domenica 1 gennaio 2023

Santi, Beati e Testimoni /27

Ejlli Willy, Benedetto XVI, 2015. 

 OMAGGIO A BENEDETTO XVI
In occasione della morte di Papa Benedetto XVI, ho raccolto tutti gli editoriali che ho pubblicato sul quotidiano locale LA VOCE DI MANTOVA durante il suo pontificato. Un excursus attraverso il quale sono evocati i momenti più importanti di quegli otto anni per la vita della Chiesa, e soprattutto si può riscoprire l'importanza del suo magistero, un insegnamento che personalmente considero del valore di quello dei "Padri della Chiesa" dei primi secoli. Molti commentatori lo hanno etichettato come un conservatore o un  tradizionalista. Il nodo centrale e problematico degli ultimi sessant'anni è il criterio ermeneutico con cui si guarda al Concilio Vaticano II e alla sua attuazione. In più occasioni Benedetto XVI ha affermato con forza e chiarezza che va interpretato in continuità con quanto lo ha preceduto, e non in discontinuità e tanto meno come rottura (!!!). Va pure ricordato che nella Lettera ai Cristiani d’Irlanda si afferma che una delle cause dei gravi problemi di quella Chiesa, e non soltanto di essa, siano dovuti al "fraintendimento dello spirito Concilio Vaticano II".  
Con la sua morte porta con se la ragione che lo ha indotto alla rinuncia, gesto che, secondo me, non era nella volontà di Dio e di cui, credo, pure lui nel corso di questi dieci anni si sia pentito. Ormai non si può tornare indietro e tutto sta davanti a Dio e al suo giudizio misericordioso. Meglio prestare la nostra attenzione a ciò che è stato, e soprattutto ritrovare la sintonia con la "continuità" con cui la Chiesa deve procedere nel suo cammino nella storia, che significa prima di tutto e soprattutto fedeltà al suo Signore e alla missione che le ha affidato. Buona lettura!

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La messa in latino

Da quindici giorni a questa parte, negli ambienti più diversi e nelle occasioni, più svariate mi sento rivolgere questa domanda: “Che ne pensi della Messa in latino?”. Nessuno avrebbe immaginato un’onda mediatica, e non solo, tanta lunga nella pubblica opinione su un tema così particolare, qual è la decisione di Benedetto XVI di liberalizzare la celebrazione della santa Messa con il rito del Concilio di Trento, nell’ultima revisione pubblicata da Papa Giovanni XXIII nel 1962. Sono convinto che dopo il 14 Settembre prossimo, giorno in cui entreranno in vigore le disposizioni del Motu proprio Summorum Pontificum”, la cosa avrà ancora un suo seguito.

La gente comune con meraviglia e sorpresa si chiede se fosse proprio necessario una cosa del genere, visto che dopo tutte le novità liturgiche di questi ultimi decenni nessuno più nemmeno si ricorda come si celebrasse la S. Messa prima del Concilio Vaticano II. Non sono altre le attenzioni di cui ha bisogno questo nostro mondo e questo nostro tempo da parte della Chiesa? Chi sono, dove sono e quanti sono coloro che proprio non possono fare a meno dell’antica Liturgia? Ma soprattutto si tratta di un passo avanti o un passo indietro?

I vari commentatori e gli esperti delle cose di Chiesa invece mettono il dito su quello che a loro dire è il vero problema alla base della questione: il valore e l’autorità del Concilio Vaticano II. Uno dei principali veicoli attraverso cui il Popolo di Dio ha compreso e accolto i cambiamenti conciliari è stata la Liturgia. Prima o poi a tutti è capitato di andare in chiesa, vuoi per un Battesimo, o per un funerale, per un Matrimonio o per qualsiasi altra circostanza della vita, ed accorgersi delle novità: l’uso delle lingue nazionali, il prete che non gira più le spalle all’assemblea, il rito più dialogato, lo spazio riservato alla Parola di Dio e al suo commento, insieme con uno stile celebrativo più coinvolgente. Tutti questi elementi non sono altro che il  segno di un modo diverso di porsi della Chiesa nei confronti di se stessa e del mondo, voluto dal Concilio. Era necessario, a detta dello stesso cardinal Ratzinger, superare una Liturgia “troppo smarrita nello spazio dell’individualismo e del privato e insufficiente nella comunione tra presbitero e fedeli”. Il problema dell’autorità del Concilio Vaticano II, soprattutto in campo liturgico, è stato sollevato in modo forte e polemico oltre trent’anni fa da mons. Marcel Lefebvre, Vescovo francese, tenacemente legato alla tradizione tridentina, fino a sfidare due Papi, Paolo VI e Giovanni Paolo II. La sua vicenda è espressamente richiamata da Benedetto XVI nella lettera ai Vescovi, che accompagna il Motu proprio. Fu proprio lui, come Prefetto di quello che abitualmente viene ancora chiamato Sant’Ufficio, a cercare un possibile punto d’incontro con le posizioni espresse dal Vescovo francese nel 1988. Non possiamo dire con certezza se sia stato quell’ incontro, è comunque provato che negli anni successivi il cardinal Ratzinger  cominciò ad essere molto critico verso la liturgia conciliare, tanto che nella sua stessa autobiografia la giudica “concepita etsi Deus non daretur, come se in essa non importasse più se Dio c’è e se ci parla e se ci ascolta”.

Mi pare che con questo suo intervento così autorevole, con il quale ha riabilitato tutti i rituali tridentini, adducendo come ragione che nessuno di fatto non li ha mai abrogati, e definendoli “forma straordinaria”, rispetto alla forma ordinaria (cioè i nuovi rituali introdotti dopo il Concilio Vaticano II), dell’unico Messale Romano, il Papa abbia di mira due obiettivi di fondo. Il primo riguarda l’interpretazione del Concilio Vaticano II. Esso va compreso e attuato  in continuità, non in discontinuità e men che meno va inteso come una rottura, con tutta la tradizione della Chiesa, che nel concilio di Trento ha una delle sue espressioni più importanti. Il secondo obiettivo è in qualche modo più inerente alla sua situazione personale. Ratzinger ha già ottant’anni e pensa di non avere davanti a sé né il tempo, né tanto meno la forza necessaria per una vera e propria riforma liturgica, in cui sintetizzare tutti gli aspetti positivi che sono venuti dal Concilio Vaticano II, con la sacralità che era propria dell’antica Liturgia. Egli ha comunque voluto suggerire, non senza ragione, a chi verrà dopo di lui e a chi vuole davvero bene alla Chiesa, l’urgenza e la necessità di percorrere questa strada, visto che tutto quello che fino ad oggi abbiamo tra le mani non è proprio il meglio possibile. Insomma il mite Ratzinger sa bene che la Chiesa deve sempre ripartire con umiltà dal riconoscere fino in fondo i propri errori, per ritrovarsi quel coraggio, che le viene da Dio, necessario per affrontare le sfide del presente, come ha affrontato quelle del passato. Questa regola vale sia per la Chiesa universale, sia per la Chiesa locale.

Don Marco Belladelli.

 

Pubblicato su LA VOCE DI MN il 24/07/07.


 

Farmacisti e

obiezione di coscienza 

Tutti i giornali di Martedì 30/10 riportavano in prima pagina, con grande risalto le parole di Papa Benedetto XVI, con le quali, durante l’udienza speciale concessa ai delegati della Federazione Internazionale dei Farmacisti Cattolici, riunitisi a Roma per il loro 25° congresso, chiedeva il riconoscimento a livello internazionale del diritto all’obiezione di coscienza per i farmacisti, nel caso della fornitura di prodotti che hanno come fine pratiche chiaramente immorali, come l’aborto e l’eutanasia. Scorrendo la rassegna stampa ho trovato una corale alzata di scudi contro l’ennesima ingerenza della Chiesa, la rivendicazione dell’autonomia della stato e il richiamo al dovere civico di osservare le leggi.

C’ero anch’io lunedì mattina nella sala del concistoro in Vaticano, in quanto assistente del gruppo romano dei Farmacisti Cattolici, ad ascoltare il Santo Padre. E’ inutile dire che il discorso è stato molto più articolato e significativo, rispetto a quanto i mass media hanno estrapolato, per quella che a loro dire era la notizia del giorno, di cui informare l’opinione pubblica. D’altro canto nessun altro strumento o intervento culturale sarebbe riuscito più efficacemente a porre la questione all’attenzione di tutti e soprattutto degli interlocutori istituzionali, chiamati in causa dal problema.

Ma andiamo con ordine. Il Papa è partito dal ruolo professionale del farmacista, il quale, come intermediario tra il medico e il paziente, ha il compito di educare al corretto uso dei farmaci e di adoperarsi perché siano assunti per scopi terapeutici. Ha messo in guardia dal rischio di utilizzare le persone come oggetti nelle sperimentazioni, perché nessun progresso scientifico vale la vita di un uomo. Ha poi richiamato il grave problema dell’accesso alle cure e ai farmaci essenziali alla sopravvivenza per le fasce più povere della popolazione e per i paesi in via di sviluppo. Ha quindi concluso con un forte appello, perché come cristiani, anche i farmacisti si impegnino a formare se stessi e soprattutto i giovani ad essere attenti a tutti i risvolti etici e non, della professione, perché l’uomo sia sempre il centro del processo terapeutico. In questo contesto, il Pontefice ha posto il problema dell’obiezione di coscienza nel caso in cui un farmaco venga assunto non per “cura” o per “guarire”, ma per altre finalità, come nel caso dell’aborto e dell’eutanasia. Se il medico e l’infermiere hanno visto riconosciuto questo diritto a non collaborare nell’atto abortivo fin dal ‘78, non si vede perché si debba obbligare per legge il farmacista?

Il ministro della salute, On. Livia Turco, nell’intervista a Repubblica, dopo aver negato che esistano farmaci come quelli chiamati in causa dal Papa “Non esistono farmaci che incentivano l´aborto e l´eutanasia nella farmacopea ufficiale. Un pensiero diverso significa nutrire una grande sfiducia nei confronti dell´autorità europea che registra i farmaci consentiti dal prontuario farmaceutico.”, afferma che una normativa in tal senso verrebbe a creare disagi tra gli utenti, che la cosiddetta pilloladelgiornodopo serve per riparare ai rapporti non protetti, quindi a rischio, e che l’arrivo prossimo della Ru 486, attraverso la solita porta degli obblighi derivanti dalla partecipazione all’unione europea, in sostanza rappresenterà un risparmio economico, perché si evita l’intervento chirurgico, e non necessita di nuovi atti legislativi.

Non c’è bisogno di perdersi in sottili disquisizioni per riconoscere le evidenti contraddizioni presenti nelle dichiarazioni della Turco. Ciò che mi imbarazza di più è il dover ricordare al ministro della salute (per di più donna!), che da che mondo è mondo, la gravidanza e tanto meno i rapporti sessuali non protetti non sono mai stati classificati tra le possibili malattie che nostro malgrado ci possono capitare, e che quindi i farmaci di cui si parla non servono né per salvare, né per guarire nessuno. A coloro (farmacisti e rappresentanti di categoria) che con grande senso civico si sono appellati all’obbligo di osservare le leggi dello stato, vorrei chiedere perché di fronte alla liberalizzazione dei prodotti da banco e delle licenze per le farmacie non si sono assoggettati alle leggi dello stato con lo stesso rigore morale con cui oggi si sottraggono all’obiezione di coscienza?

Al di là dell’inevitabile gioco delle parti, di fronte ad una reazione così scomposta della pubblica opinione, mi sono più che mai convinto che il tema della coscienza rappresenti il nervo scoperto del nostro tempo, ricordando che i passaggi storici più dolorosi sono sempre iniziati con l’anestetizzare prima e soffocare poi la coscienza degli individui.

Don Marco Belladelli.

 

Pubblicato su “LA VOCE DI MANTOVA” il 01/11/07

 


 

Speranza cristiana e

declino del mondo 

Venerdì 30 Novembre scorso è stata pubblicata la seconda enciclica di Benedetto XVI. Annunciata dai soliti ben informati già quest’estate come un intervento sui temi sociali del nostro tempo, ancora una volta Papa Ratzinger spiazza tutti scegliendo invece di parlare della seconda virtù teologale, la Speranza.

La Spe salvi, questo è il titolo della nuova enciclica, si presenta come una grande lectio magistralis, che a partire dal concetto cristiano di Speranza, si sviluppa lasciandosi incalzare dalle domande che di volta in volta sorgono in relazione a quanto si va progressivamente esponendo. Il discorso spazia dai problemi di ermeneutica teologica, al confronto con la cultura moderna, dalla testimonianza coraggiosa dei martiri e dei santi, alla valorizzazione dei fioretti, i piccoli sacrifici quotidiani per mezzo dei quali in un passato recente anche un bambino imparava a unire la propria vita a quella di Gesù.

Secondo il Papa, la novità del cristianesimo consiste nel possedere già al presente ciò che si spera per il futuro, tanto che tutto quanto viene vissuto e sperimentato nell’oggi diventa la prova certa, e non illusoria, di quel qualcosa di ancora più grande che ci attende. “Il cielo non è vuoto. La vita non è un semplice prodotto delle leggi e della casualità della materia, ma in tutto e contemporaneamente al di sopra di tutto c'è una volontà personale, c'è uno Spirito che in Gesù si è rivelato come Amore” (n.5), uno Spirito che ci conosce e che è possibile incontrare. La dinamica esistenziale, propria della virtù della Speranza, è quella che ci orienta verso quella beatitudine, che ancora non conosciamo, ma dalla quale ci sentiamo straordinariamente attratti. Il lavoro quotidiano per procurarci il pane del corpo e dell’anima, ci prepara anche per il nuovo Paradiso che sta davanti a noi.

Segue a questo punto il confronto con l’epoca moderna, che occupa circa un terzo di tutto il documento. Tanto rilievo evidenzia l’importanza di questo passaggio. E’ la parte infatti che più è stata presa in considerazione dai vari commentatori sui giornali e nel corso dei vari dibattiti che sono seguiti. Ancora una volta il Papa va dritto al cuore della questione. La modernità è iniziata con un passaggio sconcertante: la sostituzione della fede in Dio con la fede nel progresso scientifico e tecnologico, dominato dalla ragione, perfettamente libera. Attraverso l’analisi dei vari passaggi storici e culturali, illustra l’ambiguità del progresso e la necessità di una autocritica dell’età moderna, a cui si accompagna pure l’autocritica di un certo cristianesimo moderno, non del tutto immune da un contagio, nemmeno tanto superficiale.

L’enciclica si conclude con l’indicazione di tre “luoghi” di apprendimento e di esercizio della Speranza: la preghiera, l’agire e il soffrire, il Giudizio finale a cui tutti saremo sottoposti.

Perché il Papa ha scelto di parlare proprio della Speranza? Perché senza questa prospettiva, tanto profonda da comprendere addirittura l’orizzonte dell’eternità, e senza questo fondamento altrettanto solido, rappresentato dall’attualità del gesto di Amore di Gesù, l’unico capace di suscitare in coloro che ne sono toccati altrettanta forza di speranza per chi vive nel buio, tutto si ridurrebbe a mera materialità. Non si tratta di un problema contingente, ma del banco di prova per ciò che veramente vale in assoluto e oltre ogni limite. Dalla citazione dello Pseudo-Rufino, secondo il quale “Il genere umano vive grazie a pochi; se non ci fossero quelli, il mondo perirebbe...” (n. 15), si capisce che dalla testimonianza di questa Speranza dipendono le sorti del mondo. Oggi c’è più che mai bisogno di quella stessa Speranza che già duemila anni fa ha trasformato la vita di molti uomini e donne, fino a renderli capaci di sopportare le situazioni più dolorose e umilianti, senza disperare della propria salvezza. La modernità ha dimostrato che la scienza (e con lei anche la tecnologia) è una via indiscutibilmente utile per l’emancipazione, ma non per la redenzione dell’uomo. Lo stesso discorso vale anche per le strutture. La loro bontà costituisce certamente un aiuto, ma non cambiano l’uomo nel suo interno. Continuando su questa via si rischia la fine perversa di tutte le cose, già prevista da Kant oltre due secoli fa. Senza Dio all’uomo rimangono tante speranze che continuamente sorgono e muoio come il sole ogni giorno, ma viene a mancare la grande Speranza che non tramonta mai, quella che sostiene tutta la vita, fino al raggiungimento della sua meta, l’eternità.

Concludiamo lasciando la parola al Pontefice: “Dio è il fondamento della speranza – non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l'umanità nel suo insieme.” (n. 31).

Al di là di tutto, questo è e rimarrà anche per il futuro prossimo il principale dilemma del nostro tempo, o stiamo con Dio, il Dio cristiano, oppure siamo contro di Lui e contemporaneamente anche contro l’uomo.

Don Marco Belladelli.

 

Pubblicato su “LA VOCE DI MANTOVA” il 12/12/2007


 

Fate tacere Ratzinger!

Giovedì 17 Gennaio il Papa avrebbe dovuto partecipare all’inaugurazione del nuovo anno accademico all’università de La Sapienza di Roma. Martedì 15/01 alle ore 17 e qualche minuto la sala stampa vaticana diramava il seguente comunicato:  A seguito delle ben note vicende di questi giorni in rapporto alla visita del Santo Padre all’Università degli Studi "La Sapienza" di Roma, che su invito del Rettore Magnifico avrebbe dovuto verificarsi giovedì 17 gennaio, si è ritenuto opportuno soprassedere all’evento. Il Santo Padre invierà, tuttavia, il previsto intervento.

L’effetto è stato pari all’esplosione di una bomba. I commenti e le reazioni si sono sprecate. Da una parte lo sconcerto e lo sdegno della stragrande maggioranza degli italiani, cattolici e non, che vedono in questo fatto il segno della grave crisi culturale che attraversa il nostro Paese. Dall’altra una neanche tanto malcelata soddisfazione di uno sparuto gruppo di irriducibili anticlericali, gongolanti per essere riusciti con i loro metodi violenti, almeno una volta, a far tacere non tanto il Papa, quanto piuttosto il “Ratzinger". Diciamo subito che questa minoranza numericamente insignificante (67 professori su 4.500, 1,375% e un centinaio di studenti contro le decine di migliaia che frequentano l’università) non sarebbe arrivata a tanto senza la complicità dei mass media, che farisaicamente ieri hanno concesso loro le prime pagine dei giornali nazionali e le copertine dei vari TG, oggi si stracciano le vesti per l’accaduto. Tanta enfasi non si giustifica soltanto con il diritto di cronaca, ma risponde alle logiche e agli interessi, neanche tanto oscuri, di chi oggi controlla il mondo dell’informazione in Italia.

In un mio intervento su MANTOVACHIAMAGARDA del Febbraio scorso avevo accennato a questa sempre più crescente insofferenza di certi ambienti laicisti e radicali nazionali verso questo Papa, che con il suo argomentare logico, puntuale e preciso smaschera le loro mistificazioni ideologiche fondate su uno scientismo libertario, bolso e superato. Coloro che hanno impedito al Papa di partecipare all’inaugurazione dell’anno accademico sono contenti, perché sono riusciti nell’intento di chiudere la bocca all’uomo Ratzinger, la cui parola, chiara e forte, oggi ancor più amplificata e autorevole per l’alto mandato di cui è investito, non solo illumina, ma sbaraglia gli avversari. E quando non si è più in grado di sostenere il confronto rispettoso e il dialogo corretto, per prevalere non resta che la violenza, in qualsiasi forma la si esprima. Nell’atteggiamento assolutamente irriducibile e assurdamente irrazionale di questi “scienziati” anti-papalini del terzo millennio e dei loro adepti, mi è parso di cogliere come una specie di furore sacrilego, cosa ben diversa da ciò che comunemente chiamiamo passione ideologica, insomma qualcosa che mi ha ricordato certe scene evangeliche, nelle quali con la stessa collera diabolica ci si scagliava contro Gesù per farlo tacere. In proposito, qualora gli apostoli si fossero trovati nelle stesse situazioni, Gesù ha dato delle indicazioni ben precise: “Se qualcuno poi non vi accoglierà e non darà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dai vostri piedi.” (Mt 10,14). Allora quel “soprassedere” contenuto nel comunicato della Santa Sede che cosa significa? E’ un rimandare a tempi migliori, visto che un primo spostamento c’era già stato, dal 30/11 al 17/01, oppure il Papa ha voluto evangelicamente scuotere anzitempo dalle proprie scarpe, prima ancora che ne fossero imbrattate, la polvere di questa anticultura irragionevolmente laicista e arrogante contro coloro che ottusamente ancora la rappresentano e la sostengono?

Una tale lettura dei fatti di questi giorni può risultare ai più un po’ stravagante, lo riconosco. Non lo è, se ricordiamo le parole pronunciate da Benedetto XVI all’inizio del suo pontificato: Pregate per me, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi. Come per dire, se proprio non lo avessimo ancora capito, che quelli che stiamo vivendo sono proprio tempi da lupi.

Don Marco Belladelli.

 

Pubblicato su “LA VOCE DI MANTOVA” il 18/01/2008


Pasqua, La novità

e il pericolo della deriva

A pochi giorni di distanza Benedetto XVI, con il suo solito stile fatto di mitezza, ma di altrettanta chiarezza e puntuale precisione, sempre a scanso di possibili fraintendimenti ed equivoci, ha lanciato due forti moniti alla Chiesa. Tutti coloro che prendono sul serio la loro fede cristiana non possono ignorare questi due passaggi e, in questo tempo dedicato alle solenni celebrazioni pasquali, non trovare il tempo per riflettere su di essi e capire che cosa comporti oggi il dichiararsi cristiani.

Cominciamo da Sabato 8 Marzo, quando ricevendo in udienza l’assemblea plenaria del Pontificio Consiglio per la Cultura ha detto: “Questa secolarizzazione non è soltanto una minaccia esterna per i credenti, ma si manifesta già da tempo in seno alla Chiesa stessa. Snatura dall’interno e in profondità la fede cristiana e, di conseguenza, lo stile di vita e il comportamento quotidiano dei credenti. Essi vivono nel mondo e sono spesso segnati, se non condizionati, dalla cultura dell’immagine che impone modelli e impulsi contraddittori, nella negazione pratica di Dio: non c’è più bisogno di Dio, di pensare a Lui e di ritornare a Lui. Inoltre, la mentalità edonistica e consumistica predominante favorisce, nei fedeli come nei pastori, una deriva verso la superficialità e un egocentrismo che nuoce alla vita ecclesiale.”.

Otto giorni dopo, nell’omelia della Domenica delle Palme in piazza S. Pietro, parlando del mercanteggiare legalizzato a cui si era ridotto il culto nel tempio di Gerusalemme al tempo di Gesù, ha detto: “Tutto ciò deve oggi far pensare anche noi come cristiani: è la nostra fede abbastanza pura ed aperta, così che a partire da essa anche i “pagani”, le persone che oggi sono in ricerca e hanno le loro domande, possano intuire la luce dell’unico Dio, associarsi negli atri della fede alla nostra preghiera e con il loro domandare diventare forse adoratori pure loro? La consapevolezza che l’avidità è idolatria raggiunge anche il nostro cuore e la nostra prassi di vita? Non lasciamo forse in vari modi entrare gli idoli anche nel mondo della nostra fede? Siamo disposti a lasciarci sempre di nuovo purificare dal Signore, permettendoGli di cacciare da noi e dalla Chiesa tutto ciò che Gli è contrario?”.

Insomma, secondo il Santo Padre, da una parte la fede cristiana è snaturata per il condizionamento che subisce dalla cultura secolarizzata nella quale viviamo; dall’altra la riduzione della religione a pratiche “idolatrichemercantileggianti” offusca la luce di Dio per noi e per tutti coloro che lo cercano con cuore sincero.

