce certamente un aiuto, ma non cambiano l’uomo nel suo interno. Continuando su questa via si rischia la fine perversa di tutte le cose, già prevista da Kant oltre due secoli fa. Senza Dio all’uomo rimangono tante speranze che continuamente sorgono e muoio come il sole ogni giorno, ma viene a mancare la grande Speranza che non tramonta mai, quella che sostiene tutta la vita, fino al raggiungimento della sua meta, l’eternità.
Concludiamo lasciando la parola al Pontefice: “Dio è il fondamento della speranza – non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l'umanità nel suo insieme.” (n. 31).
Al di là di tutto, questo è e rimarrà anche per il futuro prossimo il principale dilemma del nostro tempo, o stiamo con Dio, il Dio cristiano, oppure siamo contro di Lui e contemporaneamente anche contro l’uomo.
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su “LA VOCE DI MANTOVA” il 12/12/2007
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6. Halloween e dintorni.
La sera del 31/10 scorso, mentre rientravo a casa dopo una cena con amici, osservavo per le strade di Roma migliaia di giovani con i cappelli a punta delle streghe, altri con il costume del fantasma, altri ancora variamente mascherati da zombi. Festeggiavano halloween, la notte dei morti viventi. Il consumismo, insieme alla voglia di essere più americani degli americani, ha diffuso questa moda anche da noi. Perfino i bambini di prima elementare a scuola vengono intrattenuti per giorni e giorni su halloween e tutto il suo armamentario fatto di zucche vuote, spiriti e diavoli. E’ un gioco, mi diceva più rassegnato che convinto un amico genitore. Quando fino a qualche anno fa, c’era  ancora qualche prete che aveva il coraggio di parlare di oltretomba e di paradiso, purgatorio ed inferno, rischiava di essere pubblicamente irriso come iellatore, se non addirittura paragonato a un terrorista psicologico.
In questo nostro tempo nel quale è sempre più difficile trovare un punto di l’equilibrio e in moltissimi ambiti della vita le alternative sono state volutamente ridotte in modo semplicistico a due: o destra o sinistra, o giusto o sbagliato, o bene o male, a proposito del mondo più o meno fantastico che halloween e dintorni evoca, credo che faccia bene a molti leggere un libro dal titolo: Fuggita da satana. La mia lotta per scappare dall’inferno, ed. PIEMME. Pubblicato di recente, nonostante non abbia goduto della ribalta mediatica di TV e giornali per espressa volontà dell’autrice, nelle librerie è andato letteralmente a ruba.
Si racconta la storia, tanto incredibile quanto inquietante, di una ragazza, (Michela è uno pseudonimo) oggi quarantenne, che dopo una serie di peripezie tanto dolorose quanto allucinanti, è entrata a far parte di una delle sette sataniche più potenti oggi operanti in Italia. Le sue disavventure cominciano con l’abbandono all’età di due anni in un istituto insieme al fratello minore, dove subisce violenze di ogni genere, fino a quando verso i sei anni, viene adottata. Le cose però non migliorano di molto. Il momento più critico arriva con la morte di Luca, un ragazzo da poco tempo ritornato alla fede cristiana dopo anni di vita spericolata, di cui s’innamora e con il quale decide di sposarsi. Luca morirà di AIDS quattro giorni prima della data fissata per il loro matrimonio, a causa di una trasfusione in tempi in cui non si sapeva ancora nulla di questa terribile malattia. Michela, al colmo della disperazione lancia una sfida a Dio: “Dio, se esisti io ti distruggo! Se non esisti passerò la vita a dire che non esisti”. Sopraffatta dal dolore, accetta il consiglio di una collega e si affida ad una psicoterapeuta. Dopo breve tempo la dottoressa si rivelerà essere una sacerdotessa di satana e Michela si ritrova nel bel mezzo del delirio di una messa nera. Per progredire gerarchicamente nella setta le viene chiesto di uccidere Chiara Amirante, una giovane ragazza romana che dal 1991 frequenta la stazione Termini e con la sola forza del Vangelo ha strappato molti giovani dalla strada. Ha fondato la Comunità Nuovi Orizzonti, dove molte persone perse nelle schiavitù e dipendenze del nostro tempo incontrano Cristo e ritrovano se stessi. L’incontro con Chiara cambierà radicalmente la vita di Michela, fino a consacrarsi questa volta al Signore Gesù, con i voti di povertà, castità, obbedienza e gioia. Le circostanze infine la porteranno a Medjugorie, dove la Madonna, da brava Madre quale solo lei sa essere, le viene personalmente in aiuto per guarire la sua sofferenza, iniziata con l’abbandono in istituto.
