Ejlli Willy, Benedetto XVI, 2015. |
La messa in latino
Da quindici giorni a questa parte, negli ambienti
più diversi e nelle occasioni, più svariate mi sento rivolgere questa domanda:
“Che ne pensi della Messa in latino?”. Nessuno avrebbe immaginato
un’onda mediatica, e non solo, tanta lunga nella pubblica opinione su un tema
così particolare, qual è la decisione di Benedetto XVI di liberalizzare la
celebrazione della santa Messa con il rito del Concilio di Trento, nell’ultima
revisione pubblicata da Papa Giovanni XXIII nel 1962. Sono convinto che dopo il
14 Settembre prossimo, giorno in cui entreranno in vigore le disposizioni del Motu
proprio “Summorum Pontificum”, la cosa avrà ancora un suo seguito.
La gente comune con meraviglia e sorpresa si chiede
se fosse proprio necessario una cosa del genere, visto che dopo tutte le novità
liturgiche di questi ultimi decenni nessuno più nemmeno si ricorda come si
celebrasse la S. Messa prima del Concilio Vaticano II. Non sono altre le
attenzioni di cui ha bisogno questo nostro mondo e questo nostro tempo da parte
della Chiesa? Chi sono, dove sono e quanti sono coloro che proprio non possono
fare a meno dell’antica Liturgia? Ma soprattutto si tratta di un passo avanti o
un passo indietro?
I vari commentatori e gli esperti delle cose di
Chiesa invece mettono il dito su quello che a loro dire è il vero problema alla
base della questione: il valore e l’autorità del Concilio Vaticano II. Uno dei
principali veicoli attraverso cui il Popolo di Dio ha compreso e accolto i
cambiamenti conciliari è stata la Liturgia. Prima o poi a tutti è capitato di
andare in chiesa, vuoi per un Battesimo, o per un funerale, per un Matrimonio o
per qualsiasi altra circostanza della vita, ed accorgersi delle novità: l’uso
delle lingue nazionali, il prete che non gira più le spalle all’assemblea, il
rito più dialogato, lo spazio riservato alla Parola di Dio e al suo commento,
insieme con uno stile celebrativo più coinvolgente. Tutti questi elementi non
sono altro che il segno di un modo
diverso di porsi della Chiesa nei confronti di se stessa e del mondo, voluto
dal Concilio. Era necessario, a detta dello stesso cardinal Ratzinger, superare
una Liturgia “troppo smarrita nello spazio dell’individualismo e del privato e
insufficiente nella comunione tra presbitero e fedeli”. Il
problema dell’autorità del Concilio Vaticano II, soprattutto in campo
liturgico, è stato sollevato in modo forte e polemico oltre trent’anni fa da mons. Marcel Lefebvre,
Vescovo francese, tenacemente legato alla tradizione tridentina, fino a sfidare
due Papi, Paolo VI e Giovanni Paolo II. La sua vicenda è espressamente
richiamata da Benedetto XVI nella lettera ai Vescovi, che accompagna il Motu
proprio. Fu proprio lui, come Prefetto di quello che abitualmente viene
ancora chiamato Sant’Ufficio, a cercare un possibile punto d’incontro
con le posizioni espresse dal Vescovo francese nel 1988. Non possiamo dire con
certezza se sia stato quell’ incontro, è comunque provato che negli anni
successivi il cardinal Ratzinger
cominciò ad essere molto critico verso la liturgia conciliare, tanto che
nella sua stessa autobiografia la giudica “concepita etsi Deus non daretur,
come se in essa non importasse più se Dio c’è e se ci parla e se ci ascolta”.
Mi pare che con questo suo intervento così
autorevole, con il quale ha riabilitato tutti i rituali tridentini, adducendo
come ragione che nessuno di fatto non li ha mai abrogati, e definendoli “forma
straordinaria”, rispetto alla forma ordinaria (cioè i nuovi rituali
introdotti dopo il Concilio Vaticano II), dell’unico Messale Romano, il Papa
abbia di mira due obiettivi di fondo. Il primo riguarda l’interpretazione del
Concilio Vaticano II. Esso va compreso e attuato in continuità, non in discontinuità e
men che meno va inteso come una rottura, con tutta la tradizione della Chiesa,
che nel concilio di Trento ha una delle sue espressioni più importanti. Il
secondo obiettivo è in qualche modo più inerente alla sua situazione personale.