Non è la prima volta che il Papa si occupa e si preoccupa delle difficili condizioni in cui versa la Chiesa. Ricordiamo la famosa Via Crucis del Venerdì santo del 2005, quando, ancora vivo Giovanni Paolo II, l’allora Cardinal Ratzinger nel commento alla nona stazione deplorava la sporcizia che c’è dentro la Chiesa, denunciando abusi di potere, vanità, superbia, autosufficienza, eccesso di protagonismo e tante altre cose. Tra l’altro il tema degli abusi sacramentali è anche una delle motivazioni che ha indotto Benedetto XVI a reintrodurre l’antica liturgia pre-conciliare. Anche nell’ultima enciclica, Spe Salvi, pubblicata il 30 Novembre scorso, non si è lasciato sfuggire l’occasione per mettere in evidenza come in questi ultimi decenni l’aria conciliare abbia significato per qualcuno un cedimento più alle istanze della modernità, che non a quelle della fedeltà alle proprie radici (cfr. SS n.22).

L’alta autorità da cui viene questo monito, unito alla ripetuta insistenza con cui si denuncia questa deriva della Chiesa, che interessa tanto i fedeli quanto i pastori, non può non diventare una delle priorità su cui riflettere e confrontarsi all’interno della Chiesa di oggi. L’urgenza e la necessità di un tale dibattito, non nasce tanto dal bisogno di perseguire una perfezione, mai totalmente realizzabile e raggiungibile nella condizione storica, quanto piuttosto dall’esigenza di riproporre alle generazioni di oggi il Cristo del Vangelo in tutta la sua potenza di vero Salvatore dell’umanità: “Al commercio di animali e agli affari col denaro Gesù contrappone la sua bontà risanatrice. Essa è la vera purificazione del tempio. Egli non viene come distruttore; non viene con la spada del rivoluzionario. Viene col dono della guarigione. Si dedica a coloro che a causa della loro infermità vengono spinti agli estremi della loro vita e al margine della società. Gesù mostra Dio come Colui che ama, e il suo potere come il potere dell’amore. E così dice a noi che cosa per sempre farà parte del giusto culto di Dio: il guarire, il servire, la bontà che risana.” (dall’omelia della Domenica delle Palme).

Se la Chiesa venisse meno alla fedeltà e al mandato di Cristo, non avrebbe più senso di esistere. Siccome questo non può essere, allora avanti con la sfida alla modernità, non per il gusto del conflitto, ma per aprire nuovi orizzonti di vita e di speranza per l’oggi e per il domani. Buona Pasqua!.

Don Marco Belladelli.

 

Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 21/03/08.

 


 

La domenica in albis

di magdi allam 

Domenica in albis deponendis. Da secoli la Domenica successiva alla Pasqua è così chiamata, perché anticamente coloro che avevano ricevuto il battesimo nella notte del Sabato santo, deponevano la veste bianca, indossata per l’occasione, come segno della loro vita nuova di cristiani e della loro dignità di figli di Dio, a immagine e somiglianza di Gesù. Anche Magdi Cristiano Allam deporrà oggi la sua veste bianca. E speriamo che insieme con i segni liturgici vengano deposte anche tutte le polemiche che in questa settimana hanno animato il dibattito culturale e mediatico a seguito della sua conversione.

Se ne sono dette di tutti i colori, a proposito e a sproposito. C’è chi subito, ha gridato all’apostasia; chi addirittura ha parlato di una minaccia contro l’Islam. Non poteva mancare poi chi ha colto l’occasione per insultare nuovamente Papa Benedetto XVI, indicandolo come un provocatore nato, perché ha acconsentito a battezzarlo personalmente, con tanta solennità, durante la Veglia pasquale nella basilica di San Pietro, quando si aveva la certezza che quelle immagini avrebbero fatto il giro del mondo. C’era bisogno di buttare altra benzina sul fuoco delle difficili relazioni tra Occidente e Islam? Non ne ha avuto abbastanza delle grane che ha causato il suo famoso discorso di Ratisbona del Settembre 2006? E che dire poi de Il Corriere della Sera, il maggiore quotidiano italiano di cui Allam è collaboratore da cinque anni e vice-Direttore ad personam, che lo censura, pubblicando solo parzialmente una sua lettera inviata al Direttore, Paolo Mieli, in cui il neo battezzato illustra il suo percorso umano, spirituale, culturale e sociale, che lo ha portato a vivere quello che egli stesso definisce “il giorno più bello della vita” e “un fatto storico, eccezionale e indimenticabile, che segna una svolta radicale e definitiva rispetto al passato”? E’ significativo che di quella lettera sia stata tagliata propria la parte che fa riferimento agli aspetti umani e spirituali, accentuando così quasi esclusivamente il valore polemico e politico della scelta di Magdi Cristiano. Leggendola per intero si capisce che la conversione non è semplicemente un abbandono di un islam “che è fisiologicamente violento e storicamente conflittuale”, ma anche di un occidente che ha fatto “dell’ateismo sventolato come fede” la propria bandiera.

Anche se, da come pare, Il Corriere lo preferiva mussulmano, non si può banalizzare la decisione di Magdi Allam alla stregua di un semplice cambio di campo, una specie di trasformismo religioso e culturale, paragonabile a quello a cui ci hanno abituato tanti politici nostrani in questi ultimi quindici anni. Il suo è un vero e proprio incontro con il Cristo risorto, fino ad accettare la logica dell’amore ai nemici. E’ lui stesso che lo riconosce esplicitamente, quando dice: “Il miracolo della Risurrezione di Cristo si è riverberato sulla mia anima liberandola dalle tenebre di una predicazione dove l’odio e l’intolleranza nei confronti del ‘diverso’ ”.  Secondo lui quella intrapresa è l’unica vera strada che gli permette “di aderire all’autentica religione della Verità, della Vita e della Libertà. Nella mia prima Pasqua da cristiano io non ho scoperto solo Gesù, ho scoperto per la prima volta il vero e unico Dio, che è il Dio della Fede e Ragione.”.

Di fronte ad una straordinaria pagina di storia dell’umanità, dove al centro ci sono la ricerca della Verità, l’amore per la Vita e il rispetto per la Libertà individuale di chicchessia, è triste vedere come anche questo fatto venga faziosamente manipolato, per essere asservito e sacrificato alla logica del potere e delle convenienze di qualcuno. L’altra cosa che mi colpisce, anche se purtroppo non è una novità in assolto e per questo è sempre più evidente, è il disagio, per non dire il fastidio, di certi ambienti culturali e sociali tutte le volte che si ha esplicitamente a che fare con avvenimenti che fanno riferimento a Dio, a Cristo o alla Chiesa. Quando verrà il giorno in cui in questo nostro Occidente, salvato dal Cristianesimo, si deporranno definitivamente questi stupidi pregiudizi, causa di sterili polemiche, di infondati accuse, fino ad arrivare a vere e proprie forme di disprezzo, per tutto ciò che è cristiano?

Don Marco Belladelli.

 

Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 31/03/08.


 

 la “ratio” di ratzinger.

Negli ultimi due anni Papa Ratzinger ha pronunciato tre interventi, davanti ad importanti consessi internazionali, di intellettuali e non, nei quali ha indicato la “ragione umana” come il punto di equilibrio e la via maestra da seguire per risolvere altrettanti nodi problematici della cultura del nostro tempo, quali i rapporti tra Stato e Chiesa, tra fede e ragione e tra scienza e fede.

Cominciamo dall’ultimo discorso tenuto a Parigi in occasione della sua recente visita in Francia. Il 12 Settembre scorso, dopo la calorosa accoglienza delle massime autorità francesi, presso il Collegio dei Bernardini, davanti a 700 persone, rappresentanti del mondo culturale di quel paese, ha parlato sul tema: “Le origine della teologia occidentale e le radici della cultura europea”. La ricerca di Dio (quaerere Deum) dei monaci dell’alto medioevo è stato l’inizio di un percorso che li ha indotti e condotti ad allargare il campo delle loro indagini e conoscenze ad altri ambiti della natura. Così sono nate le scienze profane, cioè la eruditio, come la chiama il Papa, l’inizio di ciò che in senso più ampio oggi chiamiamo “cultura”. Quel cammino, che aveva come fine l’incontro con Dio, è stato possibile grazie alla ragione umana. Nella sua esemplarità, esso rimane un metodo oggi ancora valido ed è anche il fondamento di ogni vera cultura. La conseguenza, neppure tanto implicita, è che ogni laicità non può prescindere dalla spiritualità, in quanto, secondo il percorso appena illustrato, quest’ultima è la garante della libertà e dell’autonomia delle realtà terrene. Questi principi trovano una loro concreta ed immediata applicazione nella necessaria distinzione tra la sfera politica e quella religiosa, dove più è necessaria quella sana laicità, l’unica capace di riequilibrare oggi il tanto problematico rapporto tra Stato e Chiesa.

Il 12 Settembre di due anni fa, Benedetto XVI pronunziò invece la ormai famosa lectio magistralis di Ratisbona, a cui seguirono le violente reazioni soprattutto da parte del mondo arabo, ma anche di alcuni intellettuali occidentali, accodatisi con malcelato opportunismo. Ad innescare la polemica fu la citazione di uno scritto di Manuele II Paleologo, imperatore di Costantinopoli, che in un suo dialogo con un colto uomo persiano, giudicava negativamente l’Islam, religione che prevede la possibilità di essere imposta, laddove fosse necessario, anche con il ricorso alla violenza. Perfino il rammarico per il fraintendimento patito, espresso dal Papa nell’Angelus della Domenica successiva, fu equivocato da certa stampa come un formale atto di scuse. Il tema del discorso era “Il rapporto tra fede e ragione”. Invece che di un attacco all’Islam, si trattava di una dura critica alla ragione moderna, per il suo sottrarsi in modo arrogante dal confronto con la fede. Questo arroccamento, da una parte lascia spazio all’insorgere dei fondamentalismi religiosi, con le conseguenze che oggi tutti ben conosciamo, dall’altra ci si concede di usare la ragione per dimostrare tutto e il contrario di tutto, conducendo la cultura occidentale moderna dentro il vicolo cieco del soggettivismo più assurdo e contraddittorio. Oggi quel contributo è giudicato da molti intellettuali come una pietra miliare da cui non si può prescindere, sia per affrontare il problema del rapporto tra fede e ragione, sia per trovare un punto di equilibrio nel dialogo interreligioso.

Il terzo discorso è quello “non” pronunciato all’università de La Sapienza di Roma il 17 Gennaio scorso, un fatto vergognoso ed offensivo non soltanto per i credenti, ma per la coscienza civile e democratica di tutti gli italiani. Allora fu affidato al Papa il tema de “Il rapporto tra scienza e fede”. Mi limito a citare un passaggio conclusivo di quel discorso: “Se la ragione – sollecita della sua presunta purezza – diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola.”.

E’ il grande rischio che sta correndo la cultura europea oggi. Svincolarsi dalla propria radice cristiana, significa frantumarsi in tanti piccoli universi insignificanti, per poi essere riassorbiti da qualcosa di più forte ed unitario. Basta guardare a ciò che già sta succedendo in Inghilterra (e in parte anche in Francia), dove in nome della multiculturalità sono nate delle corti in cui si giudica secondo la sharìa islamica e non secondo il diritto comune dello stato sovrano, uguale per tutti.

Don Marco Belladelli.

 

Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 30 Settembre 2008

 

 


 

Cristiani e Mussulmani in dialogo.

Giovedì 6 Novembre si è concluso a Roma il primo seminario del Forum cattolico-mussulmano. Un evento quasi completamente ignorato dai grandi quotidiani nazionali e dai telegiornali, tutti concentrati sulla vittoria di Obama, che però, dopo i ventilati scontri di civiltà ripetutamente evocati da più parti, a cominciare da quel fatidico 11 Settembre 2001, merita di essere messo in risalto, prima di tutto  come metodo da usarsi per superare le conflittualità, poi per i contenuti oggetto del confronto tra le parti ed infine anche per le conseguenze concrete e immediate che già si sono registrate.

Se pensiamo poi che all’origine di questo incontro tra cristiani e mussulmani c’è il famoso discorso di Ratisbona del 12/09/2006 (quello in cui Ratzinger citava lo scritto di Manuele II Paleologo, imperatore di Costantinopoli, che in un suo dialogo con un colto uomo persiano giudicava negativamente l’Islam in quanto religione che prevede la possibilità di essere imposta anche con il ricorso alla violenza), che negli ambienti mussulmani fondamentalisti e non solo, fu giudicato come un offesa irreparabile, tanto da scatenare reazioni così violente, fino ad arrivare addirittura alle minacce di morte per il Papa, la cosa diventa ancora più sorprendente e intrigante. Passata la burrasca, si cominciò invece a riflettere seriamente sul contenuto di quel discorso, che cioè nel rapporto tra le varie religione si doveva escludere qualsiasi ricorso alla violenza e che la ragione doveva diventare il criterio comune in base al quale trovare dei punti d’incontro per una convivenza pacifica di tutti. E così il 12 Ottobre 2007 138 Personalità mussulmane indirizzarono una lettera al Papa e a tutti i Capi delle varie Chiese cristiane del mondo invitandoli a confrontarsi su ciò che le due fedi e pratiche religiose hanno in comune: i due comandamenti dell’amore. 

Nell’udienza concessa a coloro che hanno partecipato al seminario, Benedetto XVI ha richiamato la necessità che tutti insieme si concorra alla promozione della dignità della persona, donne comprese, e a garantire il libero esercizio dei diritti umani “nel pieno rispetto della libertà di coscienza e della libertà di religione di ogni individuo”.

Senza nascondere le diversità, che cominciano dal modo diverso di intendere Dio, dopo tre giorni di dibattito sul tema al centro del confronto: i due comandamenti dell’amore di Dio e del prossimo, nella dichiarazione finale in 15 punti sono stati definiti ambiti precisi nei quali è possibile ritrovarsi insieme fin da oggi, come per esempio sul valore della vita umana e della sua dimensione trascendente, la dignità della persona e dei diritti individuali che ne derivano, inclusa la libertà religiosa, la necessità di rinunciare a qualsiasi forma di violenza e oppressione, soprattutto quando viene usata nel nome di Dio, come nel caso degli attentati terroristici, e l’auspicio per una finanza eticamente responsabile.

Una prima conseguenza concreta, positiva e importante di questo seminario è stata la coraggiosa Lettera dei 144. I firmatari sono cristiani, cattolici, ortodossi e protestanti, 77 dei quali convertiti dall’Islam, tutti che vivono nell’Africa del nord o in Medio Oriente. Per la prima volta in modo pubblico chiedono che nei paesi arabi si metta fine alla condizione di “dhimmi” (gruppo protetto grazie al pagamento di una tassa al governo islamico, escluso dalla effettiva parità nella società), cioè di cittadini di seconda categoria loro riservata, che non si applichi la legge islamica per i non mussulmani e che venga garantita la libertà di cambiare religione come un diritto fondamentale.

Ora alle parole devono seguire i fatti. Se è vero che tra cristiani e mussulmani c’è bisogno di superare i pregiudizi e di non demonizzarsi a vicenda, è altrettanto vero che quella libertà che oggi essi godono qui in Occidente, loro non sono pronti a garantirla ai cristiani che vivono nei loro paesi. Insomma a Roma da oltre dieci anni c’è una grande Moschea, quanto dobbiamo ancora attendere per costruire una chiesa a La Mecca?

Don Marco Belladelli.

 

Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il  11/11/2008


 

Chiesa e crisi economica

In attesa della pubblicazione dell’enciclica sociale, che si dice sia stata mandata ad una ulteriore revisione per renderla più corrispondente alla situazione attuale, in questi ultimi mesi non sono mancati i pronunciamenti degli uomini di Chiesa a proposito della grave situazione economica che stiamo attraversando. Ha cominciato il Papa stesso quando tre mesi fa, in una meditazione a braccio durante il recente Sinodo sulla Parola di Dio ebbe a dire: Lo vediamo adesso nel crollo delle grandi banche: questi soldi scompaiono, sono niente. … Solo la Parola di Dio è fondamento di tutta la realtà, è stabile come il cielo e più che il cielo, è la realtà” (06/10/2008).

In precedenza il cardinal Bagnasco, Presidente della C.E.I., negli  interventi di apertura dei periodici incontri del Consiglio permanente, non aveva mancato di sottolineare l’aggravarsi della situazione economica del paese, denunciando le difficoltà di molte famiglie ad arrivare a fine mese, e richiamando il dovere della carità cristiana a soccorrere nelle necessità fondamentali del mangiare e del vestire color che sono oppressi dalla povertà. E proprio nei giorni precedenti il Natale la CEI, attingendo al gettito dell’8 x 1000, ha costituito un fondo per aiutare le fasce sociali più deboli, colpite dalla crisi economica.

Il tempo natalizio, con tutte le varie celebrazioni che lo caratterizzano e i numerosi interventi previsti, è stata l’occasione, soprattutto per il Papa, per ritornare sul problema della crisi economica che investe tutto il mondo e dire una parola chiara su come uscire da questa grave situazione. Già nel messaggio per la giornata mondiale della pace del 1° Gennaio scorso, pubblicato ai primi di Dicembre, si metteva in relazione l’impegno per la pacifica convivenza tra i popoli nel mondo con la lotta alla povertà, sotto tutte le forme nelle quali essa si presenta: economica, culturale, morale e spirituale. Al n. 10 del messaggio si fa esplicito riferimento alla ormai famosa finanza creativa, il cui difetto di fondo sta nell’essere finalizzata non a sostenere lo sviluppo economico concreto dei vari paesi del mondo, ma unicamente a produrre rendite immediate che, come stiamo vedendo, alla fine si dimostra dannosa per tutti, anche per chi per lungo tempo ha beneficiato di tali vantaggi.

Nell’omelia della notte di Natale, nel messaggio Urbi et Orbi dello stesso giorno e ancora nel primo giorno dell’anno il Papa ha parlato soprattutto della necessità e dell’urgenza di cambiare prima di tutto il modello di sviluppo economico. La logica della cosiddetta scuola neoconsevatrice, quella che fino ad oggi ha dettato legge ai mercati di tutto il mondo, dice: prima creiamo reddito e poi lo redistribuiamo. Ratzinger dice esattamente il contrario: siccome la redistribuzione è la causa dello sviluppo, essa viene prima di qualsiasi altra cosa. Tanto per intenderci: vi ricordate la parabola evangelica in cui c’è un padrone che prima di partire per un lungo viaggio distribuisce ai suoi servi le sue sostanze, a chi dieci talenti, a chi cinque e a chi uno, a ciascuno secondo le sue capacità? Al suo ritorno i servi, chiamati al  rendiconto, orgogliosamente mostrano di aver raddoppiato il capitale ricevuto. (cfr. Mt 25,14-30). Questo è il modello di sviluppo che la Chiesa propone di seguire, quello in cui tutti sono coinvolti nel processo produttivo. Insomma l’equità deve essere il principio fondante dell’economia. Soltanto così lo sviluppo produrrà ancor più equità. Diversamente si diventa tutti più poveri. Come la cronaca recente dimostra, anche coloro che pensavano di arricchirsi sulle spalle altrui alla fine sono rimasti con niente in mano.

Già nel Novembre del 1985, in una conferenza tenuta presso l’Università Urbaniana di Roma, l’allora Cardinal Ratzinger aveva previsto la situazione che oggi stiamo vivendo. Fa parte della missione della Chiesa svolgere anche questo compito, quello cioè di farsi baluardo in difesa dei più poveri, contro coloro che hanno fatto (e continueranno a fare!) della logica del profitto, e del potere che da esso ne deriva, la ragione del loro vivere. 

Don Marco Belladelli.

 

Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 09/01/09.

 


 

Lefebvriani, tra scomuniche e negazionismo.

Al termine dell’udienza di Mercoledì 28/01 scorso in sala Paolo VI, alla quale erano presenti gli artisti del circo Medrano, uno di loro ha presentato al Papa un leoncino e Ratzinger, contento come un bambino, lo ha accarezzato. Guardando questa bella immagine, vorrei pensare che, pur trovandosi al centro di aspre polemiche, quali quelle che si sono scatenate contro di lui in questa ultima  settimana, il Papa sia rimasto sereno e pacifico, aiutato da quella semplicità disarmante e quasi fanciullesca che lo contraddistingue.

Tutto è cominciato sabato 24/01, quando è stato reso noto il decreto di ritiro della scomunica ai quattro Vescovi ordinati illecitamente più di vent’anni fa dal Vescovo ulta tradizionalista francese Mons. Lefebvre. Immediatamente si sono aperti due fronti critici, uno interno alla Chiesa e un altro esterno. Il primo riguardava la validità del Concilio Vaticano II. Ho sentito e letto dichiarazioni contrapposte, tra chi, stracciandosi le vesti, vedeva in questo gesto del Papa la fine del Concilio, e chi invece cantava vittoria, perché finalmente si erano riconosciute le ragioni dei paladini della tradizione pre-conciliare. L’altro fronte si riferiva invece alle dichiarazioni negazioniste della shoah fatte da uno dei quattro Vescovi ex scomunicati, Richard Williamson. Qualcuno, con troppa precipitazione e saltando dei passaggi obbligati, prima di tipo logico e poi istituzionale, ha pensato che l’atto di perdono del Papa significasse anche avvalorare le affermazioni del Williamson. La coincidenza poi con la celebrazione del giorno della memoria per tutte del vittime del nazifascismo ha fatto da straordinario amplificatore alla questione.

Ci associamo alla comprensibile indignazione della Comunità Ebraica, che, di fronte alle assurde tesi dei negazionisti, vede di nuovo umiliati e offesi tutti i milioni di vittime dell’olocausto e il riaffacciarsi minaccioso dello spettro dell’antigiudaismo e dell’antisemitismo. Davanti a tanto rinnovato dolore, nella stessa udienza già citata, Benedetto XVI non ha mancato di manifestare tutta la sua più sentita e partecipata solidarietà, dicendo: “Mentre rinnovo con affetto l’espressione della mia piena e indiscutibile solidarietà con i nostri Fratelli destinatari della Prima Alleanza, auspico che la memoria della Shoah induca l’umanità a riflettere sulla imprevedibile potenza del male quando conquista il cuore dell’uomo. La Shoah sia per tutti monito contro l’oblio, contro la negazione o il riduzionismo, perché la violenza fatta contro un solo essere umano è violenza contro tutti.”

Meraviglia però che in Vaticano sia sfuggito un particolare tanto importante e delicato riguardante la questione ebraica, quando sarebbe stato sufficiente visitare il sito internet dello storico inglese David John Cawdell Irving, uno tra i maggiori esponenti del negazionismo, e per questo già condannato a tre anni di carcere in Austria, per rendersi conto che il Williamson era un suo adepto. Pare comunque che, dopo i tuoni e i fulmini degli ultimi giorni, i rapporti tra Vaticano e mondo ebraico siano tornati più sereni, anche perché l’alzare ulteriormente i toni, avrebbe rischiato di far saltare la programmata visita a Maggio del Papa in Israele. Cosa che non conviene a nessuna delle due parti.

L’altra polemica tutta interna alla Chiesa, riguarda invece l’accoglienza del Concilio Vaticano II da parte degli eredi di Mons. Lefebvre, oggi riuniti nella Fraternità sacerdotale San Pio X.  Il Papa stesso ha spiegato che il suo gesto va compreso nell’orizzonte specifico del suo ministero di successore di Pietro a servizio all’unità della Chiesa. Per questo ha ritenuto necessario rispondere alla sofferenza manifestata dai quattro presuli con un atto di paterna misericordia, al quale deve seguire “il sollecito impegno da parte loro di compiere gli ulteriori passi necessari per realizzare la piena comunione con la Chiesa, testimoniando così vera fedeltà e vero riconoscimento del magistero e dell’autorità del Papa e del Concilio Vaticano II.” (28/01/09).