Una coraggiosa denuncia della perversità delle sette sataniche che ci permette di conoscere le loro diaboliche attività, con cui, in nome della loro insaziabile sete di potere, non si limitano a combattere in modo sacrilego la religione cristiana, ma arrivano ad uccidere gratuitamente chiunque.
Se leggendo questo libro già alle prime pagine si è tentati di riporlo per la durezza e la crudezza della realtà tanto sconcertante ivi descritta, pensate al coraggio di Michela che, superando ogni limite di pudore, si è messa in piazza, come nessuno di noi avrebbe mai fatto, e per non tacere la malvagità delle sette sataniche ha rischiato la sua stessa vita. Girarsi dall’altra parte come se niente fosse, o peggio ancora fuggire per paura, mi sembra a dir poco una vigliaccata imperdonabile.
Il libro è prima di tutto una straordinaria testimonianza di fede. Se Dio è così potente da strappare letteralmente un’anima dalla perdizione dell’inferno, come nel caso di Michela, di che cosa abbiamo ancora bisogno per convincerci ad essere, oggi più che mai, dei cristiani seri? Quando Michela ci rinfaccia la nostra tiepidezza, affermando: “Se pensi che per sfuggire a satana sia sufficiente credere in Dio, ti sbagli!”, vuole spronarci a vivere la fede cristiana con la stessa tenacia e radicalità con cui i satanisti combattono Dio e tutto ciò che lo rende presente. Se avessimo un briciolo di quella determinazione per Dio e la sua bontà, con cui essi collaborano con il male e lo diffondono, il mondo sarebbe il paradiso terreste. E ricordate che la lotta comincia sempre da se stessi, con la sincera conversione del proprio cuore.
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su “LA VOCE DI MANTOVA” il 03/11/07
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5. Farmacisti e
obiezione di coscienza 
Tutti i giornali di Martedì 30/10 riportavano in prima pagina, con grande risalto le parole di Papa Benedetto XVI, con le quali, durante l’udienza speciale concessa ai delegati della Federazione Internazionale dei Farmacisti Cattolici, riunitisi a Roma per il loro 25° congresso, chiedeva il riconoscimento a livello internazionale del diritto all’obiezione di coscienza per i farmacisti, nel caso della fornitura di prodotti che hanno come fine pratiche chiaramente immorali, come l’aborto e l’eutanasia. Scorrendo la rassegna stampa ho trovato una corale alzata di scudi contro l’ennesima ingerenza della Chiesa, la rivendicazione dell’autonomia della stato e il richiamo al dovere civico di osservare le leggi.
C’ero anch’io lunedì mattina nella sala del concistoro in Vaticano, in quanto assistente del gruppo romano dei Farmacisti Cattolici, ad ascoltare il Santo Padre. E’ inutile dire che il discorso è stato molto più articolato e significativo, rispetto a quanto i mass media hanno estrapolato, per quella che a loro dire era la notizia del giorno, di cui informare l’opinione pubblica. D’altro canto nessun altro strumento o intervento culturale sarebbe riuscito più efficacemente a porre la questione all’attenzione di tutti e soprattutto degli interlocutori istituzionali, chiamati in causa dal problema.