Al di là delle rivalse anticonciliari e antitradizionaliste, il ritiro della scomunica non significa ancora la piena comunione della Fraternità San Pio X con quella Chiesa cattolica romana, di cui essi dicono di sentirsi parte e di voler servire con tutte le loro forze; come del resto non sono previste particolari manovre revisionistiche, che eviti loro di fare i conti con il Concilio. Tra i lamenti di chi vede il Concilio morto e sepolto e i cori trionfanti dei tradizionalisti, scelgo la serena letizia di Benedetto XVI. Come si è già verificato per il famoso discorso di Ratisbona e per altre situazioni critiche del suo pontificato, anche in questo caso alla fine il vero vincitore sarà lui.

Don Marco Belladelli.

 

Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 04/02/09.


 

Il coraggio di Benedetto XVI

E’ la seconda volta che Papa Ratzinger scrive una lettera a tutti i Vescovi del mondo per spiegare una sua decisione. La prima volta fu nel Luglio del 2007, quando liberalizzò la celebrazione della S. Messa con il rito preconciliare. La seconda volta è accaduto Giovedì scorso, 12/03, per spiegare la remissione della scomunica ai quattro Vescovi ordinati illecitamente più di vent’anni fa dal tradizionalista, Mons. Lefebvre. Mentre nel primo caso la lettera è stata pubblicata insieme al motu proprio Summorum Pontificum, ora invece segue di quasi due mesi il provvedimento di ritiro della scomunica.

Si tratta di un gesto inusuale per un Papa, come pure di un modo insolito di governare la Chiesa. Lo ha riconosciuto anche il Cardinal Ruini, quando in un suo intervento sull’ Osservatore Romano a commento della lettera parla di "una comunicazione personale che supera i limiti dell'ufficialità e si offre al lettore in maniera trasparente, consentendogli di entrare, per così dire, nell'animo del Papa". Un animo che, come avevamo auspicato nel nostro ultimo intervento su questo giornale (04/02/09), speravamo fosse rimasto sereno, nonostante le polemiche di cui era oggetto. Oggi invece veniamo a sapere quanto ha sofferto di fronte alla perplessità e alla incomprensione di tanti Vescovi, e di altri che addirittura sono arrivati ad accusarlo “di voler tornare indietro, a prima del Concilio”.

Di fronte alla “veemenza” con cui gli oppositori si sono scagliati contro di lui, il Papa avrebbe potuto benissimo scaricare le colpe sui suoi collaboratori. Invece prima di tutto comincia riconoscendo umilmente i suoi errori, assumendosene tutta la responsabilità, senza neppure tirare in ballo coloro che, invece di aiutarlo, lo hanno esposto a questo vergognoso tiro al piccione. Anzi, quando parla di internet come di una fonte di notizie da non trascurare, aggiunge pure che per il futuro farà tesoro di questa brutta esperienza.

Nel passaggio successivo della lettera, Benedetto XVI torna a spiegare “il significato positivo come anche il limite del provvedimento del 21 gennaio 2009”, che cioè la scomunica è una sanzione disciplinare personale, la sua remissione faceva seguito alla disponibilità dimostrata dagli interessati di riconoscere l’autorità del Papa e del Concilio e non comportava l’automatico riconoscimento canonico della Fraternità San Pio X.

Nella parte finale affronta in modo aperto e diretto quelle che egli ha sentito come le critiche più pesanti, perché rivolte contro la sua persona e il suo ministero: “Ora però rimane la questione: Era tale provvedimento necessario? Costituiva veramente una priorità? Non ci sono forse cose molto più importanti?”. La risposta è altrettanto lapidaria e non lascia alcuna possibilità di replica. Se qualcuno non lo avesse ancora capito, “l’impegno faticoso per la fede, per la speranza e per l’amore nel mondo costituisce in questo momento (e, in forme diverse, sempre) la vera priorità per la Chiesa, allora ne fanno parte anche le riconciliazioni piccole e medie.”. 

A coloro che in questi anni nella Chiesa sono diventati maestri del politicamente corretto, cioè espertissimi nel calcolare l’opportunità o meno di certi gesti o di certe parole, il Papa risponde riportando al centro dell’esperienza cristiana l’essenza del Vangelo. Quando poi Ratzinger stesso rilegge tutto l’accaduto alla luce di quanto San Paolo scrive ai Galati (cfr. 5,13-15), non si può non pensare che, se siamo arrivati a questo punto, lo si debba ad una caduta della tensione spirituale ed alla conseguente carenza di integrità morale. 

Se qualcuno poi non se ne fosse ancora accorto o non ne fosse pienamente convinto, in questa lettera Benedetto XVI dimostra tutto il suo coraggio di non fuggire “per paura, davanti ai lupi”, da qualsiasi parte essi vengano, dall’interno o dall’esterno della Chiesa Cattolica, come aveva promesso quattro anni fa all’inizio del suo pontificato.

Don Marco Belladelli.

 

Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 17/03/09.


 

Il Papa, i preservativi e l’AIDS.

Martedì scorso, mentre si era in volo verso Yaoundè, la capitale del Camerun, nella ormai tradizionale conferenza stampa che il Papa tiene con i giornalisti accreditati che lo accompagnano sul suo stesso aereo, durante il tratto di andata dei suoi viaggi, un corrispondente della televisione francese ha chiesto a Ratzinger che cosa pensasse di chi giudica “La posizione della Chiesa cattolica sul modo di lottare contro l’AIDS non realistica e non efficace”. Benedetto XVI ha risposto dicendo che è vero esattamente il contrario: “Penso che la realtà più efficiente, più presente, più forte della lotta contro l’Aids sia proprio la Chiesa cattolica”, elencando di seguito tutte le varie realtà ed istituzioni religiose direttamente impegnate in questo senso. E poi ha aggiunto “Direi che non si può superare questo problema dell’Aids solo con soldi. Sono necessari, ma se non c’è l’anima che li sappia applicare, non aiutano, non si può superare con la distribuzione di preservativi: al contrario, aumentano il problema”. Ha poi anche indicato due strade da percorrere, finalizzate al cambiamento dei comportamenti e dei costumi che sono la causa di questa pandemia, “l’ umanizzazione della sessualità e una vera amicizia anche e soprattutto per le persone sofferenti”.

Il primo ad attaccare il Papa per queste sue dichiarazioni, a proposito della inefficacia dei preservativi, è stato il ministro degli esteri francese, il quale ha visto nelle parole del Pontefice addirittura “una minaccia alla salute pubblica e al dovere di salvare vite umane”. A ruota sono poi arrivate le prese di posizione di un ministro olandese e di uno tedesco. Si è scomodato perfino il Fondo Monetario Internazionale e per finire il governo spagnolo, per reazione, si è impegnato ad inviare un milione di condom in Africa. Si è trattato di una vera e propria aggressione, come se da una persona tanto autorevole qual è il Papa fosse stata detta una cosa vera e da tutti conosciuta, ma del tutto sconveniente ed inopportuna. Tanto che l’ergersi a paladini in difesa della vita da parte di chi a casa propria ha legalizzato aborto eugenetico ed eutanasia è sembrato addirittura ridicolo.

Riporto alcuni dati riferiti dall’agenzia AsiaNews, che ci aiutano a capire di che cosa stiamo parlando. L’agenzia dell’Onu per la lotta all’Aids in uno studio del 2003 ha riconosciuto che il condom fallisce in almeno il 10% dei casi. Altri studi dimostrano che le percentuali di fallimento nel fermare l’epidemia raggiungono anche il 50%. In Thailandia, il dott. Somchai Pinyopornpanich, vicedirettore generale del dipartimento per il controllo delle malattie a Bangkok, ha costatato che si ammala di Aids il 46,9% di uomini che usano il preservativo e il 39,1% delle donne. Paesi come il Sud Africa, che hanno abbracciato in pieno la campagna sul “sesso sicuro” con l’uso del condom, sostenuta dall’Onu, l’Unione Europea e varie organizzazioni non governative, hanno visto uno spaventoso incremento della diffusione dell’Aids. Al contrario, Paesi dove si spingeva alla responsabilità, all’astinenza e alla fedeltà, hanno visto una riduzione dell’epidemia.

A questo punto il discorso si farebbe lungo e complesso. Di fatto ciascuno rimane libero di trarre le proprie conclusioni, con tutti i ma e i però che preferisce, e pure di continuare ad agire come meglio crede, se è convinto dell’efficacia dei preservativi. Come dice il proverbio: uomo avvisato, mezzo salvato.

Mi resta solo da dire che nella foga di attaccare il Papa, non è stato dato adeguato risalto alla notizia di poche ore dopo, che cioè Benedetto XVI, appena sbarcato a Yaoundè, portando come esempio il centro Cardinal Lèger, dove la Chiesa Camerunese cura i malati di AIDS, ha elogiato l’impegno di curarli gratuitamente, contrariamente a quanto fanno tante organizzazioni internazionali, finanziate profumatamente dai governi occidentali e dalle istituzioni sopranazionali.

Don Marco Belladelli.

 

Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 26/03/09.


 

Il Papa in Terra Santa.

Tra pochi giorni il Papa si recherà in Terra Santa. Il programma prevede la visita in Giordania, Israele e nei territori dell’Autorità Nazionale Palestinese. Un viaggio tanto desiderato da Benedetto XVI e altrettanto ostacolato. Poco più di sei mesi fa era ancora in corso il conflitto nella striscia di Gaza dove ci sono stati più di 1.500 morti. Tra il Gennaio e il Febbraio scorsi è seguita la polemica per la remissione della scomunica al vescovo lefebvriano negazionista Williamson. E, soprattutto in Italia, non sono ancora state superate le divergenze per la preghiera del Venerdì Santo della liturgia preconciliare che, se pur modificata dal Papa stesso, a molti rabbini proprio non va giù. Per non parlare poi delle tante ragioni di perplessità che vengono dall’interno della Chiesa stessa. Un esempio su tutti: i Vescovi dell’area interessata dall’itinerario papale avevano consigliato di rimandare a tempi di maggiore tranquillità per questa regione tanto travagliata. A tutto questo si sono aggiunte ultimamente addirittura minacce di morte nei confronti del Pontefice. Un attentato a Benedetto XVI sarebbe un evento talmente grave, da innescare reazioni difficilmente immaginabili e dalle conseguenze fuori da qualsiasi possibile controllo. Ovviamente scenari tanto drammatici sono assolutamente da scongiurare. Resta il fatto che Israeliani, Palestinesi e Arabi, sono in concorrenza gli uni con gli altri e nello stesso tempo vogliono a loro modo trarre il massimo vantaggio possibile dalla visita del Papa. Insomma, mai viaggio papale si è presentato tanto complesso dal punto di vista umano, religioso e sociopolitico.

Circa venti giorni fa, in una intervista ripresa da numerose testate giornalistiche, il Patriarca latino di Gerusalemme, Sua Beatitudine Fouad Twal, ha dichiarato: “Al Papa pellegrino, i cristiani locali dicono “Ahlan wa sahlan!”, “Benvenuto!”. Le loro inquietudini risiedono semplicemente nella domanda: “Che cosa dirà?”, o meglio “Che cosa gli si farà dire?”. Interrogativi che trovano risposta nel coraggio e nella fermezza più volte dimostrata da Papa Ratzinger. Con la sua semplicità e i suoi modi gentili, non risparmia mai niente a nessuno, sa andare dritto al nocciolo della questione, chiunque sia il suo interlocutore, in qualsiasi contesto si trovi, senza essere né inopportuno, né impertinente.

Nelle diverse occasioni in cui il Pontefice ha parlato di questo suo prossimo viaggio in Terra Santa, lui stesso ha tenuto a precisare che si tratta di pellegrinaggio, cioè di un viaggio principalmente dalla valenza religiosa. Ha anche indicato i due obiettivi principali che si propone di perseguire con la sua presenza nella terra di Gesù: confortare i cristiani di quelle regioni tanto tribolate, confermandoli nella fede e nella speranza, e contribuire con la sua presenza ad un vero e concreto processo di pace per tutti.

Il Papa conosce bene le sofferenze di queste Chiese, prima di tutto per una condizione di marginalità nella quale si trovano normalmente a vivere, a cui si aggiungono le pesanti conseguenze del conflitto arabo-israeliano, aperto da decenni e per il quale non si intravedono prossime facili soluzioni. I cristiani mediorientali sono nella stragrande maggioranza arabi e palestinesi. La loro situazione è come quella di chi si trova tra l’incudine e il martello e spesso l’unica soluzione per la sopravvivenza resta l’esilio, come è successo in IRAQ, dove dallo scoppio della guerra fino ad oggi, quasi un milione di cristiani hanno abbandonato il loro paese, cercando rifugio all’estero. 

Per quanto riguarda invece il difficile problema della pace, Benedetto XVI non si fa illusioni. Del resto non spetta a lui proporre soluzioni diplomatiche e tantomeno dettare condizioni politiche. Ricordando però quello che disse a Gerusalemme nel 1994, quando fu invitato a parlare del rapporto tra ebrei e cristiani: “ebrei e cristiani devono accogliersi reciprocamente in una più profonda riconciliazione, senza nulla togliere alla loro fede e, tanto meno, senza rinnegarla, ma anzi a partire dal fondo di questa stessa fede. Nella loro reciproca riconciliazione essi dovrebbero divenire per il mondo una forza di pace.”, mi pare di capire che ancora insisterà su questi stessi temi, ritenendo il riavvicinamento tra gli ebrei e i cristiani la base fondamentale su cui poggiare i successivi impegni di pacificazione con tutto il mondo arabo-mussulmano.

Don Marco Belladelli.

 

 Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 07/05/09.

 


 

Giordania, “Terra Santa” per il dialogo e la convivenza pacifica tra cristiani e mussulmani

Quando si dice “Terra Santa”, si pensa subito ai luoghi della vita di Gesù e alle città tradizionalmente meta dei pellegrinaggi dei cristiani, vale a dire Gerusalemme, Betlemme, Nazareth e dintorni. Ma molti degli avvenimenti raccontati nell’Antico testamento, che hanno avuto come protagonisti i Patriarchi, i Profeti e i vari Re d’Israele, ugualmente importanti per la nostra fede, si sono svolti in quello che oggi è territorio del Regno di Giordania, da dove venerdì 08/05 Benedetto XVI ha voluto cominciare il suo pellegrinaggio. Il programma del viaggio papale prevedeva all’arrivo l’inaugurazione del centro per handicappati Regina Pacis di Amman, dove l’ 80% dei ricoverati sono mussulmani. Sabato 10/05, prima di far visita all’antica basilica del “memoriale di Mosè” sul monte Nebo, luogo straordinario per riconoscere le comuni radici di ebrei e cristiani e per riaffermare “l’inseparabile vincolo” che unisce la Chiesa e il popolo eletto, ha benedetto la posa della prima pietra della futura Università cattolica di Màdaba, città posta a circa 50 KM a sud della capitale, in cui risiedono la maggioranza dei cristiani giordani. Nello stesso giorno ha visitato la moschea dedicata al defunto Re Hussein. Domenica mattina poi il Papa ha celebrato la S. Messa con tutte le Comunità Cattoliche di diverso rito diffuse in Medio Oriente, mentre nel pomeriggio si è recato al luogo del battesimo di Gesù, dove Giovanni Battista ha svolto la sua missione di precursore del Messia e dove il profeta Elia fu rapito in cielo su un carro di fuoco.

Con l’inaugurazione del centro per handicappati e con la sosta presso quella che sarà la futura Università Cattolica, il Papa ha voluto ribadire che l’annuncio del Vangelo e la presenza della Chiesa, in qualsiasi luogo della terra si deve sempre esprimere nel segno della carità verso i più poveri e della promozione umana delle giovani generazioni, attraverso l’impegno educativo e formativo. Nella celebrazione della S. Messa di Domenica nello stadio di Amman Papa Ratzinger, contento di presiedere un’assemblea, tanto diversa e variegata per tradizioni, ma altrettanto unità nella professione dell’unica fede, durante l’omelia ha messo in evidenza il contributo fondamentale delle  donne nella testimonianza di quella carità cristiana fatta di assistenza ai malati e ai poveri e di educazione dei piccoli, invocando nello stesso tempo anche nel mondo arabo il loro rispetto e la loro necessaria emancipazione. Ha poi esortato con forza i cattolici mediorientali a non abbandonare quelle terre, ma ad avere il coraggio per testimoniare Cristo con convinzione personale, a fianco degli altri cristiani, a favore dei più poveri e per costruire ponti di dialogo con le diverse culture e religioni.

L’incontro con i capi religiosi mussulmani, guidati dal principe Ghazi Bin Muhammed Bin Talal, cugino del re Abdullah II,  tenutosi davanti alla moschea dedicata al defunto re Hussein, ha rappresentato un vero e proprio sviluppo positivo, oltre ogni più ottimistica previsione, della ormai storica lectio magistralis di Ratisbona del 13 Settembre 2006. In un discorso dai contenuti e dai toni del tutto inusuali per un mussulmano, il principe si è più volte richiamato al quel documento, ringraziando Benedetto XVI di quello che disse, del suo rincrescimento per il dolore arrecato ai mussulmani a causa del fraintendimento delle sue parole, e soprattutto perché il suo pontificato  è caratterizzato “dal coraggio morale di fare e parlare secondo la propria coscienza, indipendentemente dalle mode del momento”. Ha poi orgogliosamente esaltato l’esempio della Giordania, da secoli modello di pacifica convivenza tra cristiani e mussulmani.

Oltre ai fondamentali significati religiosi e spirituali, i gesti compiuti, le parole pronunciate dal Pontefice in Giordania, unita alla cordiale e sincera accoglienza che essi hanno trovato da parte di coloro che hanno avuto l’onore di ospitarlo, sono certo che rappresenteranno in futuro dei punti di riferimento importanti, sia per la vita della Chiesa, sia per i suoi complessi rapporti con il mondo arabo-mussulmano in genere.

Don Marco Belladelli.

 

Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il   10/05/09.


 

A quando la riconciliazione tra Chiesa e Sinagoga?

Che il passaggio in Israele sarebbe stato per Benedetto XVI molto più ostico, rispetto ai tre giorni di squisita ospitalità araba di cui ha beneficiato in Giordania, era in qualche modo prevedibile. Nessuno, più di Ratzinger, prima come teologo e poi da Papa, ha dedicato tanta attenzione ai rapporti con gli Ebrei (2005: vista alla sinagoga di Colonia; 2008: visita alla sinagoga di New York; udienze romane a diverse organizzazioni ebraiche internazionali). Tuttavia rimane da parte loro nei suoi confronti una sorta di diffidenza, evidenziatasi in modo tanto inequivocabile proprio nei giorni del suo pellegrinaggio a Gerusalemme. Se si fa eccezione della cortesia usatagli dal Presidente Simon Peres al suo arrivo in Israele, sia la visita allo Yad Vashem e al muro del pianto, che l’incontro con il Gran Rabbinato sono stati caratterizzati da momenti di freddezza, al limite dell’imbarazzo. A molti commentatori israeliani non è piaciuto ciò che il Papa ha detto al museo dell’olocausto, perché, a loro dire, in quel luogo doveva prima di tutto chiedere perdono ai sei milioni di vittime come tedesco e come cristiano. Alcuni hanno sottolineato che non ha visitato tutte le sale del memoriale, forse per non trovarsi davanti alla famosa foto del suo predecessore, Pio XII, con relativa didascalia, in cui lo si accusa di essere uno dei responsabili dello sterminio. E infine, secondo altri, non ha dimostrato la commozione di Giovanni Paolo II, né tantomeno ha suscitato l’emozione del suo augusto predecessore.

Consapevole di trovarsi in uno dei luoghi di maggiore criticità sociopolitica di tutto il pianeta, da cui dipende la pace mondiale, nell’omelia di Martedì 12, nella valle di Giosafat, che separa il monte degli Ulivi dalla città di Davide, Papa Ratzinger ha evidenziato il paradosso di Gerusalemme, da cui deriverebbero chiusure e rigidità. Da una parte c’è la sua vocazione e missione di città santa, città della pace, e dall’altra il suo destino secolare di trovarsi al centro di conflitti e divisioni, senza soluzione di continuità. Le contrapposizioni generano sofferenze, che a loro volta irrimediabilmente induriscono i cuori e impediscono al presente ogni possibile via alla pace: “In questa Santa Città dove la vita ha sconfitto la morte, dove lo Spirito è stato infuso come primo frutto della nuova creazione, la speranza continua a combattere la disperazione, la frustrazione e il cinismo, mentre la pace, che è dono e chiamata di Dio, continua ad essere minacciata dall’egoismo, dal conflitto, dalla divisione e dal peso delle passate offese.” 

Nell’incontro del mattino con i membri del Gran Rabbinato di Gerusalemme, per non smentirsi a proposito della sua disarmante trasparenza, aveva invece fatto esplicito riferimento al quel sentimento di sospettosa prevenzione con cui è stato accolto: “La fiducia è innegabilmente un elemento essenziale per un dialogo effettivo.”. Come a voler sottolineare che per dialogare bisogna essere in due, disposti da ambo le parti a far credito di buona fede al proprio interlocutore per poterlo ascoltare.

Benedetto XVI è andato in Israele pronto ad imbastire una vera riconciliazione tra cattolici ed ebrei: “Oggi ho l’opportunità di ripetere che la Chiesa Cattolica è irrevocabilmente impegnata sulla strada decisa dal Concilio Vaticano Secondo per una autentica e durevole riconciliazione fra Cristiani ed Ebrei”. Suo malgrado a dovuto prendere atto che non è stato possibile compiere il benché minimo passo avanti su questa strada. Un’occasione persa che rischia di trasformarsi in un vero e proprio boomerang per chi ha chiuso la porta. Sembra quasi che Ratzinger più entra in sinagoghe e più vede aumentare le resistenze nei suoi confronti. All’orizzonte rimane la prossima visita alla sinagoga di Roma in programma per l’autunno prossimo. Stiamo a vedere se, giocando in casa, sarà possibile superare una volta per tutte i mal di pancia ebraici, per cominciare concretamente a guardare insieme alla durevole riconciliazione.

Don Marco Belladelli

 

Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 16/05/09.


 

L’inquinamento spirituale

In questi giorni, le più importanti testate giornalistiche nazionali sia radiotelevisive, sia della carta stampata, hanno dato grande risalto ad alcuni passaggi dell’omelia che il Papa ha tenuto Domenica scorsa 31/05, solennità di Pentecoste.  Prima di tutto voglio ricordare che la Pentecoste, nonostante non sia accompagnata da tradizioni ed esteriorità particolari, come per esempio il Natale, non è una Domenica qualsiasi dell’anno, ma, volendo fare una scaletta, tra tutte le celebrazioni cristiane è la festa più importante, dopo la Pasqua. Già questo fa presupporre che il Papa per primo si sia impegnato a dare alla Chiesa e al mondo un messaggio forte.

Va pure detto che la prima preoccupazione di Ratzinger nelle sue omelie è quella di illustrare il valore salvifico della festa o dell’evento particolare che si celebra, per aiutare i fedeli ad accogliere e a vivere il mistero di grazia in esso presente. Commentando quindi l’evento della Pentecoste, così come lo descrive san Luca al cap. 2 degli Atti degli Apostoli, a proposito del vento impetuoso, il segno sensibile attraverso il quale si percepisce la presenza e l’azione divina dello Spirito Santo, in questo caso molto simile ad una vera e propria tempesta che ha invaso il cenacolo dove erano riuniti Maria e gli Apostoli in preghiera, ha paragonato lo Spirito Santo all’aria, elemento essenziale per la vita dell’uomo sulla terra, e ha detto: Quello che l’aria è per la vita biologica, lo è lo Spirito Santo per la vita spirituale”. Sempre in linea con lo stesso paragone ha poi aggiunto: “E come esiste un inquinamento atmosferico, che avvelena l’ambiente e gli esseri viventi, così esiste un inquinamento del cuore e dello spirito, che mortifica ed avvelena l’esistenza spirituale”, facendo anche alcuni esempi concreti, per non essere frainteso: “ad esempio immagini che spettacolarizzano il piacere, la violenza o il disprezzo per l’uomo e la donna. ”. Ma, a detta del Papa, il vero problema è che in nome della libertà l’inquinamento spirituale viene non solo tollerato, ma addirittura giustificato: “A questo sembra che ci si abitui senza difficoltà. Anche questo è libertà, si dice, senza riconoscere che tutto ciò inquina, intossica l’animo soprattutto delle nuove generazioni, e finisce poi per condizionarne la stessa libertà”.

Tra i tanti commenti pro e contro che ho letto e ascoltato, mi ha colpito quello di chi facendo finta di non capire, ha spostato la questione su un altro piano, rimandando il problema al mittente. Secondo il sociologo Alberoni infatti è la Chiesa oggi ad aver perso il contatto con le nuove generazione. Il Papa parla esclusivamente ad essa e per essa, quindi l’inquinamento spirituale è qualcosa che la riguarda in prima persona. Molti altri hanno fatto lo stesso gioco logicamente scorretto, quello cioè di cambiare il punto di vista, per poi concludere che la riflessione del Papa è fuori luogo o del tutto non pertinente. Altri invece, forti della superficialità del mestierante, propria di chi è abituato a semplificare fino alla banalità, sono partiti per la tangente, parlando e disquisendo di inquinamento “morale”, termine ed orizzonte del tutto assente dal testo papale.

Prendo atto, mio malgrado, dell’ennesimo tentativo di mistificazione della verità e della realtà, e soprattutto della pregiudiziale chiusura a qualsiasi dialogo con la Chiesa, e con chi la rappresenta, da parte dei soliti ambienti culturali ad essa refrattari, anche quando il messaggio in sé rimane molto semplice e chiaro per tutti, sia per chi lo voglia ascoltare, sia per chi lo voglia ignorare,: “La metafora del vento impetuoso di Pentecoste fa pensare a quanto invece sia prezioso respirare aria pulita, sia con i polmoni, quella fisica, sia con il cuore, quella spirituale, l’aria salubre dello spirito che è l’amore!”. Paradossalmente, come lo smog delle nostre città aumenta il desiderio e il bisogno dell’aria pura e fresca di montagna per i polmoni, così coloro che negano un qualsivoglia inquinamento spirituale, rendono ancor di più  straordinariamente necessaria quell’aria pura dello Spirito, cioè l’amore che fa bene al cuore, perché tutto ciò che non è amore avvelena, condiziona e rende meno liberi.

Don Marco Belladelli.

 

Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 03/06/09.

 


 

La fede adulta

Qualche mese fa, durante una cena con amici, come spesso accade quando è presente un prete, il discorso è andato a finire quasi naturalmente sulla Chiesa, in particolare sulla Chiesa locale e sui chiari di luna che sta attraversando per la carenza di sacerdoti, l’accorpamento delle parrocchie e con tutte le conseguenze che questo comporta. Per capire il presente, è venuto spontaneo il confronto con il passato, in questo caso con un passato molto recente, dove si trovano immediatamente le cause e le ragioni del malessere di oggi. Si raccontava di cose vissute circa venticinque, trent’anni fa, cioè tra la fine anni settanta e la prima metà degli anni ottanta tanto per intenderci, quando con la pretesa di formare cristiani adulti si sono proposti, e anche un po’ imposti, non soltanto ai ragazzi, ma anche ai loro genitori, ritmi di catechesi al limite dell’esasperazione. Ricordo che un carissimo amico sacerdote aveva definito questi programmi pastorali delle mostruose macchine trita fumo. Credo che non fosse tanto lontano dalla verità. La maturità cristiana a cui si mirava era intesa più sul piano psicologico della consapevolezza umana, che non su quello della grazia divina e degli effetti positivi derivanti dalla sua accoglienza. Un fraintendimento non da poco, che alla fine legittima anche gli insuccessi di tante attività pastorali.

Da allora non avevo più sentito parlare di fede adulta, fino a quando alcuni anni fa questa espressione è stata adottata da qualche politico di razza di area cattolica, in occasione del referendum per l’abrogazione della legge sulla fecondazione assistita, per smarcarsi dalle posizioni della Chiesa sul tema in questione e, più in generale, sui cosiddetti temi eticamente sensibili, di cui in questi ultimi tempi si discute molto.

Domenica 28/06, durante la celebrazione di chiusura dell’Anno Paolino, è stato il Papa stesso a parlare di nuovo di fede adulta per spiegarne il significato originale, secondo il pensiero di colui che per primo ha usato questa espressione, l’apostolo San Paolo. La fede matura consiste nel coraggio di aderire a quanto la Chiesa insegna, anche quando questo va contro gli schemi del modo contemporaneo. Dopo aver criticato coloro in nome della loro autonomia e libertà di coscienza prendono della fede cristiana ciò che fa loro comodo e rigettano invece ciò che indispone, o comunque non è in sintonia con il modo di pensare che va per la maggiore, insomma vive un cristianesimo un po’ alla fai da te, il Papa ha aggiunto: “La fede adulta non si lascia trasportare qua e là da qualsiasi corrente. Essa s’oppone ai venti della moda. Sa che questi venti non sono il soffio dello Spirito Santo; sa che lo Spirito di Dio s’esprime e si manifesta nella comunione con Gesù Cristo”.

Se la riflessione si fermasse a questo punto, qualcuno potrebbe ridurre il problema della fede adulta ad una semplice questione morale di tipo generale. In qualsiasi situazione o ambito del vivere umano, a chiunque è sempre richiesto un minimo di coerenza. Continuando però nell’analisi del pensiero di San Paolo, Ratzinger evidenzia che l’interesse ultimo del cristiano e del suo pensare e vivere secondo la fede, non è il proprio bene personale, né tanto meno il solo bene della Chiesa, ma il tutto nella sua integrità, cioè l’universo intero e la sua trasformazione in Cristo. Insomma chi vive della vera fede, appunto di una fede adulta, contribuisce al vero progresso del mondo. Per dirla ancora con Benedetto XVI: “Dove aumenta la presenza di Cristo, là c’è il vero progresso del mondo. Là l’uomo diventa nuovo e così diventa nuovo il mondo”.

L’incidenza di una fede (o se si preferisce di una vita) cristiana veramente adulta o matura, che dir si voglia, non la si misura allora semplicemente sul piano della psicologia del singolo individuo, né tantomeno su quello della mera dimensione morale di una persona, ma ha che fare con la trasformazione in senso evangelico di tutto il mondo. Forse per questo, qualcuno ha detto: “Il genere umano vive grazie a pochi, se non ci fossero loro il mondo perirebbe” (Pseudo-Ruffino).

Don Marco Belladelli.

 

Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 07/07/09.

 


 

Caritas in Veritate

Dopo quasi due anni di attesa dalla sua annunciata pubblicazione, dopo consultazioni a livello mondiale e ripetute revisioni, problemi di traduzione in latino, dovuti ai neologismi e ai termini particolarmente complessi in uso oggi nel mondo finanziario, dopo la firma del Papa, apposta Lunedì 29 Giugno scorso, Martedì prossimo, 7 Luglio, avremo finalmente tra le mani la tanto attesa terza enciclica di Benedetto XVI sui temi socioeconomici, intitolata Caritas in Veritate. Come da antica consuetudine, vengono usate le prime due parole del testo ufficiale in latino. Si sa già che in prima battuta l’editrice Vaticana stamperà 150 mila copie. Il libretto sarà composto di 141 pagine, divise in 6 capitoli. Oltre all’edizione in italiano, sono previste traduzioni anche in inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese e cinese.

Per quanto riguarda il contenuto lo ha così sintetizzato lo stesso Ratzinger nell’Angelus di Domenica 28/06: “approfondire alcuni aspetti dello sviluppo integrale nella nostra epoca, alla luce della carità nella verità”. Sempre secondo lo stesso Pontefice, vengono ripresi temi già presenti nella 'Populorum progressio' di Paolo VI, pubblicata nel Marzo del 1967, oltre quarantadue anni fa. Diversi organi di stampa dicono che saranno affrontati anche altre materie, quali lo sviluppo dei popoli, la fratellanza, l'ambiente e la crisi economica.
Già il titolo è tutto un programma. Si tratta di una famosa affermazione di San Paolo nella lettera agli Efesini 4,15 e che il Papa ha recentemente commentato, nell’omelia di chiusura dell’Anno Paolino. A suo dire con questa espressione l’Apostolo descrive in maniera positiva la fede “veramente adulta”, nel senso di matura. Mentre il potere del male è la menzogna, “La verità sul mondo e su noi stessi si rende visibile quando guardiamo a Dio. E Dio si rende visibile a noi nel volto di Gesù Cristo. Guardando a Cristo riconosciamo un’ulteriore cosa: verità e carità sono inseparabili. In Dio, ambedue sono inscindibilmente una cosa sola: è proprio questa l’essenza di Dio. Per questo, per i cristiani verità e carità vanno insieme. La carità è la prova della verità. Sempre di nuovo dovremo essere misurati secondo questo criterio, che la verità diventi carità e la carità ci renda veritieri.”.

“Il Foglio”, quotidiano diretto da Giuliano Ferrara, sabato scorso ha pubblicato due paragrafi, i nn. 34 e 35. Per stuzzicare la vostra curiosità a leggerla integralmente, vi riassumo qui di seguito il loro contenuto.

Nel primo numero si considera la contraddizione antropologica dell’uomo moderno. Da una parte il suo essere “fatto per il dono, che ne esprime e attua la dimensione di trascendenza”, mentre dall’altra parte, la modernità lo ha “erroneamente convinto di essere il solo autore di se stesso, della sua vita e della società. E’ questa una presunzione, conseguente alla chiusura egoistica in se stesso”. L’uomo autosufficiente, e che si sente capace da solo di eliminare il male dalla storia, ha fatto coincidere la felicità e la salvezza con le forme materiali del benessere e con azioni di continuo riequilibrio sociale. Si prende ad esempio l’economia, la cui pretesa indipendenza da qualsiasi interferenza etica per moltiplicare in modo esponenziale la ricchezza, alla fine si è rivelato un abuso, che ha bruciato una quantità immensa di ricchezza e ha prodotto povertà. A questo punto segue l’esortazione a non spegnere la speranza cristiana nel cuore dell’uomo, perché non si tratta semplicemente di un bene spirituale. La Speranza è una risorsa sociale, che va messa al servizio dello sviluppo integrale dell’uomo, costruito giorno per giorno nella libertà e nella giustizia.

Nel secondo paragrafo si parla del libero mercato. Prima del mercato c’è un dato contesto sociale e politico di riferimento e c’è anche una intensa trama di relazioni interumane su cui esso stesso poggia. Come si è visto in questi ultimi tempi, “Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica”. Insomma, prima del mercato c’è l’uomo, e la bontà del mercato, dipende dalla sua onestà e dal suo desiderio di giustizia.

Don Marco Belladelli.

 

Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 14/07/09.


 

L’AFRICA,

CHE NON INTERESSA NIENTE

Forse perché assorbiti dalle questioni interne, dal lodo Alfano al congresso del PD, o dai grandi temi internazionali, o forse più probabilmente perché l’Africa interessa poco e niente, sta di fatto che ad una settimana dalla sua apertura la stampa ha dedicato scarsissima attenzione alla seconda assemblea speciale del Sinodo per l’Africa, aperto solennemente in San Pietro da Benedetto XVI domenica 4 Ottobre. A quindici anni di distanza dal primo, svoltosi sempre a Roma nel 1994, per il secondo Sinodo si è scelto di confrontarsi sul tema: “La Chiesa in Africa a servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace. ‘Voi siete il sale della terra … Voi siete la luce del mondo ’ (Mt 5,13.14)”.

Quando diciamo “Africa”, parliamo di un grande continente, ricchissimo di risorse naturali di ogni genere, dove vivono più di un miliardo di persone (a cui vanno aggiunti gli altri 200 milioni e oltre sparsi nel mondo), la maggior parte dei quali si trova in condizione di estrema povertà e miseria. Negli ultimi vent’anni si sono fatti passi avanti, come per esempio alcuni timidi segni di cultura democratica che va via, via affermandosi a livello politico e istituzionale e una crescita del PIL che in media si aggira attorno al 5% annuo, con alcuni paesi arrivati fino al 20%. Accanto a questi fermenti positivi, permangono molti aspetti problematici, quando addirittura non si ha a che fare con situazioni che, invece di progredire, regrediscono senza soluzione di continuità. A cominciare dalla corruzione, che scoraggia gli investimenti e l’iniziativa imprenditoriale, per continuare con lo stravolgimento di alcuni valori tradizionali della società africana, quali la famiglia, la vita sociale rurale, il rapporto tra le generazioni, in particolare il ruolo degli anziani, e il sistema socio-economico. Non vanno dimenticati i numerosi conflitti locali e regionali, dove si massacrano migliaia di persone innocenti, quando addirittura non si trasformano in veri e propri genocidi, come è già accaduto nel 1994 in Rwanda e come si è rischiato si ripetesse pure in Congo.  

Molto spesso poi, la buona volontà di chi vuole combattere povertà, miseria e le gravi condizioni di salute delle popolazioni, si scontra con il cattivo funzionamento degli apparati statali, tanto che i numerosi e lucrosi (per l’Africa!) programmi di aiuto economico-sociale promossi dalle istituzioni finanziarie internazionali si sono spesso rivelati funesti. L’imposizione dall’esterno indebolisce sempre più la fragile economia africana, contribuendo invece ad aumentare il degrado sociale, con relativo aumento delle criminalità, l’allargamento del divario tra ricchi e poveri, l’esodo dalle zone rurali e la sovrappopolazione delle città. In Africa manca ancora un mercato interno, che favorisca le produzioni locali ed eviti che i prezzi dei prodotti siano fissati all’estero. A tutto questo poi si aggiungono le emergenze sanitarie, prima fra tutte l’AIDS, che continua a mietere vittime, sia tra la popolazione adulta che tra i giovani, e il problema delle migrazioni clandestine verso l’Europa, soprattutto di questi ultimi.

Nel dibattito in corso al Sinodo, al quale partecipa personalmente anche il Papa, compatibilmente con tutti i suoi impegni, i Vescovi africani hanno coraggiosamente denunciato il neocolonialismo delle multinazionali, che continuano a sfruttare le immense risorse naturali, devastando impunemente territorio e tessuto sociale, e la nefasta opera di molte ONG che, dietro la facciata degli aiuti internazionali, promuovono politiche e ideologie di assoluta dipendenza all’occidente. Non va poi dimenticato il fondamentalismo che, radicalizzando le differenze etniche, tribali, religiose e culturali, è una delle prime cause di sanguinosi e insanabili conflitti.

E’ giunto anche per l’Africa il tempo del riscatto da queste catene, per diventare protagonista di crescita e sviluppo, in consonanza con la propria identità e cultura. E la Chiesa, in quanto portatrice di una specifica prassi di trasformazione sociale, fondata sul Vangelo e sul suo messaggio di giustizia e di pace, non se ne disinteressa, anzi è presente per farsi carico dei problemi e proporsi come uno dei principali attori sociali, capace di favorire riconciliazione e promozione umana.

Don Marco Belladelli.

 

Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 14/10/09.


Il papa a brescia, omaggio a paolo vi

Domenica 8 Novembre Benedetto XVI sarà a Brescia soprattutto per un omaggio al suo predecessore, Paolo VI. Dopo la solenne concelebrazione del mattino in città, nel pomeriggio il programma prevede l’arrivo a Concesio per la visita alla casa natale e alla Chiesa parrocchiale, dove è stato battezzato Papa Montini, e l’inaugurazione del nuovo Centro “Paolo VI”. Un omaggio che non ha precedenti, e altrettanto doveroso, quanto necessario, per dare il giusto risalto alla grandezza di una persona, Giovanni Battista Montini, e ad un pontificato, spesso sottovalutato per l’importanza e la rilevanza che ha avuto sia dentro che fuori la Chiesa.

Paolo VI sarà ricordato nei secoli come il Papa del Concilio Vaticano II. Di fronte allo smarrimento creatosi tra i Padri Conciliari per la morte di Giovanni XXIII, egli seppe sapientemente governare l’assemblea di tutti i Vescovi del mondo, nel suo momento cruciale, quando ci si apprestava ad affrontare i temi teologici fondamentali della divina rivelazione, della liturgia, della Chiesa e del suo rapporto con il mondo, conducendola a felice conclusione. La seconda caratteristica importante del suo pontificato sono stati i grandi viaggi apostolici, nei quali ha toccato tutti e cinque i continenti. Ha cominciato dalla Terra Santa, nel Gennaio del ’64, per poi continuare con l’India, la Colombia, gli Stati Uniti, l’Uganda, per finire con le Filippine e varie tappe in Oceania, da Sidney, alle Isole di Samoa, nel 1970. Lui stesso, spiegando il significato della scelta del nome, aveva sottolineato che era ormai giunto il tempo di imitare l’Apostolo delle genti nel ripercorrere le vie del mondo intero per annunciare di nuovo il Vangelo a tutti gli uomini. Un ricordo personale: ero ancora un bambino, quando con grande emozione assistetti per televisione al ritorno di Paolo VI dalla Palestina. Percorse tutto la strada, dall’aeroporto fino a San Pietro, in piedi sull’auto scoperta per salutare la folla esultante che gli faceva ala lungo tutto il tragitto. Non c’era un metro deserto. Papa Montini è stato poi l’uomo del dialogo dentro e fuori la Chiesa. A questo tema e a questo metodo di rapporto con gli altri ha dedicato un un’ampia parte della sua prima enciclica, Ecclesiam Suam. Tra i risultati più sorprendenti del suo dialogare va ricordato prima di tutto lo storico abbraccio con il Patriarca di Costantinopoli, Atenagora, dopo più di novecento anni in cui le due Chiese, quella d’Occidente e quella d’Oriente, si erano ignorate. In tempi in cui il mondo era ancora prigioniero delle ideologie, della guerra fredda e diviso in due blocchi contrapposti, e nello stesso tempo era turbato dalla contestazione e dal quel fenomeno ancora più travolgente della secolarizzazione, egli ha cercato il dialogo con tutti, credenti e non credenti, fino all’ultimo. Anche con gli uomini delle Brigate Rosse, in occasione del tragico epilogo del sequestro Moro. Paolo VI poi ha il merito di aver scelto i tre suoi successori. E’ stato lui infatti ad elevare alla dignità cardinalizia Luciani, Wojtyla e Ratzinger.

Ma la ragione principale per cui Benedetto XVI si sente debitore nei confronti Paolo VI è la profonda sintonia spirituale e culturale, che esiste tra i due, a cominciare dal modo d’intendere ed interpretare il Concilio Vaticano II. Il criterio del rinnovamento nella continuità, assunto da Ratzinger come punto fermo del suo pontificato, era già stato fissato con chiarezza da Montini. Una sintonia che ha trovato una importante conferma nell’ultima enciclica di Benedetto XVI, la Caritas in Veritate, dove viene esplicitamente richiamata e riassunta la Populorum Progressio di Paolo VI, e se ne sviluppa il pensiero e le prospettive, tenendo conto dei cambiamenti intervenuti nel corso degli ultimi quarant’anni.

Papa Ratzinger non ha mai mancato occasione per manifestare grande affetto e stima per Paolo VI. Basta ricordare quanto disse lo scorso anno, nel trentesimo anniversario della sua morte, quando definì “sovrumano” il merito per il buon esito del Concilio ed evidenziò “le sue spiccate doti di intelligenza e il suo amore appassionato alla Chiesa ed all’uomo” come un dono di Dio fatto alla Chiesa e al mondo.

Don Marco Belladelli

 

Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 10/11/09.

 

 


 

Una breccia in un altro muro secolare

Lunedì 9 Novembre 2009. Mentre a Berlino si celebrava in modo fastoso il ventennale della caduta del famoso muro, che per ventotto anni ha diviso in due la capitale tedesca, e la riunificazione della Germania, a Roma è stata finalmente pubblicata la costituzione apostolica Anglicanorum coetibus. Finalmente perché, annunciata una ventina di giorni prima dal cardinal Levada, presidente della Congregazione per la Dottrina della fede (l’ex Sant’Ufficio), tra una smentita e l’altra delle varie anticipazioni di stampa, sembrava essersi persa nei meandri della Curia romana. E’ il documento con cui Papa Benedetto XVI apre le porte ai cristiani anglicani, che da anni chiedono di essere accolti nella piena comunione con la Chiesa di Roma. Sono circa mezzo milione di persone, sparse in tutto il mondo, dall’Inghilterra all’Australia, dall’Africa all’America, aderenti alla cosiddetta Comunione Tradizionale Anglicana, che non si riconoscono più nella loro Chiesa, per le clamorose novità introdotte in questi ultimi tempi, come la concessione del sacerdozio alle donne, l’ammissione delle stesse e di preti dichiaratamente omosessuali all’episcopato. 

Una significativa breccia in un muro eretto quasi cinque secoli fa. Era infatti il 1539 quando Enrico VIII, per poter sposare Anna Bolena, faceva votare al Parlamento inglese “l’Atto di supremazia”, con cui nasceva la Chiesa Anglicana, indipendente da Roma. Dietro ai motivi personali, a spingere per la separazione da Roma c’erano forti interessi politici ed economici. La rottura fu accompagnata da un bagno di sangue tra i dignitari, il clero e i religiosi che si rifiutavano di assecondare la decisione del re. Per convincere il popolo invece, fu organizzata una campagna mediatica ‘ante litteram’, con la massiccia diffusione di opuscoli anticattolici e una capillare predicazione antipapista in tutto il territorio del regno, tanto da originare una diffidenza viscerale, ancora oggi presente in Inghilterra, per tutto quello che viene da Roma, come si è visto anche recentemente nelle reazioni un po’ sarcastiche di certi ambienti inglesi all’annunciata prossima visita del Papa in quel paese. 

In analogia con quanto oggi la Chiesa prevede per i militari, con questo documento vengono istituiti degli ‘ordinariati personali’, cioè l’equivalente delle nostre diocesi, non però legate al territorio, ma alle persone, che vi aderiscono con una iscrizione. Per valorizzare una tradizione di quasi cinque secoli, agli Anglicani viene pure concesso di poter continuare ad usare i propri libri liturgici, senza per questo che si possa parlare di un rito anglicano. Ma le due novità più sorprendenti per la cattolicità è la scelta dei Vescovi da parte della comunità, attraverso l’indicazione di una terna di nomi al Papa, e la possibilità di ordinare preti (ipoteticamente anche Vescovi) uomini sposati.

Anche questa apertura manifesta quanto Benedetto XVI abbia a cuore l’unità dei credenti. Come ebbe ha ricordare il Marzo scorso, nella lettera inviata a tutti i Vescovi del mondo in occasione della rovente polemica per la riduzione della scomunica a quattro Vescovi del gruppo di monsignor Lefebvre, per la Chiesa di oggi e per il Successore di Pietro si tratta di una priorità, rispetto a qualsiasi altro impegno. Altro aspetto importante da evidenziare è il positivo esito dell’impegno ecumenico, frutto più che del dialogo fra le diverse Comunità ecclesiali, di un riconoscimento che la Chiesa di Roma è la fedele custode di quel bagaglio di verità e di vita, tramandateci dagli stessi Apostoli.