Ma andiamo con ordine. Il Papa è partito dal ruolo professionale del farmacista, il quale, come intermediario tra il medico e il paziente, ha il compito di educare al corretto uso dei farmaci e di adoperarsi perché siano assunti per scopi terapeutici. Ha messo in guardia dal rischio di utilizzare le persone come oggetti nelle sperimentazioni, perché nessun progresso scientifico vale la vita di un uomo. Ha poi richiamato il grave problema dell’accesso alle cure e ai farmaci essenziali alla sopravvivenza per le fasce più povere della popolazione e per i paesi in via di sviluppo. Ha quindi concluso con un forte appello, perché come cristiani, anche i farmacisti si impegnino a formare se stessi e soprattutto i giovani ad essere attenti a tutti i risvolti etici e non, della professione, perché l’uomo sia sempre il centro del processo terapeutico. In questo contesto, il Pontefice ha posto il problema dell’obiezione di coscienza nel caso in cui un farmaco venga assunto non per “cura” o per “guarire”, ma per altre finalità, come nel caso dell’aborto e dell’eutanasia. Se il medico e l’infermiere hanno visto riconosciuto questo diritto a non collaborare nell’atto abortivo fin dal ‘78, non si vede perché si debba obbligare per legge il farmacista?
Il ministro della salute, On. Livia Turco, nell’intervista a Repubblica, dopo aver negato che esistano farmaci come quelli chiamati in causa dal Papa “Non esistono farmaci che incentivano l´aborto e l´eutanasia nella farmacopea ufficiale. Un pensiero diverso significa nutrire una grande sfiducia nei confronti dell´autorità europea che registra i farmaci consentiti dal prontuario farmaceutico.”, afferma che una normativa in tal senso verrebbe a creare disagi tra gli utenti, che la cosiddetta pilloladelgiornodopo serve per riparare ai rapporti non protetti, quindi a rischio, e che l’arrivo prossimo della Ru 486, attraverso la solita porta degli obblighi derivanti dalla partecipazione all’unione europea, in sostanza rappresenterà un risparmio economico, perché si evita l’intervento chirurgico, e non necessita di nuovi atti legislativi.
Non c’è bisogno di perdersi in sottili disquisizioni per riconoscere le evidenti contraddizioni presenti nelle dichiarazioni della Turco. Ciò che mi imbarazza di più è il dover ricordare al ministro della salute (per di più donna!), che da che mondo è mondo, la gravidanza e tanto meno i rapporti sessuali non protetti non sono mai stati classificati tra le possibili malattie che nostro malgrado ci possono capitare, e che quindi i farmaci di cui si parla non servono né per salvare, né per guarire nessuno. A coloro (farmacisti e rappresentanti di categoria) che con grande senso civico si sono appellati all’obbligo di osservare le leggi dello stato, vorrei chiedere perché di fronte alla liberalizzazione dei prodotti da banco e delle licenze per le farmacie non si sono assoggettati alle leggi dello stato con lo stesso rigore morale con cui oggi si sottraggono all’obiezione di coscienza?
Al di là dell’inevitabile gioco delle parti, di fronte ad una reazione così scomposta della pubblica opinione, mi sono più che mai convinto che il tema della coscienza rappresenti il nervo scoperto del nostro tempo, ricordando che i passaggi storici più dolorosi sono sempre iniziati con l’anestetizzare prima e soffocare poi la coscienza degli individui.
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su “LA VOCE DI MANTOVA” il 01/11/07
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4. In attesa del nuovo Vescovo
Smentite tutte le voci dei soliti ben informati, finalmente il 13 Luglio scorso abbiamo saputo che il prevosto di Lecco, Monsignor Roberto Busti, è stato chiamato a sostituire Mons. Egidio Caporello, dimissionario per raggiunti limiti di età. Dopo l’ordinazione avvenuta sabato scorso in Duomo a Milano, la Chiesa di Mantova si prepara ad accogliere il nuovo Vescovo. Ma chi è il Vescovo? Che cosa fa? E soprattutto che cosa ci si può aspettare da lui?