Anche se per questo avvenimento non c’è stata l’enfasi mediatica come per il muro di Berlino, non per questo è meno rilevante per l’oggi e meno significativo per la storia. Di fatto viene superata una rottura protrattasi per secoli e l’unità della Chiesa non è un valore meramente ecclesiale, ma un contributo importante per l’unione di tutta la famiglia umana e la pacifica convivenza di tutti gli uomini.

Don Marco Belladelli.

 

Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 17/11/09.

 


 

Auguri di “Buon Anno!”,fuori tempo massimo.

Ho sentito dire che  fino a metà Gennaio si è ancora in tempo per fare gli auguri di “Buon Anno!”. A chi avrà la pazienza di leggermi, propongo alcuni pensieri tratti dalle omelie e dalle riflessioni di Benedetto XVI in occasione delle celebrazioni natalizie appena trascorse, con la speranza che possano risultare ben auguranti. Comincio dall’ 8/12 scorso quando, in occasione dell’annuale omaggio alla Madonna in piazza di Spagna, rivolgendosi alla città che ha bisogno di Maria, perché le ricorda che Dio c’è, parlò degli “invisibili”, cioè di coloro che balzano improvvisamente all’attenzione delle cronache, vengono sfruttati finché suscitano morbose curiosità e poi dimenticati. Si tratta, ha osservato il Papa, di un meccanismo perverso di cui si servono i mass media per farci sentire “spettatori” , mentre “siamo tutti ‘attori’ e, nel male come nel bene, il nostro comportamento ha un influsso sugli altri”. In quei giorni sui giornali ancora si parlava della morte del transessuale Brenda e del caso Marrazzo. Tanto per ricordarci che tutto quello che facciamo, in privato o in pubblico, ha sempre delle conseguenze su gli altri, soprattutto in senso umano e morale. E non soltanto per la politica.

Nel messaggio Urbi et Orbi del giorno di Natale, prendendo spunto da una preghiera della liturgia: “Oggi su di noi splenderà la luce, perché è nato per noi il Signore”, ha detto che quel “noi”, ieri insignificante presenza di uomini e donne alla grotta di Betlemme, è diventato il “noi” della Chiesa, cioè di tutti coloro che accogliendo l’amore di Dio fanno risplendere anche oggi sul mondo la luce di Cristo. Ha poi ricordato ad una, ad una, tutte quelle situazioni nelle quali la Chiesa, anche se perseguitata, è minoranza viva, dall’Iraq al Congo, dalla Corea all’America latina, dall’Europa all’America del nord, per sottolineare che qualunque presenza cristiana nel mondo, anche la più umile, nascosta e sofferente, non è, e non sarà mai, né casuale, né insignificante. 

Un ultimo spunto dall’omelia dell’Epifania. Soffermandosi su Erode e i Sacerdoti, che danno indicazioni esatte ai Re Magi, ma si guardano bene dal muoversi di un millimetro, si è chiesto: “Qual è la ragione per cui alcuni vedono e trovano e altri no? Che cosa apre gli occhi e il cuore? Che cosa manca a coloro che restano indifferenti, a coloro che indicano la strada ma non si muovono?”.  E’ una domanda che spesso mi faccio anch’io, quando sono costretto a fare i conti con certe prese di posizioni pretestuose e ingiustificate rispetto al palesemente evidente. Il Papa ha elencato tutta una serie di ragioni: “la troppa sicurezza in se stessi, la pretesa di conoscere perfettamente la realtà, la presunzione di avere già formulato un giudizio definitivo sulle cose… Alla fine - ha aggiunto Benedetto XVI - quello che manca è l'umiltà autentica, che sa sottomettersi a ciò che è più grande, ma anche il coraggio autentico, che porta a credere a ciò che è veramente grande, anche se si manifesta in un Bambino inerme.E oggi mancano sia umiltà che coraggio, mentre abbondano superbia e viltà. Ecco perché ci si sente più soli e impauriti.

Auguro a voi e a me un 2010 con un po’ più di responsabilità per noi stessi e per gli altri, con un po’ più di umiltà e coraggio, e, pensando a chi ogni giorno crede a rischio della propria vita, anche con un po’ più di cristiana serietà.  

Don Marco Belladelli.

 

Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 12/01/2010.


Il ‘Giorno della Memoria’, la Chiesa, e gli Ebrei.

Oggi, si celebra il "Giorno della memoria", in ricordo di tutte le vittime di quei crimini, specialmente dell’annientamento pianificato degli Ebrei, e in onore di quanti, a rischio della propria vita, hanno protetto i perseguitati, opponendosi alla follia omicida. Con animo commosso pensiamo alle innumerevoli vittime di un cieco odio razziale e religioso, che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte in quei luoghi aberranti e disumani”. Dopo queste inequivocabili parole di partecipazione alle sofferenze della shoah e di condanna per chi le ha causate, pronunciate all’udienza di mercoledì 27/01, giorno della memoria, mi pare che i problemi esistenti tra Benedetto XVI e gli Ebrei su questo tema siano chiariti e superati una volta per sempre. Superati anche rispetto a tutte quelle speculazioni che fino ad oggi hanno provocato  sospetti e diffidenze, smascherate e denunciate come assolutamente gratuite ed infondate in un fermo articolo di Bernard-Henri Levy, pubblicato il 20/01 scorso su Il Corriere della Sera

Alla fine, Benedetto XVI passerà alla storia come il Papa che ha visitato più sinagoghe di tutti i suoi predecessori: Colonia nel 2005, New York nel 2008 e Roma il 17 Gennaio scorso, senza contare il viaggio del Maggio 2009 in Israele. Ma per avere un quadro preciso dello stato dei rapporti tra la Chiesa e gli Ebrei, è bene rifarsi al recente incontro di Papa Ratzinger con la Comunità ebraica di Roma, quando entrambe le parti  hanno manifestato i loro punti di vista, nel rispetto reciproco, pari dignità, senza reticenze e falsi pudori. Ha cominciato il Rabbino capo, Riccardo Di Segni, che evocando l’esperienza biblica della fraternità, ha detto: “c’è da chiedersi sinceramente a che punto siamo di questo percorso e quanto ci separa ancora dal recupero di un rapporto autentico di fratellanza e comprensione”. Ha poi indicato due ambiti entro i quali è possibile fin da ora l’incontro e la collaborazione tra Ebrei e Cristiani, quello dell’emergenza ambientale e quello del “vivere la propria religione con onestà e umiltà, come potente strumento di crescita e promozione umana, senza aggressività, senza strumentalizzazione politica, senza farne strumento di odio, di esclusione e di morte”. Il Papa dal canto suo, riprendendo la preghiera di Giovanni Paolo II al muro del pianto di Gerusalemme, ha di nuovo condannato il nazismo che, insieme con il popolo ebraico, voleva uccidere Dio stesso, e ha chiesto ancora perdono per tutti i cristiani che si sono associati a quei crimini, affinché “Possano queste piaghe essere sanate per sempre!”. Ha poi indicato “la centralità del Decalogo come comune messaggio etico di valore perenne per Israele, la Chiesa, i non credenti e l’intera umanità”, quale vero punto  d’incontro e fonte di innumerevoli implicanze.

La cordialità e la franchezza del dialogo non hanno impedito di fare spazio anche alle diversità, orgogliosamente affermate, e alle questioni controverse, neppure queste passate sotto silenzio, come per esempio la pari dignità da sempre rivendicata e acquistata dagli Ebrei soltanto con l’avvento del Regno d’Italia, i silenzi di Pio XII e il diritto all’esistenza dello Stato d’Israele, come compimento delle antiche promesse, prima ancora che frutto delle garanzie del diritto internazionale. Benedetto XVI ha risposto auspicando che nello Stato d’Israele “tutti percorrano umilmente il cammino della giustizia e della compassione”, come a sottolineare che questa virtù e questo sentimento là dovrebbero essere più presenti e praticati.

Per ora siamo arrivati fin qui, in attesa del prossimo round, fissato per  l’Ottobre prossimo, quando a Roma si svolgerà il Sinodo speciale per le Chiese del Medio Oriente. 

Don Marco Belladelli

 

 

Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 02/02/10.


 

La Chiesa, oltre lo scandalo della pedofilia.

Gli aggettivi usati dai commentatori per definire la positiva accoglienza da parte dell'opinione pubblica della Lettera ai Cristiani d’Irlanda del Papa si sprecano: nobile, coraggiosa, rigorosa, chiara. E chi più ne ha, più ne metta. Qualcuno, colpito dai toni e dai modi con cui Benedetto XVI affronta la spinosa questione dei casi di pedofilia e la iniqua reticenza delle autorità ecclesiastiche nel non perseguire in modo adeguato i colpevoli, azzarda addirittura il più alto e autorevole dei paragoni possibili, le Lettere di San Paolo, quando nei suoi scritti l’Apostolo interviene per dirimere questioni pratiche dalle conseguenze laceranti nella vita delle Comunità cristiane da lui fondate (vedi per esempio 1Cor. 5,1ss).

Lo schema seguito dal Santo Padre nel suo argomentare mi ha invece ricordato gli imperativi con cui lo stesso Signore Gesù in persona, nelle famose lettere alle sette Chiese dell’Apocalisse invita i cristiani di quelle Comunità alla conversione: “Ricorda dunque da dove sei caduto, ravvediti e compi le opere di prima” (Ap. 2,5). Infatti, dopo aver espresso il suo sgomento, la sua riprovazione e il senso di tradimento provato per quanto successo e per come è stato gestito il problema, Benedetto XVI evoca la gloriosa storia della Chiesa d’Irlanda, ricordando soprattutto i suoi grandi esempi di santità, di generosità e di eroicità, a cominciare dal grande vescovo, evangelizzatore dell’Europa, san Colombano, fino ai giorni nostri. Segue quindi un duro monito al ravvedimento, nel quale affronta i vari aspetti della situazione che si è venuta a creare, secondo precisi criteri di giustizia, già presenti nelle norme canoniche vigenti, a cui era doveroso far riferimento, per ovviare al propagarsi e all’aggravarsi delle dimensioni del problema. Nello stesso tempo si rivolge a tutti coloro che sono direttamente o indirettamente coinvolti, per offrire partecipazione, vicinanza spirituale e sostegno, prima di tutto alle vittime alle loro famiglie, ai consacrati colpevoli e ai vescovi, per proseguire poi con i genitori, i giovani, i sacerdoti, i religiosi e tutta la Chiesa d’Irlanda.

Fare giustizia è essenziale, ma da sola non basta. Bisogna, come dice l’Apocalisse, tornare ‘a compiere le opere di prima’, cioè conformare “la vita in modo sempre più vicino alla persona di Gesù Cristo”. Per questo il Papa propone una serie di iniziative concrete dalle quali tutta la Chiesa irlandese possa trarre grazie di guarigione per le ferite sofferte e rinascita. Le elenco di seguito: preghiera, penitenza, digiuno, lettura frequente della sacra Scrittura, frequenza ai sacramenti, adorazione eucaristica, esercizi spirituali. Secondo Benedetto XVI, per mezzo di esse sarà possibile riparare ai peccati commessi e rinnovarsi interiormente. In sostanza viene proposto un vero e proprio cammino di “Cristoterapia”, un percorso di guarigione incentrato sull’incontro con Gesù Cristo e sull’accoglienza della potenza dello Spirito Santo, che parte dalla sfera più intima e più profonda della nostra persona, cioè quella spirituale, per coinvolgere poi progressivamente tutte le altre dimensioni dell’uomo, quella psichica e quella somatica. La novità sta nell’applicare questo modello terapeutico non a singole persone o a un gruppo particolare, ma a tutta una Chiesa nazionale, che ora ha bisogno di “una rinascita … nella pienezza della verità stessa di Dio, poiché è la verità che ci rende liberi (cfr Gv 8, 32).”.

La Lettera ai Cristiani d’Irlanda di Ratzinger apre un’altra questione che all’interno della Chiesa e tra gli addetti ai lavori (e non solo) è già diventata una vera e propria polemica infuocata, quando individua tra le cause del vergognoso scandalo in questione il fraintendimento del “programma di rinnovamento proposto dal Concilio Vaticano Secondo”. Un affermazione senza dubbio pesante e non casuale, che fa sorgere molte domande sul suo effettivo significato e su tutte le possibili conseguenze, che da quanto si può capire, per il Papa  non si limitano al pur grave problema della pedofilia.

Don Marco Belladelli.

 

 

Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 27/03/2010

 


 

Il Papa sotto attacco

Da quando è scoppiato lo scanalo della pedofilia, per il Papa non c’è stato un attimo di tregua. Non passa giorno che giornali e televisioni non si accaniscano su questi temi, sguazzandoci dentro e facendosi eco gli uni gli altri, per riproporre alla fine sempre la stessa minestra riscaldata.

Sorprende che si voglia coinvolgere a tutti i costi proprio colui che da sempre nella Chiesa su questo problema si è dichiarato per la tolleranza zero. E’ ormai provato che da Presidente della Congregazione per la Dottrina della Fede, Ratzinger fu osteggiato dall’inquisire potenti ecclesiastici, rivelatisi poi realmente colpevoli. E’ stato lui che, appena salito al soglio di Pietro, ha immediatamente ritirato fuori il processo contro il fondatore dei Legionari di Cristo, Maciel Marcial Degollado fino alla condanna dello stesso ad una rigida clausura, nel più assoluto isolamento, vita natural durante. E’ sempre lui che in occasione del suo viaggio negli Stati Uniti ha incontrato le vittime dei pedofili, le ha ascoltate, si è scusato con loro, ha pregato con loro e per loro. La stessa cosa è avvenuta in Australia. Quello poi che è successo recentemente in Irlanda e Germania è cronaca nota a tutti. 

Sorprende ancor di più, che sia uno dei più importanti giornali del mondo ad attaccare il Papa in modo così veemente. Sì, proprio il grande New York Times, che pur di coinvolgere Benedetto XVI, ha tirato fuori una vecchia storia di oltre vent’anni fa, nella quale il prete coinvolto, stranamente assolto dall’autorità civile, era stato invece perseguito da quella ecclesiastica, fino alla sua morte. Tra l’altro, il quotidiano americano fonda la propria accusa su un documento della Congregazione della fede del 1998, tradotto dall’italiano in inglese alla carlona, tanto da prendere lucciole per lanterne, come ha dimostrato martedì 6 Aprile Rodari su Il Foglio.

Nella Chiesa non sono mancate le reazioni in difesa del Papa. Oltre alle note ufficiali del Direttore della sala stampa vaticana, dobbiamo registrare le affermazioni di padre Cantalamessa, predicatore della casa Pontificia, durante la celebrazione del Venerdì santo, con l’immancabile seguito di polemiche, le dichiarazioni di solidarietà del cardinal Sodano all’inizio della S. Messa della Domenica di Pasqua e la lunga intervista rilasciata dallo stesso qualche giorno fa all’Osservatore romano.

A scanso di equivoci, l’ho già detto e mi ripeto: anche per un solo caso, la pedofilia non va mai né giustificata, né minimizzata, soprattutto quando si tratta di preti. Detto questo, rimane la domanda: perché tanto furore contro colui che più di ogni altro si è adoperato per estirpare questo male nella Chiesa? Tra i vari commentatori, il sociologo Massimo Introvigne parla di “un tipico esempio di panico morale”, cioè una amplificazione sistematica sia dei dati reali, sia della sua rappresentazione mediatica, sia delle sue conseguenze politiche. Vittorio Messori evidenzia invece il paradosso tra chi all’esterno lo accusa di non aver agito e chi all’interno di aver agito troppo, liquidando il tutto come “una ferocia giacobina” che lascia il tempo che trova e per la quale non bisogna prendersela più di tanto. Lucetta Scaraffia propende per dei veri e propri di attacchi politici. Insomma, una vendetta in piena regola contro colui che nei suoi cinque anni di pontificato non ha risparmiato niente a nessuno.

Forse la risposta più convincente l’ha fornita lo stesso Benedetto XVI quando nel suo recente Messaggio Urbi et Orbi di Pasqua, dice: “Anche ai nostri giorni l’umanità ha bisogno di un ‘esodo’, non di aggiustamenti superficiali, ma di una conversione spirituale e morale. Ha bisogno della salvezza del Vangelo, per uscire da una crisi che è profonda e come tale richiede cambiamenti profondi, a partire dalle coscienze.”.

Allora come si giustifica l’attacco al Papa? Come qualcosa di assolutamente irrilevante dal punto di vista etico e culturale, ma soltanto l’ennesimo polverone innalzato ad arte da chi ha più convenienza che nulla cambi.

Don Marco Belladelli.

 

 

Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 10/04/2010

 


 

Benedetto XVI compie cinque anni.

Lunedì 19 Aprile 2010 è quinto anniversario della elezione di Benedetto XVI.

Tra i vari commentatori c’è chi lo esalta e chi invece lo critica. Qualcuno, vittima del proprio infantilismo, non gli perdona ancora di essere tedesco e ironizza sul suo conto, ricorrendo agli stereotipi del panzercardinal e ad altre sciocchezze simili. Altri invece sono fortemente infastiditi dalla franchezza e dalla chiarezza, priva di  timori reverenziali verso chicchessia, con cui fin dall’inizio del suo pontificato ha additato pubblicamente i danni prodotti dal relativismo e dal soggettivismo culturale ed etico dei nostri tempi. E’ il caso, per esempio, della lobby degli omosessuali, che lo vedono come uno dei principali nemici alle loro conquiste di emancipazione culturale, sociale e politica, come l’attribuzione alle loro unioni degli stessi diritti riconosciuti alla famiglia naturale. Le grandi multinazionali, vere e proprie superpotenze economiche, considerano la sua autorità morale, universalmente riconosciuta, un ostacolo all’espansione della loro egemonia sovranazionale. I cosiddetti intellettuali di estrazione laica, sia di destra che di sinistra, gli rimproverano invece di non essere come Giovanni Paolo II.

Mai, come ai nostri giorni, gli uomini hanno avuto la memoria corta. Molti hanno dimenticato, e chi invece ancora se le ricorda, le ha rimosse perché oggi politicamente scorrette, le molte e pesanti critiche rivolte a Papa Woityla nei primi anni del suo pontificato. Basta rileggersi i giornali di quegli anni per ritrovare la contrarietà di certa opinione pubblica davanti ai suoi atteggiamenti e ai suoi insegnamenti. Qualcuno ricorderà l’irriguardoso Woitylaccio, uscito dalla bocca del futuro premio Oscar, Roberto Benigni, durante il festival di Sanremo del 1980, davanti a milioni di persone; e Il Pap’Occhio di Renzo Arbore, un film parodia, dove si irrideva Giovanni Paolo II alla stregua di un povero fanatico, malato di narcisismo. E’ abbastanza normale per un Papa nei primi anni di pontificato dover mettere in conto una certa ostilità.

Nonostante l’ostinazione maliziosa con cui lo si confronta con il suo predecessore, per sminuirne il carisma, a cinque anni dalla sua elezione, Benedetto XVI continua ad avere un seguito senza precedenti. Mi riferiscono alle decine di migliaia di persone che ogni settimana vengono a Roma per ascoltarlo alle udienze del Mercoledì, all’Angelus della Domenica, o in occasione delle sue varie comparse pubbliche. Ciò che negli ultimi anni è la norma, cioè di riempire nei mesi invernali oltre all’aula Paolo VI, anche la basilica di S. Pietro, in precedenza accadeva raramente. Per non parlare poi del successo delle sue pubblicazioni. Il suo libro, “Gesù di Nazareth”, è diventato un Best Seller in tutto il mondo. Le sue encicliche sono andate a ruba, contendendo i primi posti delle classifiche ad autori di grido. Per non parlare di altre pubblicazioni minori, come discorsi di viaggi e non, omelie e catechesi.

All’interno della Chiesa, come ha dichiarato lui stesso fin dall’inizio, suo impegno prioritario è dare compimento al processo di rinnovamento iniziato negli anni sessanta con il Concilio Vaticano II, per rimediare a quelli che egli stesso ha definito i “fraintendimenti”, diventati nel tempo causa di abusi, a volte addirittura di veri e propri scandali, tra coloro che hanno interpretato questo avvenimento non nel segno della continuità, ma della rottura. Un altro aspetto a cui si sta dedicando con altrettanto fervore è l’ecumenismo, per riportare quanto prima tutte Chiese a quell’unità che ha caratterizzato i primi mille anni di storia del Cristianesimo. Mai, come negli ultimi cinque anni, i rapporti, soprattutto con gli Ortodossi, sono stati tanto frequenti e fraterni. Parallelamente al dialogo ecumenico, si sono intensificati anche le occasioni di incontro e di confronto con i rappresentati delle altre religioni, in particolare con gli Ebrei e i Mussulmani. Per Benedetto XVI il dialogo interreligioso è la via privilegiata per rafforzare nella Comunità internazionale le ragioni della pace, sempre troppo deboli, rispetto agli interessi che innescano gli ancor troppo numerosi conflitti armati, presenti oggi nel mondo. Ratzinger verrà anche ricordato come il Papa della “ragione”. Per ovviare alla confusione causata dalle ideologie e dal moltiplicarsi di mode di pensiero, ha posto al centro del dibattito culturale il problema della razionalità, come misura di un vero umanesimo, su cui costruire le basi della speranza per il futuro dell’umanità.

Se qualcuno non se ne fosse ancora accorto, stiamo vivendo una altra grande pagina di storia che si integra perfettamente con quella, certamente straordinaria, che si è appena conclusa con Giovanni Paolo II.

Don Marco Belladelli.

 

 

Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 21/04/2010

 


 

Benedetto XVI a Fatima   

Benedetto XVI è il terzo Papa che si reca in pellegrinaggio a Fatima e che si confronta con i tre famosi segreti dalla rilevanza intrigante ed inquietante non soltanto dal punto di vista religioso, ma anche da quello politico. Quando la Madonna ha parlato di guerre che finivano, di altre ancor più terribili che sarebbero seguite, di nazioni da consacrare al suo Cuore Immacolato, per rimediare ai danni che avrebbero causato all’umanità intera, e del martirio di un Papa in un contesto mondiale di distruzione e di morte, significa, come si usa dire oggi, che è scesa in campo in prima persona per dire la sua su come vanno e su come dovrebbero andare le cose nel mondo.

Ratzinger ha definito le apparizioni mariane un “impulso” datoci direttamente da Dio per accogliere e vivere meglio quanto il Signore Gesù ci ha già insegnato nel Vangelo. A chi gli chiedeva in particolare del significato e dell’interpretazione del terzo segreto, reso pubblico soltanto nel 2000, in occasione del Grande Giubileo e della beatificazione di due pastorelli veggenti, Giacinta e Francesco, ha risposto che la visione della grande sofferenza del Papa, riconosciuta in prima istanza già realizzatasi ed esaurita nell’attentato a Giovanni Paolo II, riguarda invece tutto il futuro della Chiesa. Ma quello che ancor più colpisce è quando afferma che queste sofferenze, prima ancora che dall’esterno, vengono dall’interno della Chiesa stessa. Nell’intervista concessa durante il viaggio di andata ha detto: “Anche questo si è sempre saputo, ma oggi lo vediamo in modo realmente terrificante: che la più grande persecuzione della Chiesa non viene dai nemici fuori, ma nasce dal peccato nella Chiesa e che la Chiesa quindi ha profondo bisogno di ri-imparare la penitenza, di accettare la purificazione, di imparare da una parte il perdono, ma anche la necessità della giustizia”.

Dopo queste affermazioni, che hanno trovato conferma anche nelle omelie papali, durate le varie celebrazioni che si sono svolte nel corso del recente pellegrinaggio, è necessario rifare il punto sul messaggio di Fatima. Contrariamente a quanto si era detto dieci anni fa, quando fu pubblicato il testo del terzo segreto, bisogna rilevare che esso non si è ancora pienamente realizzato, ma che il suo compimento riguarda sia il nostro presente che il futuro prossimo venturo. Per la Chiesa (e per tutta l’umanità nel suo insieme) si preannunciano quindi tempi di sofferenza. Ma la cosa più sorprendente è sentire un Papa indicare nel peccato stesso della Chiesa la causa prima di questa sofferenza e il nemico principale da sconfiggere, attraverso un cammino di penitenza, di purificazione, di perdono e anche di giustizia. Ciò che più preoccupa il Papa non sono tanto le cose più o meno drammatiche che devono accadere, quanto piuttosto la resistenza degli stessi  credenti e praticanti, a cominciare da frati, suore, preti e vescovi, ad accettare questo “profondo bisogno” di sottomettersi ad un regime, non formale, ma sostanziale di penitenza di purificazione, di perdono e di giustizia. Detto in altri termini, se è vero che lo scandalo dei preti pedofili è un peccato così grave, da gridare vendetta al cospetto di Dio e va combattuto e superato a qualsiasi costo, ciò che ancor più spaventa il Santo Padre è quel sistema di potere, contro il quale a dovuto fare i conti lui stesso da cardinale (il caso dei Legionari di Cristo insegna!), sistema fatto di menzogne e di compiacenze, con cui si è impedito di accertare la verità dei fatti, si sono protetti i responsabili e si è permesso al “peccato” di proliferare impunemente, fino alle più alte gerarchie della Chiesa. Senza l’aiuto diretto dal cielo di Maria Santissima, saremmo davvero perduti. 

Don Marco Belladelli

 

 

 

Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 18-21/05/2010

 


 

L’omicidio di Mons. Padovese

e il viaggio del Papa a Cipro.

L’omicidio di S. Ecc. Mons. Luigi Padovese, dal 2004 Vicario Apostolico dell’Anatolia e Presidente della Conferenza episcopale turca, mi ha lasciato sgomento per la sua drammaticità ed assurdità. Fino ad oggi le fonti investigative addossano la responsabilità del gesto al giovane autista di origine armena e ai suoi problemi psichici. Pare che l’assassino abbia agito per impulso di una “rivelazione” che gli diceva di uccidere il Vescovo, da quattro anni anche suo datore di lavoro. Giovedì 3/06, verso le 13 ore locali, lo ha letteralmente sgozzato con un coltello nella sua casa di Iskanderun (l’antica Alessandretta), poco prima che mons. Padovese potesse raggiungere Cipro per partecipare alla visita del Papa in programma da Venerdì a Domenica.

Nonostante da più parti, secondo la ricostruzione a cui anch’io mi sono rifatto, si cerchi di negare il movente politico e/o religioso, ci troviamo davanti ad un grave episodio di sangue che evidenzia una situazione paradossale, contraddittoria e problematica del paese turco, a pochi nota. Mentre infatti nella costituzione si proclama l’uguaglianza di tutti i cittadini, di fatto non si riconoscono i diritti delle minoranze, in particolare dei cristiani, che sono costretti a vivere in una condizione di tollerata clandestinità, tanto che da una presenza di oltre due milioni prima del 1927, oggi se ne contano poche migliaia. L’ho potuto costatare personalmente lo scorso anno durante il pellegrinaggio sulle orme di San Paolo, in occasione dell’anno giubilare per i duemila anni dalla nascita dell’Apostolo. Chiese ridotte a museo, dove il culto era ammesso soltanto per la straordinarietà della circostanza. Le piccole comunità religiose presenti, tra l’altro di origine italiana, impedite a fare qualsiasi azione di annuncio, anche verso chi si accosta alla Chiesa liberamente, pena l’arresto e la detenzione. Oltre all’omicidio di don Andrea Santoro del Febbraio 2006, di cui ricordo ancora il commosso ed entusiastico saluto al Consiglio Presbiterale di Roma, prima di lasciare la capitale per quella nuova missione da dove non sarebbe più tornato, in questi anni in Turchia si sono registrati numerosi altri attentati a religiosi, per fortuna senza esiti mortali. In un intervista di qualche tempo fa alla televisione svizzera, lo stesso Vescovo ucciso denunciava apertamente ripetuti attentati alla sua persona, in forme e modi che all’apparenza avrebbero potuto sembrare dei banali incidenti, come per esempio essere investiti da una moto lanciata ad alta velocità, mentre si attraversa la strada. Tutti i responsabili dei vari delitti, da Alì Agca in poi, sono sempre stati classificati come degli “squilibrati”. Una formula che invece di rispondere, suscita ancor più interrogativi, dubbi e perplessità.

Mons. Padovese, da fine biblista e teologo, specializzato in patristica, qual era, negli anni del suo ministero in Anatolia aveva dedicato molto impegno al dialogo con il mondo mussulmano, rivendicando pure dal governo quella libertà di culto, ancor oggi negata ai cristiani turchi. Di fatto in tutto il Medio Oriente, la Chiesa ogni giorno deve fare i conti con dittature, discriminazioni e vere e proprie persecuzioni. Nell’ Istrumentum laboris che in questi giorni a Cipro il Papa consegnerà a tutti i Vescovi del Medio Oriente, in preparazione del prossimo Sinodo straordinario di questa regione, sono descritte quelle stesse situazioni, che fino ad oggi hanno significato per i cristiani esilio forzato e non di rado morti innocenti, come nel caso di don Santoro e di Mons. Padovese. Sono situazioni non più tollerabili, soprattutto da parte di quei governi che ambiscono vedere riconosciuta la loro certificata democraticità, per poter sedere a pieno titolo nel consesso dei cosiddetti Paesi Occidentali, dove i diritti della persona sono riconosciuti e tutelati.

Don Marco Belladelli.

 

 

Pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il 05/06/2010

 


 

Chiude l’ Anno sacerdotale

tra lo scandalo dei pedofili e i nuovi martiri

Roma si è riempita di preti più del solito. Oltre ai già numerosi residenti per motivo di ministero e di studio, in questi giorni si sono aggiunti quelli provenienti da tutto il mondo per la conclusione dell’ “Anno Sacerdotale”. In più di quindicimila hanno partecipato alla solenne celebrazione di Venerdì 11 Giugno, festa del Sacro Cuore, presieduta da Benedetto XVI.

Sono ormai più di quarant’anni che si parla di crisi del prete. Bastano due dati statistici per costatare le dimensioni e la gravità di una situazione che non ha precedenti nella storia della Chiesa. Dal 1970 ad oggi in Italia il clero secolare è diminuito del 30%, i religiosi addirittura di oltre il 40%, e l’età media dei preti si aggira ormai attorno ai 60 anni. Più che gli abbandoni, una percentuale tutto sommato irrilevante, ciò che ha pesato è stata la mancanza di nuove vocazioni. Due le cause principali: la secolarizzazione, che ha marginalizzato la religione e soprattutto ha culturalmente rinnegato la “sacralità” del vivere e dell’essere, e la difficoltà psicologica dei giovani (e non solo!) di oggi ad accettare uno stato di vita totalizzante. La prospettiva di un impegno “in eternum” oggi fa paura a tutti, sempre, comunque ed dovunque.

Il Papa ha voluto l’ “Anno sacerdotale” per sostenere e valorizzare il ministero del sacerdote, senza il quale non c’è futuro per la Chiesa. Ha scelto come modello da proporre a tutti preti del mondo il Santo Curato d’Ars, da cui si evince che il sacerdote a cui si pensa per l’oggi e per il domani è fondamentalmente identico a quello che ha caratterizzato gli ultimi cinque secoli di storia: uomo di Dio, fortemente radicato in Cristo, e uomo per gli altri, in una dedizione piena e totale per i fratelli a cui è inviato. Insomma un “alter  Christus”. Lo ha più volte ribadito durante tutto quest’anno. Basta rileggersi una catechesi a caso delle udienze del Mercoledì: “il sacerdote, rappresenta Cristo, l'Inviato del Padre, ne continua la sua missione, mediante la "parola" e il "sacramento", in questa totalità di corpo e anima, di segno e parola.” (Roma, 5/5/2010).

Lo scandalo dei preti pedofili, che già da alcuni anni aveva pesantemente ferito la Chiesa statunitense e quella australiana, nei mesi scorsi è scoppiato anche in Europa, coinvolgendo intere nazioni e funestando il sereno svolgimento dell’Anno sacerdotale. Una piaga che ha costretto lo stesso Ratzinger a scendere in campo in prima persona, per promuovere una linea di condotta, basata su trasparenza, giustizia e penitenza, unica via per stroncare radicalmente questa gravissima piaga dal vissuto della Chiesa.

A coronare di gloria la chiusura dell’Anno sacerdotale è venuto il martirio di un Vescovo. Ormai è provato che l’assassinio di Mons. Luigi Padovese non è stato causato dal raptus di un malato di mente, ma che si è trattato di una vera e propria esecuzione, secondo il rituale del fondamentalismo islamico, che prevede la decapitazione. Dopo l’orrendo delitto, il giovane assassino è salito sul tetto per gridare la sua vendetta contro il grande satana. Mons. Padovese era consapevole del rischio che correva, tanto che all’insaputa di tutti aveva annullato il viaggio a Cipro, per non mettere in pericolo la vita stessa del Santo Padre. Un avvenimento che non avremmo mai voluto accadesse. Nella sua drammaticità ci ricorda che nonostante i problemi e gli scandali, tra i nostri preti è più normale trovare persone capaci di quell’eroismo quotidiano, che a volte può comportare anche il sacrificio della propria vita.

Il sacerdozio è e sarà anche per il futuro un grande dono per chi lo riceve, per la Chiesa e per il mondo intero.

Don Marco Belladelli.

 

 

 

Pubblicato su LA VOCE DI MN il 12/06/10

 

 


 

europa, terra di missione.

Dopo i recenti scandali dei preti pedofili e della compromissione economico-politica di alti prelati della Curia romana, non manca occasione in cui, un po’ con provocatoria malizia e un po’ con senso di commiserazione, qualcuno mi chieda se non sia giunta anche per la Chiesa l’ora di adeguarsi ai tempi, giustificando cultura e comportamenti che ormai vanno per la maggiore, da cui nessuno sembra essere immune, se non a costo di imperdonabili ipocrisie o di una marginalità culturale e sociale per l’oggi e per il domani senza rimedio.

La risposta l’ha data il Papa stesso la sera del 28 Giugno scorso, quando durante l’omelia dei primi vespri per la festa dei Santi Apostoli, Pietro e Paolo, nella basilica di San Paolo fuori le mura, ha annunciato la creazione di un nuovo Organismo della Curia romana, un Pontifico Consiglio “con il compito precipuo di promuovere una rinnovata evangelizzazione nei Paesi dove è già risuonato il primo annuncio della fede e sono presenti Chiese di antica fondazione, ma che stanno vivendo una progressiva secolarizzazione della società e una sorta di "eclissi del senso di Dio", che costituiscono una sfida a trovare mezzi adeguati per riproporre la perenne verità del Vangelo di Cristo”. Prendendo spunto dal carisma di San Paolo, l’Apostolo delle genti che per primo predicò il Vangelo ai pagani, attraversando tutta l’Europa, dalla Grecia alla Spagna, Benedetto XVI ha incentrato la sua riflessione sulla vocazione missionaria della Chiesa, elemento tanto fondamentale, che se venisse meno sarebbe compromessa la sua stessa natura: “Guai a me se non annuncio il Vangelo! (1Cor 9,16)”. Evidenziata poi la spiccata sensibilità missionaria dei suoi predecessori, Paolo VI e Giovanni Paolo II, i Papi che hanno ripreso l’antica tradizione dei viaggi apostolici, ha sottolineato che il compito della Chiesa di portare il Vangelo nel mondo a tutti gli uomini è tutt’altro che compiuto. Del resto, una delle ragioni che ha indotto Giovanni XXIII a convocare il Concilio Vaticano II e che ha animato il lavoro dei Padri conciliari era quella di interrogarsi su come annunciare il Vangelo nel mondo contemporaneo. Anche se il Cristianesimo è la religione più diffusa, la maggioranza dei sei miliardi di donne e uomini che abitano il pianeta o non conoscono il Cristo o non l’hanno ancora accolto. In molti di coloro che l’hanno accolto manca convinzione e profondità di esperienza (i cosiddetti cristiani anagrafici). E nei Paesi di antica tradizione cristiana da alcuni secoli è in atto un processo di secolarizzazione che ha prodotto una grave crisi di fede e di appartenenza alla Chiesa.

Al mio interlocutore e a tutti coloro che dentro o fuori la Chiesa per affrontare la crisi che l’ha investita propendono per lo sconto sul prezzo della radicalità evangelica e la rassegnazione all’andazzo del mondo, rispondo con il Papa che la strada maestra da imboccare è quella della nuova evangelizzazione. “Nuova” non nei contenuti, ma nello slancio interiore, "nuova" nella ricerca di modalità che corrispondano alla forza dello Spirito Santo e siano adeguate ai tempi e alle situazioni; "nuova" perché necessaria anche in Paesi che hanno già ricevuto l’annuncio del Vangelo. Allora avanti con la missione, cominciando proprio da noi, dalla vecchia Europa. Detto questo, resta da fare i conti con coloro che a parole si dicono d’accordo con la nuova evangelizzazione, ma nei fatti continuano a pensare e ad agire in un modo che di missionario non ha proprio nulla. Sono i burocrati della Chiesa, una categoria ecclesiastica affermatasi soprattutto negli ultimi quarant’anni, i quali, forse senza accorgersi e loro malgrado, sono diventati più sensibili alle categorie proprie della sociologia, che non al genuino spirito evangelico.

Don Marco Belladelli.

 

 

 

Pubblicato su LA VOCE DI MN il    10/07/10

 

 


 

Il Papa in Inghilterra

Preceduta da polemiche infuocate, alla fine la visita di Benedetto XVI in Inghilterra ha finito per essere un successo su tutti i fronti.

Secondo un vecchio stereotipo, pare sia impossibile essere inglesi e nello stesso tempo cattolici. Un pregiudizio rispolverato per l’occasione dai giornali d’oltre Manica per buttare benzina sul fuoco contro la venuta del Papa, vuoi per i costi della visita, oppure per lo scandalo dalla pedofilia. Lo stesso Governo si è dovuto scusare per un documento riservato nel quale si suggeriva d’inserire nel programma papale la benedizione di un matrimonio gay e l’inaugurazione di una clinica per aborti. 

Ciò che ha fatto cambiare idea agli inglesi è l’aver visto il Papa di persona, i suoi gesti e i suoi comportamenti reali e l’averlo ascoltato per ciò che ha effettivamente da dire all’uomo e al mondo, e non per ciò che i giornali gli fanno dire. In una società ridondante di superficialità esistenziale e campione di secolarismo come quella inglese, le parole del Papa, piene di umanità e di spiritualità, hanno trovato il terreno favorevole, tanto da essere accolte per quel che effettivamente sono, cioè il messaggio di Speranza che, così come risuona nell’animo umano, può venire soltanto da Cristo.

Nell’udienza pubblica di mercoledì 22/09, il Papa stesso ha parlato di “un evento storico, che ha segnato una nuova importante fase nella lunga e complessa vicenda delle relazioni tra quelle popolazioni e la Santa Sede”, sottolineando di aver trovato sempre è dovunque, non soltanto rispetto e cortesia, ma soprattutto cuori aperti e desiderosi di ascoltarlo e di condividere la comune esperienza cristiana, in cui tutti i popoli europei sono da secoli radicati.

Se il momento più importante è stato senza dubbio la beatificazione a Birmingham del cardinal John Henry Newman, prete, prima anglicano e poi cattolico, e grande intellettuale che ha testimoniato come anche per l’uomo di oggi “la via della coscienza non è chiusura nel proprio "io", ma è apertura, conversione e obbedienza a Colui che è Via, Verità e Vita”, non bisogna dimenticare la veglia notturna che l’ha preceduta, in un clima di profondo raccoglimento spirituale; le migliaia di giovani che hanno partecipato alla S. Messa del Papa dall’esterno di Westminster con entusiasmo e trepidazione; il commosso incontro con le vittime dei preti pedofili, una vergogna che ha meritato alla Chiesa il giusto castigo, per la necessaria purificazione; i vari incontri ecumenici di dialogo e di preghiera con la Chiesa anglicana; e l’incontro con gli esponenti delle altre religioni, di cui la Gran Bretagna è diventata un punto di coagulo importante, ai quali ha chiesto di rispettare la libertà di ciascuno nella scelta della propria religione e l’applicazione nei rapporti comuni del principio di reciprocità. Da rileggere con attenzione e tutto da meditare è il discorso fatto da Benedetto XVI al Parlamento britannico, davanti alle personalità istituzionali, politiche, diplomatiche, accademiche, religiose, del mondo culturale e dell’imprenditoria, ai quali con la sua solita franchezza ha detto che nella società odierna non si può considerare la religione un problema da risolvere, ma “ma un fattore che contribuisce in modo vitale al cammino storico e al dibattito pubblico della nazione, in particolare nel richiamare l’importanza essenziale del fondamento etico per le scelte nei vari settori della vita sociale.”.

Pare che Lunedì mattina molti inglesi si siano risvegliati sofferenti della "post papal depression". Insomma, la grande insofferenza, alla fine si è trasformata in nostalgia per il Papa. 

Don Marco Belladelli.

 

 

 

 

Pubblicato su LA VOCE DI MN il    23/09/10

 


 

La Chiesa in Medio Oriente

Con l’Assemblea speciale per il Medio Oriente del Sinodo Dei Vescovi, chiusasi Domenica 24/10  con la solenne celebrazione eucaristica presieduta da Benedetto XVI in San Pietro a Roma, la Chiesa ha voluto dire la sua sui difficili  problemi che travagliano quella regione e riproporsi come presenza di pace per tutte le diverse componenti religiose, etniche, politiche e sociali presenti. Le affermazioni di alcuni Padri sinodali hanno però ugualmente suscitato la reazione scomposta del governo di Israele. All’ arcivescovo di Newton dei greco-melkiti (Stati Uniti d’America), mons. Cyrille Salim Bustros, che in riferimento alle ingiustizie perpetrate con l'occupazione dei territori palestinesi, ha affermato: “non ci si può basare sul tema della Terra Promessa per giustificare il ritorno degli ebrei in Israele e la espulsione dei palestinesi” alla luce di una distorta lettura della Bibbia, ha risposto il viceministro degli esteri israeliano, definendo il Sinodo un “forum per la propaganda araba, … ostaggio di una maggioranza anti-israeliana”. Davanti ad una reazione tanto aggressiva, Lunedì è dovuto intervenire il portavoce della sala stampa vaticana, Padre Lombardi, per dichiarare che chi vuole conoscere le posizioni emerse durante il Sinodo deve leggersi il messaggio finale, l’unico testo scritto ufficiale elaborato e presentato sabato, a conclusione dei lavori, nel quale sono sintetizzate le posizioni comuni a tutti i Padri sinodali. Ci sono poi punti di vista diversi, risuonati anche dentro l’assemblea sinodale, che vanno però considerati come posizioni personali dei singoli e non come la voce comune di tutto il Sinodo.  

Nei suoi duemila anni di storia, è la prima volta che la Chiesa si ferma a trattare con una così speciale attenzione le problematiche dei Cristiani che vivono in Medio Oriente. I Padri sinodali hanno riconosciuto che la prima sfida che oggi sta loro davanti, come del resto a qualsiasi altro cristiano nel mondo, è quella di accogliere la propria specifica vocazione e missione, quella cioè di accettare la nostra fede e di viverla in ogni ambito della vita, secondo quanto ci ha insegnato il Signore. Riguardo poi all’annoso e fino ad oggi insolubile conflitto israelo-palestinese, che crea continuamente insicurezza per tutti e per tutta l’area geografica, si è convenuto che l’unica risposta possibile non sono le scelte unilaterali di chicchessia, con cui si cerca di cambiare con la  forza lo status quo a proprio favore, ma la ricerca sincera di una pace giusta e definitiva. A proposito di conflitti, non si poteva dimenticare la straordinaria condizione di sofferenza vissuta dai Cristiani in Iraq. La Chiesa universale deve ad essi tutto il sostegno possibile e necessario, perché possano rimanere nelle loro città, dove vivono da millenni e dove si spera possano ritornare anche i milioni di profughi che la guerra ha costretto all’esilio. Il rapporto con il mondo mussulmano deve invece coniugarsi sulla base di due principi fondamentali. Ogni cristiano ha prima di tutto il dovere della carità verso chiunque e dovunque esso si trovi. L’altro principio che deve regolare la convivenza pacifica con i fedeli islamici è quello di contribuire al bene e al progresso della società nella quale si è inseriti.

Il messaggio del Sinodo si conclude con un appello alla comunione e alla testimonianza rivolto a tutti i Cristiani nel loro insieme e alle diverse categorie, nella loro specificità. La consapevolezza di non aver fatto fino ad oggi tutto quanto è nelle loro possibilità e secondo quanto il Signore ci ha insegnato, diventa per le Chiese mediorientali la spinta e l’orizzonte per una nuova missione di evangelizzazione, nella sicura speranza che soltanto nella fedeltà al messaggio di Cristo può venire pace e prosperità non soltanto per loro, ma per tutti coloro, Mussulmani ed Ebrei, che con i cristiani condividono in quei territori la vita di ogni giorno.

Don Marco Belladelli.

 

 

Pubblicato su LA VOCE DI MN il    27/10/10

 


 

Luce del Mondo, il libro-intervista al Papa

Esaurite le prime 50.000 copie, Venerdì 2/12 sarà pronta la prima ristampa del libro-intervista a Benedetto XVI, “Luce del Mondo”, pubblicato poco meno di una decina di giorni fa. Sono già stati firmati contratti con altre 10 case editrici in tutto il mondo e sono in preparazione traduzioni in diciotto lingue diverse.

E’ ormai un’abitudine per Joseph Ratzinger rilasciare periodicamente lunghe interviste ad un giornalista a lui vicino, che poi si trasformano in un bestseller mondiale, per il forte impatto che il suo pensiero ha, sia all’interno della Chiesa, sia sull’opinione pubblica in genere. Nel giro di poco più di un quarto di secolo è già la quarta volta. Ha cominciato nel 1984 con “Rapporto sulla fede”, assieme a Vittorio Messori. Sono seguiti nel 1996 “Il sale della terra e nel 2000 “Dio e il Mondo”, scritti invece dal giornalista bavarese Peter Seewald, lo stesso con cui si è intrattenuto a Castel Gandolfo per circa venti ore di colloquio nell’ultima settimana del Luglio scorso, preferito ad altri candidati per l’opportunità di poter parlare liberamente nella lingua madre.