Nella Tradizione cristiana il Vescovo è il successore degli Apostoli, colui che nell’alternanza storica ci collega direttamente al Signore. Come si dice nel Vangelo, “Gesù scelse i Dodici perché stessero con lui e per mandarli a predicare” (cfr. Mc 3,13ss e passi paralleli). Dopo la risurrezione spetta agli Apostoli continuare la missione di salvezza di Gesù nel mondo, fino al suo ritorno. Il Vescovo infatti ha il compito di annunciare la Parola di Dio e di insegnare, di presiedere l’Eucaristia e di governare nella carità, insieme a tutti gli altri Vescovi del mondo, la Chiesa  universale. Nel momento dell’ordinazione riceve il munus sanctificandi, cioè il dono di santificare gli uomini. Il ministero del Vescovo viene solitamente paragonato alla figura del pastore. Gesù stesso è ricorso a questa immagine per sé: egli è il Buon Pastore che dà la vita per le sue pecore (cfr Gv 10,11ss). Vi ha fatto riferimento anche il Papa nell’ omelia di inizio pontificato: “Una delle caratteristiche fondamentali del pastore deve essere quella di amare gli uomini che gli sono stati affidati, così come ama Cristo, al cui servizio si trova … e amare vuol dire anche essere pronti a soffrire. Amare significa: dare alle pecore il vero bene, il nutrimento della verità di Dio, della parola di Dio, il nutrimento della sua presenza, che egli ci dona nel Santissimo Sacramento”. Il Vescovo quindi, come il Buon Pastore, è scelto per spendersi a favore del gregge a lui affidato con l’amore di Cristo e, se fosse necessario, come lui fino al sacrificio.
Il Concilio Vaticano II ha notevolmente rafforzato la figura e il ministero episcopale, come riconobbe lo stesso Paolo VI in un discorso ai Vescovi italiani del 1965: “A noi sembra che l'autorità episcopale esca dal Concilio rivendicata nella sua divina istituzione, confermata nella sua insostituibile funzione, avvalorata nelle sue pastorali potestà di magistero, di santificazione e di governo”. Se si sviluppano in mansioni concrete le cosiddette potestà pastorali, ci si accorge della formidabile complessità del ministero episcopale, che include ogni ambito e aspetto della vita umana, della comunione ecclesiale e della convivenza sociale. Per affrontare le tante e gravose responsabilità a cui è chiamato, un Vescovo, nella pienezza delle sue facoltà e dando per scontato il rispetto dei comandamenti di Dio, delle leggi canoniche e di quelle civili, dispone di una grande libertà di azione e di movimento, unita ad una straordinaria discrezionalità, della quale risponde soltanto alla sua coscienza di uomo e di cristiano. Il Papa stesso, in un recente incontro con i nuovi Vescovi di tutto il mondo, eletti e ordinati nell’ultimo anno, proprio a proposito della vastità del loro campo d’azione, li ammoniva a non lasciarsi totalmente assorbire dalla molteplicità e dalla pressione degli impegni organizzativi ed amministrativi, a scapito della priorità da assegnare al rapporto con Dio: “Oggi, nel ministero di un Vescovo, gli aspetti organizzativi sono assorbenti, gli impegni sono molteplici, le necessità sempre tante, ma il primo posto nella vita di un successore degli Apostoli deve essere riservato a Dio.