Il risultato finale di queste conversazioni estive sono le 284 pagine del libro Luce del Mondo, nel quale il Papa risponde a più di 90 domande, distinte in tre ambiti, come indicato dal sottotitolo, “Il Papa, la Chiesa e i segni dei tempi”. Si comincia da ciò che ha fatto nei primi cinque anni del suo pontificato e da ciò che intende fare nel prossimo futuro. Si passa poi a considerare i problemi che riguardano la Chiesa al suo interno e nel suo rapporto con la società di oggi. E infine si parla del mondo, guardando soprattutto a ciò che l’attende, nella prospettiva di una Speranza per tutti. Questa volta però non è soltanto il Cardinal Prefetto della Congregazione della Fede a parlare, ma il Papa stesso in persona. Con tono confidenziale, in modo semplice, diretto e con un linguaggio alla portata di tutti, Benedetto XVI risponde a tutte le domande che gli sono rivolte, senza reticenze e censure, accettando pure il rischio di essere contraddetto da chiunque, come già scrisse nella prefazione del “Gesù di Nazaret”. Le anticipazioni di stampa, a cominciare dall’Osservatore Romano, hanno dato ampio risalto soprattutto a certi temi, sui quali l’opinione pubblica è particolarmente sensibile, quali il preservativo e l’AIDS, l’omosessualità, la pedofilia, Pio XII e gli ebrei, il sacerdozio femminile, il burka, e via dicendo. La ricerca del sensazionalismo alla fine distoglie dall’essenziale del libro, che mi pare molto ben espresso alle pagg. 99-100: “Credo che oggi … il nostro compito sia in primo luogo quello di mettere in luce la priorità di Dio. La cosa importante, oggi, è che si veda di nuovo che Dio c’è, che Dio ci riguarda e ci risponde”. Ci sono altri passaggi importanti a proposito della Chiesa e del rischio che oggi molti corrono, anche al suo interno, di equivocare sulla sua natura e finalità: “Siamo una comunità di persone che vive nella fede… non un gruppo di interesse, ma una comunità di persone libere che donano gratuitamente, e che attraversa nazioni e culture, il tempo e lo spazio. … Il compito non è creare un prodotto o avere successo nelle vendite … ma vivere la fede, annunciarla, e al tempo stesso mantenere un profondo rapporto con Cristo e con Dio Padre”. Il Papa auspica per il futuro un cristianesimo a cui si aderisce “per scelta convinta” e, anche se minoritario, capace di plasmare la società. Oltre al grande intellettuale, in “Luce del Mondo” incontriamo la mitezza dell’uomo Ratzinger, e soprattutto la carità del Pastore, che nulla tralascia pur di riportare all’ovile la pecora smarrita. Sì, perché al punto in cui siamo, per l’uomo d’oggi è molto meglio ritornare al Vangelo per capire quale sia la cosa giusta da fare, piuttosto che affidarsi unicamente della presunta onnipotenza della scienza.

Don Marco Belladelli.

 

 

Pubblicato su LA VOCE DI MN il 04/12/10.

 


 

guerra ai Cristiani  

Nel primo giorno del 2011 la notizia dell’attentato ad una chiesa copta di Alessandria d’Egitto in poche ore ha fatto il giro del mondo. Nella notte tra il 31 Dicembre e il 1 Gennaio, i fedeli davanti alla chiesa sono stati investiti da un’esplosione. Non si sa ancora se per una autobomba o per un kamikaze, che si è fatto esplodere. Il bilancio delle vittime conta 22 morti e 70 feriti, numeri senza precedenti per l’Egitto, dove i conflitti tra cristiani e musulmani non sono purtroppo una novità. L’anno scorso c’è stata una sparatoria nel sud del paese, all’uscita dalla S. Messa di mezzanotte, con perdite sempre da parte dei cristiani. Circa un mese fa invece i disordini sono scoppiati attorno al monastero di San Bishoi, per fortuna senza vittime. Alla fine è pure arrivata la rivendicazione di un gruppo terroristico vicino ad Al Qeada, nel quale si collega quanto accaduto ad Alessandria con le minacce lanciate contro i cristiani d’Egitto, dopo l’altro attentato ancor più sanguinoso del 31 Ottobre scorso alla cattedrale siro-cristiana della Madonna del Perpetuo Soccorso di Bagdad, dove ci sono stati 51 morti e molte decine di feriti. Se si ascoltano i racconti dei sopravvissuti a questo grave fatto di sangue c’è da rimanere senza fiato per la ferocia mostrata dai terroristi. Si trattava di un gruppo di ragazzi molto giovani, tra i 14 e i 15 anni, armati di mitra, granate e con una cintura esplosiva attorno alla vita. Sono entrati in chiesa poco dopo mezzogiorno, appena finita l’omelia, e hanno cominciato a sparare alla cieca. Hanno perfino sparato sulla croce, irridendo i presenti con parole che evocavano quelle degli aguzzini di Gesù sul Calvario: “Ditegli che venga a salvarvi!”. Non hanno avuto pietà per nessuno. Hanno sparato anche sui bambini, soltanto perché piangevano terrorizzati. Quando finalmente è arrivato l’esercito si sono fatti esplodere. Nell’ “Angelus” del 2 Gennaio, il Papa ha detto: “Questo vile gesto di morte  come quello di mettere bombe ora anche vicino alle case dei cristiani in Iraq per costringerli ad andarsene, offende Dio e l’umanità intera, che proprio ieri ha pregato per la pace e ha iniziato con speranza un nuovo anno”. Pur invitando i cristiani a resistere e a rispondere con la non violenza, Benedetto XVI ha parlato di una vera e propria “strategia di violenze che ha di mira i cristiani”. Insomma, siamo ormai alla “cristianofobia”, un neologismo nel quale sono compresi atteggiamenti di avversione che vanno dal fastidio all’emarginazione, dalla discriminazione alla persecuzione dei cristiani nel mondo. Oltre all’Egitto e all’Iraq, in questi ultimi mesi abbiamo registrato altri fatti di sangue contro i cristiani in Pakistan, nelle Filippine e in Nigeria. Il tutto nella quasi totale indifferenza dell’occidente cristiano. Non mi riferisco soltanto alle tiepide reazioni delle cancellerie governative, ma anche alle nostre Chiese locali. La CEI aveva indetto per domenica 21 Novembre una giornata di preghiera per i cristiani perseguitati nel mondo, che sì e no ha trovato eco sui settimanali diocesani. Tutte le volte che mi capita di parlare di questo tema, vedo i fedeli sgranare gli occhi sbalorditi. Come a dire: ma le persecuzioni non erano quelle dei cristiani mangiati dai leoni nel Colosseo? E non sono finite mille e settecento anni fa, con l’edito di Milano dell’imperatore Costantino del 313? Purtroppo no. Le persecuzioni attraversano tutta la storia della Chiesa. E il secolo del martirio per eccellenza è manco a dirlo il XX, quello che si è appena concluso, con 40 milioni di cristiani uccisi. A tutt’oggi tre su quattro perseguitati nel mondo sono cristiani, a motivo della loro fede. Ecco perché il Papa ha scelto come messaggio per la XXXIII Giornata Mondiale della Pace il tema della libertà religiosa, quale diritto fondamentale, da cui derivano tutti gli altri diritti umani. Per chi volesse saperne di più, invito a leggere “Guerra ai cristiani”, libro da cui ho preso in prestito il titolo. Pubblicato nel Giungo scorso dall’europarlamentare Mario Mauro, in collaborazione con Vittoria Venezia e Matteo Forte, edito da Lindau, sono descritte le difficili condizioni di vita di molte minoranze cristiane sparse per il mondo.

Conoscere le cose come stanno è il primo passo per uscire dall’indifferenza.

Don Marco Belladelli.

 

 

Pubblicato su LA VOCE DI MN il 04/01/11.

 


 

Il Gesù di Ratzinger, volume secondo.

Il 10 Marzo prossimo sarà in libreria il secondo volume su ‘Gesù di Nazaret’ scritto dal Papa. Avrà come sottotitolo “La settimana santa. Dall’ingresso in Gerusalemme alla risurrezione”. Pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana e distribuito in Italia dalla Rizzoli, in 380 pagine, divise in nove capitoli, Ratzinger ci spiega che cosa è accaduto in quella settimana tanto fondamentale per la fede cristiana, per la storia e per la salvezza di tutta l’umanità. Si comincia con l’analisi degli avvenimenti della Domenica delle palme, per finire con la risurrezione, passando attraverso tutti gli altri fatti fondamentali di quegli otto giorni: la cacciata dei mercanti dal tempio; i discorsi tenuti in quei giorni da Gesù sempre al tempio di Gerusalemme; la lavanda dei piedi; il problema del traditore; la preghiera sacerdotale; l’istituzione dell’Eucaristia; l’agonia nell’orto degli ulivi e l’arresto; il processo di Gesù; la crocifissione, la morte, la risurrezione e le apparizioni. Il libro si conclude con un’appendice dedicata all’ascensione. Papa Ratzinger aveva in mente di scrivere questo libro ancor prima di diventare Benedetto XVI. Lo aveva pensato come il frutto maturo della sua carriera accademica, inserendosi su un filone letterario, quello delle “Vita di Gesù”, iniziato alla fine del ‘700 con Lessing e che ha prodotto i suoi migliori risultati nella prima metà del secolo scorso con Karl Adam, Romano Guardini e il nostro Giovanni Papini. Il suo scopo però non è soltanto quello di emulare gli illustri intellettuali e teologi che lo hanno preceduto. A suo dire, a cominciare dagli anni ’50 in poi, con la diffusione dell’esegesi biblica secondo il cosiddetto metodo storico-critico, “la figura di Gesù, su cui poggia la fede, divenne sempre più nebulosa”, tanto da diventare agli occhi degli stessi credenti addirittura evanescente. Pur giudicando importante e decisivo il contributo offerto da tale metodo, Benedetto XVI afferma, senza ombra di dubbio, di aver più fiducia nel Gesù del Vangelo così com’è, senza troppe mediazioni, che non in quello degli esegeti e dei teologi: “Io ritengo che proprio questo Gesù - quello dei Vangeli – sia una figura sensata e convincente”. Insomma, quella che incontreremo nella lettura del libro, soprattutto in questo secondo volume, è il risultato della personale ricerca del volto del Signore fatta da Joseph Ratzinger, da sei anni 264° successore di san Pietro, come presupposto e incitamento autorevoli e garantiti della nostra personale ricerca. Per invogliare alla lettura, considerando l’emergenza morale in cui viviamo, concludo con un passo del 3° capitolo, dedicato al ‘mistero del traditore’.

Ciò che a Giuda è accaduto per Giovanni non è più psicologicamente spiegabile. È finito sotto il dominio di qualcun altro: chi rompe l’amicizia con Gesù, chi si scrolla di dosso il suo «dolce giogo», non giunge alla libertà, non diventa libero, ma diventa invece schiavo di altre potenze – o piuttosto: il fatto che egli tradisce questa amicizia deriva ormai dall’intervento di un altro potere, al quale si è aperto. Tuttavia, la luce che, provenendo da Gesù, era caduta nell’anima di Giuda, non si era spenta del tutto. C’è un primo passo verso la conversione:«Ho peccato», dice ai suoi committenti. Cerca di salvare Gesù e ridà il denaro (cfr Mt 27, 3ss). Tutto ciò che di puro e di grande aveva ricevuto da Gesù, rimaneva iscritto nella sua anima – non poteva dimenticarlo.
La seconda sua tragedia – dopo il tradimento – è che non riesce più a credere ad un perdono. Il suo pentimento diventa disperazione. Egli vede ormai solo se stesso e le sue tenebre, non vede più la luce di Gesù – quella luce che può illuminare e superare anche le tenebre. Ci fa così vedere il modo errato del pentimento: un pentimento che non riesce più a sperare, ma vede ormai solo il proprio buio, è distruttivo e non è un vero pentimento.
Fa parte del giusto pentimento la certezza della speranza – una certezza che nasce dalla fede nella potenza maggiore della Luce fattasi carne in Gesù.
Giovanni conclude il brano su Giuda in modo drammatico con le parole: «Egli, preso il boccone, subito uscì. Ed era notte» (13,30). Giuda esce fuori in un senso più profondo. Entra nella notte, va via dalla luce verso il buio; il «potere delle tenebre» lo ha afferrato (cfr Gv 3,19; Lc 22, 53).

Don Marco Belladelli.

 

 

Pubblicato su LA VOCE DI MN il       ../03/11.


 

Come rimediare alla crisi di fede secondo Ratzinger

Domenica 16 Ottobre in san Pietro, durante la celebrazione eucaristica a conclusione del convegno dei nuovi evangelizzatori, Benedetto XVI ha annunciato un “Anno della Fede”. Inizierà l’11 Ottobre 2012, cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II e ventesimo dalla promulgazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, e si concluderà Domenica 24 Novembre 2013, festa di Cristo Re. Dopo due encicliche, una sulla carità: “Deus Caritas Est”, e l’altra sulla speranza: “Spe Salvi”, c’era d’attendersi un nuovo autorevole intervento del Papa dedicato alla fede, per completare il discorso sulle tre virtù teologali. Nella Lettera d’indizione sono spiegate le ragioni e gli scopi dell’iniziativa. Facendo propria un’espressione degli Atti degli Apostoli, il Papa presenta la fede come una “porta” che introduce alla comunione con Dio, il Dio trinitario di Gesù, e come un cammino che dura tutta la vita. Benedetto XVI ha posto la riscoperta della fede e la sua gioiosa testimonianza tra le priorità del suo pontificato. In questi tredici mesi la Chiesa sarà chiamata a riscoprire la propria fede e ad illustrata ai fedeli come forza e bellezza di vita. Attraverso la pubblica professione nelle Cattedrali, nelle chiese, nelle proprie case e nella società, i credenti saranno resi più consapevoli della loro fede, della necessità di educare in essa le nuove generazioni e sul modo di trasmetterla. Ratzinger ricorda di avere una particolare attenzione anche per coloro che sono in sincera ricerca della fede in Dio e indica nel Catechismo della Chiesa Cattolica lo strumento di riferimento comune, valido per favorire l’unità della fede del Popolo di Dio. Già Paolo VI nel 1967 aveva adottato una simile iniziativa al termine del Concilio Vaticano II, preoccupato per le difficoltà che i mutamenti sociali e culturali, già molto evidenti, avrebbero rappresentato per l’unità della fede nella Chiesa. Strano a dirsi, ma una delle problematiche più imbarazzanti degli ultimi cinquant’anni è stata proprio la diversa interpretazione dei documenti conciliari. Papa Ratzinger torna a ribadire che il criterio da seguire per la retta comprensione del Concilio è quello della continuità con il passato e non quello della rottura. Oggi invece Benedetto XVI è allarmato dal fatto che per molti la fede non è più il presupposto comune della vita. E’ in atto uno sgretolamento di quei valori da essa derivati che per secoli hanno rappresentato la base comune della convivenza. Per riscoprire il gusto di nutrirsi della Parola di Dio e del Pane di vita, il Papa richiama tutta la Chiesa all’urgenza di un sincero cammino di conversione. La rivisitazione della sua storia, non soltanto nel solco della santità, che l’ha contraddistinta fin dall’inizio, ma anche nel segno del peccato, che pure l’ha sempre accompagnata, può rivelarsi utile per riconoscere in noi oggi quegli stessi errori che già in passato hanno sfregiato il volto della Chiesa, e suscitare nel cuore dei credenti il desiderio di un vero cambiamento. Sorprende infine l’accorato appello rivolto ai Vescovi per l’unità con il Successore di Pietro, come se oggi questa comunione non fosse così salda come lo è stata in passato. Ricordiamo le neanche troppo velate reazioni di molti Vescovi contro Benedetto XVI in occasione della liberalizzazione della celebrazione dei sacramenti secondo il rito tridentino e della rimozione della scomunica ai Vescovi ordinati da Mons. Lefebvre. Visti i gravi problemi evidenziati dal Papa, se non ho capito male, l’ “Anno della fede” che verrà, non va considerato come la solita celebrazione devozionale, ma come la premessa di un vero e proprio nuovo inizio, come lo fu duemila anni fa la prima evangelizzazione apostolica.

Don Marco Belladelli.

 

 

pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il   28/10/2011.


 

Assisi, città della pace

Venticinque anni dopo Giovanni Paolo II, il 27 Ottobre scorso Benedetto XVI ha voluto di nuovo convocare ad Assisi i rappresentanti di tutte le Religioni del mondo per pregare insieme con loro per la pace e la giustizia. Erano oltre trecento le delegazioni presenti. La novità assoluta sono stati gli atei. Uno di essi, il messicano Guillermo Hurtado, ha dichiarato che con la loro presenza l’incontro si è realmente aperto a tutta l’umanità, nella condivisione convinta di una comune aspirazione. Il tema su cui si è svolto l’incontro è “Pellegrini della verità, pellegrini della pace”. Non sono state poche, né irrilevanti dentro la Chiesa le resistenze a questo nuovo incontro di preghiera interreligioso. All’accusa di sincretismo, ha risposto il cardinal Tauran, Presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso, ricordando il principio che ha ispirato Benedetto XVI per questo appuntamento: “Chi è in cammino verso Dio non può non trasmettere la pace. Chi costruisce la pace, non può non avvicinarsi a Dio”. E’ sempre lo stesso porporato a sintetizzare il cosiddetto “spirito di Assisi” in cinque atteggiamenti: uscire dalle nostre case e dai nostri templi per incontrare chi vive in modo diverso da noi; considerare gli agnostici come dei ‘cercatori di Dio’ per aiutarli nella loro ricerca; avere il coraggio di rendere ragione della propria fede nel rispetto reciproco; imparare a dialogare senza timidezze e ambiguità; superare l’individualismo e l’indifferenza religiosa attraverso l’emulazione spirituale. Si è cominciato in mattinata nella basilica di S. Maria degli Angeli dove, dopo la proiezione di un video per ricordare gli incontri precedenti, in particolare quello di 25 anni fa, e tutti gli altri interventi a favore della pace, unite alle immagini delle mutate condizioni geo-politiche, sono iniziati gli interventi delle varie delegazioni sul tema proposto. Nel pomeriggio, dopo un frugale pasto, il pellegrinaggio ha raggiunto la città alta. Ultima tappa è stata la basilica di S. Francesco dove l’incontro si è concluso con l’omaggio di tutti i convenuti al Santo di Assisi, raccolti davanti alla sua tomba, e la solenne rinnovazione del comune impegno per la pace. Dopo aver ascoltato tutti con molta attenzione, a cominciare dai leader delle altre confessioni cristiane e di quelli delle altre religioni, compreso l’animista e la femminista, alla fine della mattinata ha preso la parola il santo Padre, con un discorso come sempre molto intrigante per le prospettive che è riuscito a farci intravedere dentro la complessità del presente. Oggi non c’è più il pericolo imminente di una guerra atomica. “Tuttavia, dice il Papa, il mondo è pieno di discordia” e la violenza domina sovrana. Oggi abbiamo a che fare con il terrorismo, spesso motivato religiosamente. Questa non è la vera natura della religione, ma un suo travisamento e la premessa per la sua distruzione. E’ compito del dialogo interreligioso, continua Benedetto XVI, chiarire se esista una natura comune ad ogni religione. A nome di tutta la Chiesa, “pieno di vergogna”, riconosce pubblicamente che anche i cristiani nel corso dei secoli sono ricorsi alla violenza in nome della loro fede. E’ necessaria una profonda purificazione perché, nonostante la fragilità umana, la religione non sia mai più strumento di violenza, ma unicamente della pace di Dio per il mondo. Di fronte a un tale scandalo c’è chi chiede l’abolizione di ogni religione, o comunque la sua marginalizzazione. Questo però ha favorito l’insorgere della contro-religione del potere, dell’avere e della droga, che sta distruggendo le giovani generazioni del mondo, e dove la violenza è diventata cosa normale. Paradossalmente in un tale contesto molti soffrono perché non trovano la via del vero e del bene. Una ricerca la loro, che interroga tutti, atei compresi, e che va tracciando nel mondo quel sentiero comune a tutti i pellegrini della verità e della pace.

Don Marco Belladelli.

 

pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il   01/11/2011.


 

La Chiesa oltre gli abusi sessuali

“Sì, sulla pedofilia la Chiesa sta finalmente cambiando”. Ad affermarlo è la sig.ra Marie Collins, irlandese, unica vittima presente all’ importante simposio internazionale intitolato “Verso la guarigione e il rinnovamento”, svoltosi nei giorni tra il 6 e il 9 Febbraio scorsi a Roma presso l’Università Gregoriana, al quale hanno partecipato un centinaio di Vescovi e molti Superiori maggiori dei vari Ordini e Istituti religiosi provenienti da tutto il mondo, nel quale si è discusso su che cosa deve fare la Chiesa per proteggere i minori e le persone vulnerabili dagli abusi sessuali. La Collins ha subito violenza da un sacerdote quando aveva 13 anni ed era ricoverata in un istituto di cura. Sposata con un figlio, soltanto dopo più di 30 anni ha avuto il coraggio di parlare. In un intervista rilasciata ad una testata on line, si è dichiarata convinta che per l’impulso venuto direttamente dai massimi vertici della Chiesa cattolica, da ora in poi non ci sarà più spazio per il silenzio e l’insabbiamento, comportamenti che in passato invece di sanare, sono andati ad aggravare la sofferenza delle vittime. Il convegno si è aperto con la benedizione del Santo, Padre Benedetto XVI, che nonostante le numerose polemiche dentro e fuori la Chiesa su questo tema da sempre ha dato prova di fermezza e determinazione nel volere estirpare questa piaga e nel sostenere scelte e strategie che rendessero impossibile in futuro il ripetersi di certe situazioni. Memore di quelle che sono state le ragioni e le cause di questo grave problema, mons. Charles Scicluna, promotore di Giustizia della Congregazione per la Dottrina della Fede, l’ex Sant’Ufficio, colui che in questi ultimi tempi più di ogni altro si è occupato dei casi concreti di pedofilia nella Chiesa, ha concluso la sua interessante relazione affermando che “Un’onesta ricerca della verità e della giustizia costituisce la migliore risposta che possiamo offrire al triste fenomeno dell’abuso sessuale dei minori da parte di chierici”. Dopo aver ricordato che senza verità non c’è nemmeno giustizia, ha invitato i Vescovi e i Superiori maggiori degli Istituti religiosi al rispetto delle procedure previste dal diritto canonico per evitare gravi distorsioni della sua natura pastorale. Quando infatti si è soprasseduto all’applicazione delle norme e delle sanzioni previste in questi casi dalla Chiesa, ritenendo prioritario evitare pubblicità e scandali in difesa dell’istituzione, le conseguenze sono state più gravi da tutti i punti di vista. Un altro momento importante del simposio è stata la veglia penitenziale del 7 Febbraio, presieduta dal cardinale canadese Marc Ouellet, Presidente della Congregazione dei Vescovi, nella quale, sempre secondo la Collins, si è capito che la Chiesa chiedeva sinceramente perdono non soltanto alle vittime e per tutte le vittime, ma anche per i silenzi con cui i Vescovi avevano coperto e protetto i colpevoli. Il porporato ha parlato di una grande vergogna per uno scandalo condannato violentemente anche da Gesù stesso nel Vangelo (cfr Lc 17,2), affermando poi che il cammino di rinnovamento, con tutto quello che concretamente comporterà per prevenire questi misfatti, deve avvenire nel segno del “mai più!”. Al termine dei lavori è stato reso noto che il Papa ha deciso di finanziare con un’ingente somma un “Centro” per la formazione di agenti anti-abusi, cioè religiosi e volontari esperti nella prevenzione e nella protezione dei minori nelle parrocchie, negli oratori e nelle scuole cattoliche. Il centro si propone inoltre di promuovere la nuova cultura dell’ascolto delle vittime e soprattutto di far conoscere le migliori pratiche per la gestione degli abusi. E’ il segno più concreto del cambiamento in atto. Come era annunciato nel tema del convegno, la guarigione e il rinnovamento devono passare necessariamente attraverso l’ascolto delle vittime e la garanzia di assicurare alla giustizia i colpevoli, senza lasciarsi andare a forme di intollerante furore persecutorio, ma con realismo, chiarezza e trasparenza. 

don Marco Belladelli.

 

pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il   14/02/2012.

 

 


 

I numeri del Papa.