Da qui in poi comincia e si vede l’opera del buon Pastore. Ogni comunità cristiana ha un suo passato e un suo presente, è dotata di risorse umane e spirituali, come pure non mancano in essa problemi, difficoltà e sofferenze. In questi mesi hanno cambiato Vescovo anche Verona e Brescia. Come dal punto di vista sociale e culturale, così anche per quello ecclesiale, queste tre province, Verona, Mantova e Brescia, hanno una rilevanza molto diversa l’una dall’altra, non soltanto per la loro storia, ma anche per la qualità, la quantità e le specifiche criticità dell’esperienza umana e cristiana da esse espresse. Il buon governo di un Vescovo lo si avverte quando sa incidere positivamente sulla crescita e lo sviluppo umano e cristiano della Chiesa locale di cui è a capo. Come abbiamo già detto, si tratta di un compito per niente facile, perché in ogni suo gesto e decisone, soprattutto in quelli che maggiormente impegnano la sua persona e la sua autorità, un Vescovo è consapevole di poter (e di dover) scegliere per Dio e con Dio o contro di Lui, per la Chiesa e con la Chiesa o contro di essa, a favore degli uomini o contro di essi. Un dilemma che per essere ogni volta risolto positivamente ha bisogno di incontrare un cuore e una coscienza di Pastore in cui il dono del discernimento degli spiriti sia presente in misura superlativa. Senza questo dono non c’è fedeltà a Cristo, né amore per la Chiesa e men che meno sarà possibile contribuire al bene comune degli uomini e del loro futuro. Insomma, oltre a ciò che porterà e a ciò che troverà, speriamo in un sano discernimento. Con i migliori auspici per un ministero fecondo e ricco di grazia, benvenuto, Vescovo Roberto!
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su “LA VOCE DI MANTOVA” il 28/09/07
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3. La messa in latino
Da quindici giorni a questa parte, negli ambienti più diversi e nelle occasioni, più svariate mi sento rivolgere questa domanda: “Che ne pensi della Messa in latino?”. Nessuno avrebbe immaginato un’onda mediatica, e non solo, tanta lunga nella pubblica opinione su un tema così particolare, qual è la decisione di Benedetto XVI di liberalizzare la celebrazione della santa Messa con il rito del Concilio di Trento, nell’ultima revisione pubblicata da Papa Giovanni XXIII nel 1962. Sono convinto che dopo il 14 Settembre prossimo, giorno in cui entreranno in vigore le disposizioni del Motu proprio Summorum Pontificum”, la cosa avrà ancora un suo seguito.
La gente comune con meraviglia e sorpresa si chiede se fosse proprio necessario una cosa del genere, visto che dopo tutte le novità liturgiche di questi ultimi decenni nessuno più nemmeno si ricorda come si celebrasse la S. Messa prima del Concilio Vaticano II. Non sono altre le attenzioni di cui ha bisogno questo nostro mondo e questo nostro tempo da parte della Chiesa? Chi sono, dove sono e quanti sono coloro che proprio non possono fare a meno dell’antica Liturgia? Ma soprattutto si tratta di un passo avanti o un passo indietro?
I vari commentatori e gli esperti delle cose di Chiesa invece mettono il dito su quello che a loro dire è il vero problema alla base della questione: il valore e l’autorità del Concilio Vaticano II. Uno dei principali veicoli attraverso cui il Popolo di Dio ha compreso e accolto i cambiamenti conciliari è stata la Liturgia. Prima o poi a tutti è capitato di andare in chiesa, vuoi per un Battesimo, o per un funerale, per un Matrimonio o per qualsiasi altra circostanza della vita, ed accorgersi delle novità: l’uso delle lingue nazionali, il prete che non gira più le spalle all’assemblea, il rito più dialogato, lo spazio riservato alla Parola di Dio e al suo commento, insieme con uno stile celebrativo più coinvolgente. Tutti questi elementi non sono altro che il  segno di un modo diverso di porsi della Chiesa nei confronti di se stessa e del mondo, voluto dal Concilio. Era necessario, a detta dello stesso cardinal Ratzinger, superare una Liturgia “troppo smarrita nello spazio dell’individualismo e del privato e insufficiente nella comunione tra presbitero e fedeli”. Il problema dell’autorità del Concilio Vaticano II, soprattutto in campo liturgico, è stato sollevato in modo forte e polemico oltre trent’anni fa da mons. Marcel Lefebvre, Vescovo francese, tenacemente legato alla tradizione tridentina, fino a sfidare due Papi, Paolo VI e Giovanni Paolo II. La sua vicenda è espressamente richiamata da Benedetto XVI nella lettera ai Vescovi, che accompagna il Motu proprio. Fu proprio lui, come Prefetto di quello che abitualmente viene ancora chiamato Sant’Ufficio, a cercare un possibile punto d’incontro con le posizioni espresse dal Vescovo francese nel 1988. Non possiamo dire con certezza se sia stato quell’ incontro, è comunque provato che negli anni successivi il cardinal Ratzinger  cominciò ad essere molto critico verso la liturgia conciliare, tanto che nella sua stessa autobiografia la giudica “concepita etsi Deus non daretur, come se in essa non importasse più se Dio c’è e se ci parla e se ci ascolta”.
Mi pare che con questo suo intervento così autorevole, con il quale ha riabilitato tutti i rituali tridentini, adducendo come ragione che nessuno di fatto non li ha mai abrogati, e definendoli “forma straordinaria”, rispetto alla forma ordinaria (cioè i nuovi rituali introdotti dopo il Concilio Vaticano II), dell’unico Messale Romano, il Papa abbia di mira due obiettivi di fondo. Il primo riguarda l’interpretazione del Concilio Vaticano II. Esso va compreso e attuato  in continuità, non in discontinuità e men che meno va inteso come una rottura, con tutta la tradizione della Chiesa, che nel concilio di Trento ha una delle sue espressioni più importanti. Il secondo obiettivo è in qualche modo più inerente alla sua situazione personale. Ratzinger ha già ottant’anni e pensa di non avere davanti a sé né il tempo, né tanto meno la forza necessaria per una vera e propria riforma liturgica, in cui sintetizzare tutti gli aspetti positivi che sono venuti dal Concilio Vaticano II, con la sacralità che era propria dell’antica Liturgia. Egli ha comunque voluto suggerire, non senza ragione, a chi verrà dopo di lui e a chi vuole davvero bene alla Chiesa, l’urgenza e la necessità di percorrere questa strada, visto che tutto quello che fino ad oggi abbiamo tra le mani non è proprio il meglio possibile. Insomma il mite Ratzinger sa bene che la Chiesa deve sempre ripartire con umiltà dal riconoscere fino in fondo i propri errori, per ritrovarsi quel coraggio, che le viene da Dio, necessario per affrontare le sfide del presente, come ha affrontato quelle del passato. Questa regola vale sia per la Chiesa universale, sia per la Chiesa locale.
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MN il 24/07/07.
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2. Il Gesucristo di San Giacomo Po.
A me è piaciuto molto il Gesucristo di San Giacomo Po, che Ermanno Olmi ci ha presentato nel suo ultimo film, Centochiodi, arrivato nelle sale venerdì 30/03 e già al centro di polemiche tra illustri intellettuali, quali Eugenio Scalfari da una parte e Marcello Veneziani dall’altra, tanto per citare i più noti. Il primo che si schiera con il professorino in crisi esistenziale, crocifissore dei libri, l’altro invece con il vecchio monsignore di provincia, sofferente davanti allo scempio della sua biblioteca, gelosamente custodita per tutta la vita. Quando si scade nella polemica è perché, bene o male, si è partiti per la tangente: lo Scalfari sopraffatto dal suo furore anticlericale, nel ruolo di indignato speciale, come si dice oggi, contro la Chiesa per il problema dei DICO; il Veneziani, più narcisista, ne approfitta per parlarsi addosso, evocando un suo personaggio letterario, che al contrario del professorino, per amore dei libri si dà fuoco, con tutta la sua libreria.