Ottantacinque e sette sono i numeri del Papa. 85 sono gli anni che ha compiuto il 16 Aprile scorso e 7 invece sono quelli di pontificato, essendo stato eletto il 19 Aprile 2005. Qualcuno magari può anche provare a giocarseli. Nessun altro Pontefice da un secolo a questa parte aveva superato il traguardo degli 85 anni. La coincidenza delle due date offre lo spunto per fare un bilancio di quello che all’inizio veniva considerato un pontificato di transizione. Nonostante tutto, molti continuano a paragonare Benedetto XVI con il suo predecessore, per farlo risultare nel confronto perdente. Senza togliere nulla alla indubbia grandezza del beato Giovanni Paolo II, è stato Ratzinger stesso a rimuovere l’ingombrante imbarazzo, quando in un discorso alla Curia romana del Dicembre 2008, commentando le principali attività di quell’anno, tra le quali anche la “Giornata Mondiale della Gioventù” in Australia, disse “Il Papa non è la star intorno alla quale gira il tutto. Egli è totalmente e solamente Vicario. Rimanda all’Altro che sta in mezzo a noi”. Più che rimproverargli di non essere come Woityla, cosa del resto ovvia, molti non gli perdonano ancora il suo iniziale e continuato attacco al relativismo e soggettivismo dominante la cultura di oggi, tanto che un grande quotidiano nazionale preferisce dare spazio ai ”secondo me” di qualche Cardinale in pensione, più ammiccante verso il laicismo dominante, piuttosto che prendere in seria considerazione il ricco e illuminate magistero papale di questi ultimi anni. L’altro grande sforzo di Benedetto XVI è quello di riscattare il Concilio Vaticano II dal rischio di un appiattimento sulla modernità in quanto tale. Pericolo derivato da una interpretazione dei testi conciliari improntata alla rottura con il passato, e non alla continuità con esso. Un compito non facile, se si considera che certi modi di fare, eccessivamente riduttivi nei confronti della fede cristiana, oggi presenti nella Chiesa, hanno avuto e continuano ad avere molta più influenza sul Popolo di Dio, rispetto ad una ortodossia più in sintonia con la tradizione di duemila anni di storia del cristianesimo. L’altra faccia della medaglia, in risposta ai problemi posti oggi dalla modernità, è il grande impegno profuso in favore della “nuova evangelizzazione”, tema di cui si occuperà anche il prossimo Sinodo dei Vescovi di Ottobre. In questa prospettiva va considerata la lettera indirizzata nel Maggio 2007 ai Cristiani della più grande nazione del mondo, la Cina, dove a tutt’oggi la Chiesa non è libera di esprimersi e di perseguire le sue finalità spirituali per il bene di oltre un miliardo e trecento milioni di persone. Anche il secondo sinodo speciale per l’Africa, con i due viaggi apostolici (Camerun e Angola nel 2009 e Benin nel 2011) che lo hanno accompagnato, e il viaggio in Brasile nel 2007, per la quinta conferenza generale dell’episcopato latinoamericano, avevano lo scopo di dare nuovo impulso all’evangelizzazione. Di fronte alla complessità di questo impegno apostolico e per rilanciare a tutto tondo e in ogni direzione la missionarietà della Chiesa, nel Giugno 2010 Papa Ratzinger ha costituito un nuovo dicastero vaticano appositamente dedicato alla nuova evangelizzazione. Un altro grande merito di Benedetto XVI che, quando fu eletto, non pensava di affrontare nelle dimensioni con cui si è presentato, è stato la lotta contro la pedofilia nella Chiesa nel segno della trasparenza, della punizione dei colpevoli e della collaborazione con le autorità civili. Insomma, un pontificato tutt’altro che di transizione. Papa Ratzinger non si è accontentato di sopravvivere a se stesso. Per questo dopo sette anni rimane ancora valido l’invito che rivolse a tutti i Cristiani all’inizio del suo pontificato: “Cari amici – in questo momento io posso dire soltanto: pregate per me, …  perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi.”.

don Marco Belladelli.

 

 

pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il   25/04/2012.

 


 

Se anche i Vescovi disobbediscono al Papa …

Il 14 Aprile scorso Benedetto XVI ha scritto una lettera ai Vescovi di lingua tedesca per una questione che riguarda tutta la Chiesa, ma sulla quale a tutt’oggi ha incontrato le resistenze di molte Conferenze Episcopali, prima fra tutte, strano a dirsi, proprio di quella italiana. Il problema è la corretta traduzione della formula di consacrazione del vino durante la S. Messa. Le parole che da quasi quarant’anni ascoltiamo, in questo punto particolare della celebrazione, quando andiamo a Messa sono: Prendete, e bevetene tutti: questo è il calice del mio Sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti”, mentre il testo latino ufficiale, rimasto immutato anche dopo il Concilio, dice: “pro vobis et pro multis”, cioè “per voi e per molti”. Quando negli anni settanta si trattò di redigere i testi del rito della S. Messa nelle lingue nazionali secondo la riforma conciliare, si decise per il “per tutti”, perché si riteneva che questa formula interpretasse più compiutamente il valore del sacrifico di Gesù, che morì in croce per tutti gli uomini, nessuno escluso. Nella sua lettera il Papa dice due cose. Fatto salvo il valore ontologico della morte di Gesù il quale, come più volte ci ricorda San Paolo in vari passi dei suoi scritti, morì per tutti, nella liturgia bisogna rispettare alla lettera i racconti neotestamentari dell’ultima cena, nei quali si usano le parole o “per molti” o “per voi”, ma mai “per tutti”. La celebrazione eucaristica è per “i molti” che sono presenti e hanno accolto la chiamata di Dio alla salvezza, in rappresentanza di tutti coloro che ancora non hanno risposto. Parlando poi della sua personale esperienza, aggiunge: “Dal momento che devo recitare le preghiere liturgiche continuamente in lingue diverse, noto che, talora, tra le diverse traduzioni, non è possibile trovare quasi niente in comune e che il testo unico che ne è alla base, spesso è riconoscibile soltanto da lontano. Vi sono state poi delle banalizzazioni che rappresentano delle vere perdite”. I riti della S. Messa nelle varie lingue nazionali devono quindi essere una ‘traduzione’ del testo ufficiale latino, non una ‘interpretazione’, perché seguendo questo criterio si finisce per tradire, spesso addirittura banalizzare, il contenuto della liturgia, preghiera ufficiale di tutta la Chiesa universale. Se poi, continua Benedetto XVI, fosse necessario spiegare ai fedeli il significato di certe formule, si ricorra alla catechesi. Attraverso di essa tutti potranno apprezzare il valore della liturgia, una delle fonti dell’unità della Chiesa. Elencati i temi da sviluppare, si meraviglia che tutto ciò non sia stato fatto a tempo debito, visto che la questione si trascina almeno dal 2001. Come dice il proverbio, il Papa ha parlato ai tedeschi, perché tutti comprendano. Su questioni come la liturgia non c’è spazio per decisioni democratiche, come hanno fatto i Vescovi italiani nel Novembre 2010 che, pur sapendo come stavano le cose, avevano deciso a schiacciante maggioranza, 171 contro 11, a favore del “per tutti”. Se è vero che Gesù è morto per tutti, è altrettanto evidente che non tutti accolgono questo dono. Insomma, contrariamente a quello che alcuni pensano, l’inferno purtroppo non è vuoto.

don Marco Belladelli.

 

pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA il     29/05/2012.

 

 

                 Quo vadis, Petre!

Fratres carissimi, non solum propter tres canonizationes ad hoc Consistorium vos convocavi, sed etiam ut vobis decisionem magni momenti pro Ecclesiae vitae communicem. Conscientia mea iterum atque iterum coram Deo explorata ad cognitionem certam perveni vires meas ingravescente aetate non iam aptas esse ad munus Petrinum aeque administrandum.

Carissimi Fratelli,vi ho convocati a questo Concistoro non solo per le tre canonizzazioni, ma anche per comunicarvi una decisione di grande importanza per la vita della Chiesa. Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino.

Con queste parole, ieri, 11 Febbraio 2013 verso le 11,30 circa, Benedetto XVI ha comunicato ai Cardinali, riuniti in Concistoro ordinario pubblico per la proclamazione di tre prossime canonizzazioni, la sua decisione di dimettersi da Vescovo di Roma e successore di S. Pietro alla guida della Chiesa. In pochi minuti la notizia ha fatto il giro del mondo, suscitando tra i cristiani, e non solo, turbamento e sconforto. Nella dichiarazione scritta in latino di suo pugno il Papa dice che negli ultimi tempi in lui non sono venute meno soltanto le forze fisiche, ma soprattutto le forze spirituali, il vigore dell’animo. Per questo “in piena libertà” ha preso questa grave decisione. Del suo deperimento fisico ce ne eravamo resi conto tutti. Poco meno di un mese fa un amico che lavora presso la Santa Sede mi aveva confidato che mentre teneva un discorso durante un’udienza pubblica nei giorni successivi al Natale, il Papa aveva dovuto interrompersi perché non riusciva più a leggere. Ascoltandolo però non pareva che fosse venuto meno anche il vigore dell’anima. Tutt’altro! E’ proprio questo che lascia sgomenti e che suscita tante domande: come è possibile? Tutti abbiamo ancora vivo nella memoria il coraggio e la forza di Giovanni Paolo II. Anche se in condizioni a dir poco pietose, tre giorni prima di morire ha voluto a tutti costi affacciarsi dalla finestra del suo studio per salutare e benedire i pellegrini raccolti in piazza San Pietro. Una mamma intervistata ieri nei pressi della Basilica vaticana, diceva che come non ci si dimette mai dall’essere genitori, così pure da una paternità spirituale, come quella del Papa. Nonostante i tanti paragoni ad avvenimenti simili del passato, quello più comune è con Celestino V, reso famoso perché inserito dall’Alighieri nella Divina Commedia come colui che fece il gran rifiuto, la decisone di Benedetto XVI è un qualcosa che non ha precedenti nella storia, sia per quello che oggi è e rappresenta la Chiesa cattolica nel mondo, sia per il particolare momento storico che tutti stiamo vivendo. Pur trattandosi di una eventualità prevista dal Codice di Diritto canonico, siamo davanti ad un fatto del tutto eccezionale. Quando nel Settembre 2011 due noti giornalisti come Giuliano Ferrara e Antonio Socci avevano dalle rispettive testate sui cui scrivono, Il Foglio e Libero, avevano anticipato questa possibile decisione di Benedetto XVI al compimento degli 85 anni, furono quasi sbeffeggiati, come se parlassero di fantastoria, e non della realtà. Rileggere oggi quei pezzi, può aiutarci a capire quello che è successo. Più volte da queste colonne anch’io ho messo in evidenza come in questi quasi otto anni di pontificato, Benedetto XVI ha dovuto fare i conti con le tante contrarietà incontrate, soprattutto dentro la Chiesa. Basta ricordare le due lettere che ha inviato a tutti i Vescovi del mondo per fare accettare le sue decisioni e le resistenze che ha incontrato nella lotta contro la pedofilia nella Chiesa da parte di chi non era d’accordo con il metodo da lui proposto. Proprio Domenica scorsa abbiamo ascoltato nel Vangelo quello straordinario dialogo tra Gesù e il futuro capo degli Apostoli: “Prendi il largo! … Sulla tua parola getterò le reti …  Non temere, sarai pescatore di uomini”. Una trasformazione che ha reso capace l’umile pescatore di Galilea di superare prima le sue fragilità di uomo pavido che aveva rinnegato il suo Maestro, e poi di farsi carico della missione affidatagli dal Signore, fino a morire, crocifisso a testa in giù sul Gianicolo, a Roma, per mano di Nerone. Nel rispetto per ciò che Benedetto XVI ancora incarna, fino al 28 Febbraio prossimo, e per l’uomo, Joseph Ratzinger, che nel travaglio della sua coscienza ha preso questa grave decisione, contro la quale nessuno può permettersi di andare, a mio modesto parere resta aperta una grande domanda: tutto questo è volontà di Gesù Cristo?

don Marco Belladelli.

 

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pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA   il 12/02/2013.


 

Quei fulmini su San Pietro

 

Le inattese dimissioni di Benedetto XVI hanno turbato non soltanto i fedeli, ma anche molte persone religiosamente tiepide, indifferenti e a lui non favorevoli per pregiudizio ideologico, come per esempio alcuni omosessuali militanti, che in questi anni lo hanno sempre visto come un loro nemico e spesso dileggiato e fatto oggetto di offese.

Il Papa non è un’autorità tra le altre, o semplicemente un’alta autorità morale come comunemente si usa dire. E’ il dolce Cristo in terra, come lo chiamava S. Caterina da Siena. E’ il vertice dell’incarnazione, il contrappeso a qualsiasi ideologia. Ci si raccoglie attorno a lui, non soltanto per la dottrina (credere ciò che crede Pietro), ma per riconoscere la voce di Cristo e il suo amore (“Simone, mi ami tu? Pasci i miei agnelli”. Gv 21,16).

In questi giorni molti hanno interpretato la sua rinuncia al ministero petrino come una cosa che rientra nella normalità di una persona anziana che non ce la fa più. Più irritante invece, e a parer mio del tutto fuori luogo, la voce di tanti laici che, forti della loro quasi assoluta occupazione mediatica, hanno esultato per la fine dell’ultimo retaggio di medioevo arrivato fino a noi, inneggiando al trionfo della modernità. Proprio quelli che in questi otto anni hanno sempre combattuto Papa Ratzinger, a cominciare da quel suo atto d’accusa contro il relativismo imperante dell’aprile 2005, oggi lo esaltano, interpretando il suo ritiro come una capitolazione a quella logica a cui si era opposto.

Per fortuna, nella lectio magistralis sul Concilio tenuta ai preti di Roma il 14/02 u.s., è stato ancora una volta Benedetto XVI in persona a denunciare questa costitutiva incapacità dei media a capire la Chiesa, per quel vizio innato di buttare ad ogni costo tutto in politica. Di fronte poi all’euforia di chi si esalta per il momento storico che stiamo vivendo, personalmente avrei preferito che non si fosse mai realizzata una tale situazione. Del resto, anche Benedetto XVI nell’udienza di Mercoledì 13/02 ha definito “grave” questa sua decisione. Come a dire che se appena avesse intravisto una qualsiasi altra via di uscita, l’avrebbe seguita. Per questo il gesto di Benedetto XVI è perfettamente in linea con la sua forte personalità di uomo coraggioso, franco e privo di timori reverenziali verso chicchessia, come lo abbiamo ben conosciuto in questi anni, soprattutto nei momenti di difficoltà che hanno segnato il suo pontificato. Un atteggiamento tanto fermo che per molti ha rappresentato un fondamento di speranza, altri invece ne sono stati molto infastiditi, come più volte ho messo in evidenza su queste colonne.

In questi ultimi mesi Benedetto XVI ha spesso ribadito che il futuro è nelle mani di Dio (03/01/2013) e che la Chiesa è di Dio, per questo il suo volto non va deturpato da divisioni e lotte intestine (cfr. omelia del 13/02/2013). Questi ammonimenti sembrano avere il tratto distintivo di un testamento, come se con il gesto delle sue dimissioni Benedetto XVI abbia voluto rimettere Dio e la sua misteriosa e potente azione di salvezza al centro della vita della Chiesa e del mondo, così che tutti possano vederla, come abbiamo visto quei fulmini scaricarsi sulla cupola di san Pietro. Riguardo poi a come vestirà e come lo chiameremo dopo le 20 del 28/02, mi è venuta in mente l’immagine di quel Vescovo vestito di bianco di cui parlava una bambina tanti anni fa. Che c’entri qualcosa, o è soltanto una favola?

Marco Belladelli.

 

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pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA   il 19/02/2013.

 


 

Viva il Papa! Viva Benedetto XVI!

Un anonimo cristiano quasi 170 anni ha inciso il suo affetto per il Papa del suo tempo, Pio IX, in un graffito ancora oggi visibile e leggibile su un banco del Duomo di Mantova. Oggi invece approfitto dello spazio concessomi dal Direttore del nostro giornale per dire il mio grazie a Benedetto XVI, che ieri si è congedato dalla Chiesa e dal mondo con il suo solito stile fatto di serena semplicità, sentimenti sinceri, cristallina chiarezza di pensiero e una fede incrollabile in Gesù Cristo, circondato dall’affetto di migliaia di fedeli e dalla simpatia e dalla stima di altrettanto numerosi uomini di buona volontà in tutto il mondo. Quanto abbiamo visto in questi ultimi giorni di pontificato in piazza S. Pietro è la punta dell’iceberg di quello che si sente e si vive nella Chiesa in tutto il mondo. Nonostante la contrarietà di certi media, questo Papa è entrato profondamente nel cuore della gente, sia per quello che rappresenta, sia per quello che ha fatto. Prima di tutto va ricordato il suo luminoso insegnamento magisteriale che rimarrà un punto di riferimento fondamentale, soprattutto per quanto riguarda la spinosa questione del valore e del significato del Concilio Vaticano II, da interpretarsi nel segno della continuità con la tradizione della Chiesa e non della discontinuità. Altrettanto importante è stata la sua azione pastorale che ha messo al primo posto la riscoperta della fede e la sua gioiosa testimonianza, come stiamo sperimentando in questo Anno della fede da lui voluto per sollecitare la Chiesa ad una più viva presenza oggi nel mondo. Non vanno inoltre dimenticati l’impegno a favore dei valori non negoziabili della vita umana, la convinta e intensa azione ecumenica, soprattutto verso gli ortodossi e gli anglicani, per rafforzare l’unità della Chiesa, il dialogo con le altre religioni e lo sforzo di porre al centro del dibattito culturale la ragione come punto d’incontro con la modernità. Non meno rilevante è stata la sua azione di governo, attraverso la quale ha cercato di tener fede a quelle esigenze di efficacia, competenza e pulizia interna alla Chiesa, contro il carrierismo, l’incompetenza funzionale e la sporcizia denunciate nella famosa Via Crucis del 2005, quando era ancora cardinale. Non tutti sanno per esempio che ha rimosso o obbligato alle dimissioni circa un’ottantina di Vescovi per incapacità o indegnità personale. Nonostante tutto lui stesso ha riconosciuto nella sua ultima udienza generale come in questi otto anni non siano mancati momenti difficili nei quali sembrava che il Signore dormisse e la barca di Pietro dovesse affondare. Molti Vescovi per esempio hanno mal digerito la liberalizzazione della celebrazione della S. Messa in latino secondo il rito antico. E’ altrettanto noto che la sua lotta contro la piaga della pedofilia nel clero non abbia goduto della piena solidarietà della Curia romana e più in generale di tutta la Chiesa. A completare l’opera ci mancava lo scandalo Vatileaks, con un maggiordomo che sottrae documenti dalla segreteria personale per passarli ad un giornalista e darli in pasto all’opinione pubblica. Nei giorni scorsi indiscrezioni di stampa sulla relazione della Commissione Cardinalizia incaricata di indagare su questo crimine, fermamente e seccamente smentite dalla Segreteria di Stato, facevano intravedere dietro a questo scandalo lotte di potere, avidità personali e morbosità sessuali. Un mix che ricorda molto il caso di padre Marcial Maciel Degollado, fondatore dei legionari di Cristo, prontamente perseguito da Benedetto XVI nel Maggio 2005, dopo neanche un mese dalla sua elezione. Una figura misteriosa, a detta dello stesso Ratzinger, dalla doppia vita, che ha fatto della propria esistenza una struttura peccaminosa fondata sulla menzogna. In assoluto non siamo in grado di escludere una tale realtà possa aver prolificato dentro la Chiesa per mezzo di compiacenti complicità in modi e forme del tutto inusuali. Qualora una tale ipotesi fosse anche soltanto minimamente vera, non ci resta che combatterla nel modo che ci ha insegnato Benedetto XVI, amando e servendo il Vero, il Bene e il Bello, che è Gesù Cristo, e con la trasparenza. C’è oggi forse qualcosa più degno di Lui per gli uomini di Chiesa e per gli uomini e le donne moderne? Viva il Papa! Viva Benedetto XVI!

MARCO BELLADELLI.

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pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA   il 28/02/2013

 

 


 

       Benedetto XVI e la sede vacante

L’immagine di quell’elicottero bianco con a bordo l’ancora Papa Benedetto XVI, che giovedì 28 Febbraio per alcuni istanti si è sovrapposto alla cupola di San Pietro dirigendosi poi verso sud, per sorvolare la via Appia e raggiungere Castel Gandolfo, rimarrà nella storia e nella mente di tutti coloro che lo hanno visto.

Intanto Lunedì 4 Marzo sono iniziate le Congregazioni dei Cardinali, a cui partecipano sia i 115 grandi elettori che entreranno in conclave, sia gli ultraottuagenari che per diritto sono esclusi dall’assemblea elettiva. In attesa della data del conclave, restano ancora senza risposte esaustive le domande sul significato delle dimissioni di Papa Ratzinger e soprattutto su che cosa dobbiamo aspettarci nel futuro prossimo. Dagli scenari tratteggiati in questi giorni dagli addetti ai lavori nei dibattiti, confronti, analisi e interviste più o meno anonime, traspare con sufficiente evidenza l’urgenza di mettere mano alla riforma della Curia romana e la necessità di un nuovo slancio missionario. Con tutto ciò, pare anche che i Cardinali non abbiano ancora trovato né un punto d’incontro né tanto meno la persona che meglio possa governare la Chiesa in questo particolare momento storico. Credo sia utile allora riprendere gli ultimi interventi di Benedetto XVI, nei quali neanche troppo velatamente sembra aver voluto mandare un messaggio a tutta la Chiesa e in particolare a coloro che sono chiamati a scegliere il nuovo successore dell’apostolo Pietro. Nell’Angelus di Domenica 24/02 Papa Ratzinger ha paragonato le sue dimissioni ad una risposta al Signore che lo chiama a salire sul monte. Nell’ultima udienza del 27/02 ha parlato di “un presente di Dio” e di “una grande fiducia, perché la forza della Chiesa sta nella Parola di verità del Vangelo”. Come a dire: non preoccupatevi, ciò che sta accadendo è opera di Dio e non dell’uomo. Un altro punto su cui ha insistito è su come intendere la Chiesa. Citando il grande teologo, Romano Guardini il 28/02 ai Cardinali ha ricordato che la Chiesa “non è un’istituzione escogitata e costruita a tavolino …, ma una realtà vivente. Il giorno prima in piazza San Pietro aveva gridato: “la Chiesa è viva!”. Ringraziando le tante persone semplici che in questi otto anni gli hanno scritto manifestandogli affetto e condividendo con lui gioie e angosce del vivere ogni giorno la fede cristiana, ha descritto la Chiesa come “una comunione di fratelli e sorelle nel corpo di Gesù Cristo”. Nell’ultimo breve saluto alla folla raccolta nella piazza del palazzo apostolico di Castel Gandolfo, prima di definirsi un semplice pellegrino giunto all’ultima tappa del suo cammino terreno, si è lasciato scappare: “Non sono più Sommo Pontefice”. Voleva scrollarsi di dosso con qualche ora in anticipo rispetto alla scadenza il peso di un pontificato molto difficile, oppure intendeva anticipare il nuovo che avanza? La serenità del suo volto e la risposta del giorno prima a coloro che lo accusavano di voler scendere dalla croce: “Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso”, ci fanno propendere per la seconda ipotesi. I Cardinali chiamati a scegliere il nuovo successore di Pietro, sono davanti a un dilemma: fingere di cambiare perché nulla cambi, come purtroppo è avvenuto molto spesso negli ultimi decenni, oppure intraprendere il difficile cammino della conversione e del ritorno alla freschezza e alla forza del cristianesimo delle origini. Vuoi vedere che per uscire dall’impasse e imboccare la via voluta da Dio, vedremo di nuovo tornare a Roma quell’elicottero bianco con a bordo Benedetto XVI? Nei prossimi giorni avremo la risposta.

Marco Belladelli

 

pubblicato su LA VOCE DI MANTOVA   il 09/03/2013.

 

 

 

 

 

    

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