Il film comincia con una frase: “Tutti i libri letti non valgono un caffè con un amico” e poi continua con la disperazione del custode dell’antica biblioteca universitaria di Bologna, in cui è stato compiuto uno scempio: cento dei volumi più preziosi o più importanti sono aperti sui tavoli e per terra, trafitti con altrettanti chiodi, che ricordano tanto la crocifissione di Cristo. Mentre gli inquirenti svolgono le ricerche per individuare il colpevole, ipotizzando gli scenari terroristici più inquietanti, che vanno dall’eversione nostrana, fino al complotto internazionale, l’autore del misfatto, un giovane professore di filosofia delle religioni, continua per la sua strada, che prevede un taglio netto con il passato e il cambiamento radicale dello stile di vita. Dopo aver inscenato il suicidio e abbandonato sotto un ponte la sua BMW, nuova e fiammante, lo ritroviamo sulle rive del Po, dove vive come un eremita in un vecchio rudere abbandonato e lega il suo destino a quello della gente semplice del posto, senza nessuna ambizione particolare, se non per una vita serena, potendo sempre contare sull’aiuto e sul rispetto reciproco. Quest’uomo tormentato, a cui nessuno chiede né il nome, né il perché e/o il percome abbia deciso di vivere lì e in quel modo, suscita la tenerezza delle persone a cui si è unito e li conquista alla sua causa. In un clima di straordinaria mitezza, rafforzata dal lento scorrere delle acque del fiume e delle immagini, nelle varie occasioni di incontro egli racconta loro parabole e avvenimenti del Vangelo, quali le nozze di Cana, la moltiplicazione dei pani e dei pesci e il figliol prodigo, come per esprimere il valore e il significato delle loro relazioni, improntate a purezza e semplicità evangeliche, purificate da qualsivoglia segno di malizia, aggressività e prevaricazione, così prepotentemente presenti invece nel nostro vivere moderno. Un problema di abusivismo diventa l’occasione per far riemergere il passato recente della biblioteca profanata, con tutte le sue conseguenze. Quando il professorino viene liberato, in riva al Po, dove lo chiamavano Gesucristo, lo attendono e preparano per lui un’accoglienza festosa, ma invano. Un bambino lo ha visto passeggiare sugli argini del fiume, ma non tornerà più dai suoi amici.
Molti, influenzati dall’attualità, hanno interpretano il film come un atto di accusa contro le religioni in genere, che secondo il professorino, “non hanno mai salvato il mondo”, e contro la Chiesa in particolare, soprattutto quella di Papa Ratzinger, giudicata chiusa nel suo dogmatismo e lontana dalla vita degli uomini. Qualcuno addirittura ha parlato del Codice da Vinci di Olmi.
Il film è stato girato due anni fa ed è stato pensato molto tempo prima dell’elezione di Ratzinger e dei DICO. Meraviglia la disonestà intellettuale con cui si vuole a tutti i costi piegare il pensiero di Olmi ai propri interessi, come pure il confondere ancora religione e religiosità. Ciò che salva il mondo e gli uomini è infatti la religiosità, non la religione, cioè quell’inquietudine di agostiniana memoria, per la quale il nostro cuore non troverà pace, finché non riposerà in Dio. Per il cristiano Olmi il problema non è: cultura sì, o cultura no; e nemmeno la contrapposizione tra lettera e spirito. Dice Giovanni all’inizio del suo vangelo: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”(1,14). Il valore e il significato ultimo della parola, e dei libri in genere, è di trasformare la vita dell’uomo in gesti d’amore. Quando avviene questo miracolo, non c’è più bisogno nemmeno della presenza fisica del professorino, anche se nel cuore resta la nostalgia per ciò che è stato. Vuol dire che le cose sono ormai così profondamente cambiate, perché è rimasto in noi il suo Spirito, e per questo si può farcela a continuare a vivere nello stesso modo. Ecco perché, pur avendolo visto in giro, il Gesucristo di San Giacomo Po non è tornato. Del resto è così da duemila anche per il vero Cristo risorto. Sono in tanti che anche oggi lo vedono ancora in giro e vivono del suo Spirito. Grazie maestro Olmi, e buona Pasqua a tutti.
Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MN il 7/04/07.
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1. Di.Co.  e ... non dico. Riflessioni a margine del dibattito sulle coppie di fatto.
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Ascoltando i vari dibattiti, televisivi e non, che in questi giorni si vanno moltiplicando e sovrapponendo, a proposito della legge sulle unioni di fatto, sia etereo che omosessuali, sono stato colpito dall’imbarazzo con cui certi intellettuali di estrazione laico-liberale si avvicinano al tema in questione. Danno l’impressione di coloro che si vedono costretti a dare il proprio assenso ad una cosa che, se appena potessero, preferirebbero evitare, tanto da ricordarmi il famoso voto dato da Indro Montanelli alla DC negli anni ’70, turandosi il naso.
Le ragioni del disagio.
1. Pur affermando in via di principio con forza e chiarezza la necessità e la liceità di un intervento legislativo in questo ambito, appare anche abbastanza evidente l’insofferenza di sentirsi obbligati ad agire in questo preciso momento politico sotto la forte pressione della lobby gay, per la quale la legittimazione sociale che le deriva con i provvedimenti in questione rappresenta un obiettivo strategico irrinunciabile. Tant’è vero che mentre si argomenta sui diritti che si vanno concedendo, durante il confronto, per un verso o per un altro, salta sempre fuori, come un fantasma che aleggia nell’aria, il problema della natura, limite incontrovertibile e irriducibile, oltre il quale non c’è futuro, né per la società e tanto meno per l’umanità.
2. La forma scelta per i Di.Co. consiste in una reciproca dichiarazione, notificata tramite raccomandata. Non si poteva inventare procedura più arida, burocratica e priva di solennità rituali, che assomiglia più ad una egoistica tutela di interessi e vantaggi acquisiti, che una attestazione di una relazione interpersonale, umanamente rilevante e significativa.
3. Un altro aspetto interessante del dibattito è la ricerca della matrice culturale di un tale monstrum, insomma di chi sono figli i DI.CO.? C’è chi dice di un certo cattolicesimo post-Conciliare, liberale e democratico, molto incline a guardare con occhio indulgente e ammiccante verso tutto ciò che sa di modernità. Altri li attribuiscono alla cultura marxista-comunista, la quale, con la caduta del muro di Berlino, ha di molto indebolito anche il proprio radicamento popolare e, per ragioni più di consenso che per altro, s’imbarca in tali avventure. Altri ancora invece lo mettono in conto ad un liberalismo radicale, che a forza di battaglie per i diritti e le libertà individuali, finisce per minare i fondamenti stessi della società. Indipendentemente dalla attribuzione della paternità dei DI.CO., su una cosa alla fine sono tutti d’accordo. Abbiamo a che fare con una deriva culturale, causata della perdita delle varie identità, tra le più gravi che la storia abbia mai conosciuto.
Concludo con il pensiero del mio vecchio amico laico. Lui che da anni convive con la sua compagna e che, per il fatto di non essere sposato, non disdegna comunque di chiamarla “mia moglie”, ha sempre detto che qualora decidesse di formalizzare il suo rapporto, sceglierebbe di farlo non davanti ad un povero ufficiale d’anagrafe, costretto a ratificare i pasticci dei politicanti di turno, ma sicuramente davanti al prete, che comunque la si voglia pensare, ha sempre la pretesa di rappresentare Colui che le cose le sa fare da “Dio”.

Don Marco Belladelli.
Pubblicato su LA VOCE DI MN il 21/02/07