Ratzinger ha già ottant’anni e pensa di non avere davanti a sé né il tempo, né
tanto meno la forza necessaria per una vera e propria riforma liturgica, in cui
sintetizzare tutti gli aspetti positivi che sono venuti dal Concilio Vaticano
II, con la sacralità che era propria dell’antica Liturgia. Egli ha comunque
voluto suggerire, non senza ragione, a chi verrà dopo di lui e a chi vuole
davvero bene alla Chiesa, l’urgenza e la necessità di percorrere questa strada,
visto che tutto quello che fino ad oggi abbiamo tra le mani non è proprio il
meglio possibile. Insomma il mite Ratzinger sa bene che la Chiesa deve sempre
ripartire con umiltà dal riconoscere fino in fondo i propri errori, per
ritrovarsi quel coraggio, che le viene da Dio, necessario per affrontare le
sfide del presente, come ha affrontato quelle del passato. Questa regola vale
sia per la Chiesa universale, sia per la Chiesa locale.
Don Marco Belladelli.
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Farmacisti e
obiezione di coscienza
Tutti i giornali di Martedì 30/10 riportavano in
prima pagina, con grande risalto le parole di Papa Benedetto XVI, con le quali,
durante l’udienza speciale concessa ai delegati della Federazione
Internazionale dei Farmacisti Cattolici, riunitisi a Roma per il loro 25°
congresso, chiedeva il riconoscimento a livello internazionale del diritto
all’obiezione di coscienza per i farmacisti, nel caso della fornitura di
prodotti che hanno come fine pratiche chiaramente immorali, come l’aborto e
l’eutanasia. Scorrendo la rassegna stampa ho trovato una corale alzata di scudi
contro l’ennesima ingerenza della Chiesa, la rivendicazione dell’autonomia
della stato e il richiamo al dovere civico di osservare le leggi.
C’ero anch’io lunedì mattina nella sala del
concistoro in Vaticano, in quanto assistente del gruppo romano dei Farmacisti
Cattolici, ad ascoltare il Santo Padre. E’ inutile dire che il discorso è stato
molto più articolato e significativo, rispetto a quanto i mass media
hanno estrapolato, per quella che a loro dire era la notizia del giorno,
di cui informare l’opinione pubblica. D’altro canto nessun altro strumento o
intervento culturale sarebbe riuscito più efficacemente a porre la questione
all’attenzione di tutti e soprattutto degli interlocutori istituzionali,
chiamati in causa dal problema.
Ma andiamo con ordine. Il Papa è partito dal ruolo
professionale del farmacista, il quale, come intermediario tra il medico e il
paziente, ha il compito di educare al corretto uso dei farmaci e di adoperarsi
perché siano assunti per scopi terapeutici. Ha messo in guardia dal rischio di
utilizzare le persone come oggetti nelle sperimentazioni, perché nessun
progresso scientifico vale la vita di un uomo. Ha poi richiamato il grave
problema dell’accesso alle cure e ai farmaci essenziali alla sopravvivenza per
le fasce più povere della popolazione e per i paesi in via di sviluppo. Ha
quindi concluso con un forte appello, perché come cristiani, anche i farmacisti
si impegnino a formare se stessi e soprattutto i giovani ad essere attenti a
tutti i risvolti etici e non, della professione, perché l’uomo sia sempre il
centro del processo terapeutico. In questo contesto, il Pontefice ha posto il
problema dell’obiezione di coscienza nel caso in cui un farmaco venga assunto
non per “cura” o per “guarire”, ma per altre finalità, come nel caso
dell’aborto e dell’eutanasia. Se il medico e l’infermiere hanno visto
riconosciuto questo diritto a non collaborare nell’atto abortivo fin dal ‘78,
non si vede perché si debba obbligare per legge il farmacista?
Il ministro della salute, On. Livia Turco,
nell’intervista a Repubblica, dopo aver negato che esistano farmaci come quelli
chiamati in causa dal Papa “Non esistono farmaci che incentivano l´aborto e l´eutanasia nella
farmacopea ufficiale. Un pensiero diverso significa nutrire una grande sfiducia
nei confronti dell´autorità europea che registra i farmaci consentiti dal
prontuario farmaceutico.”, afferma che una normativa in tal senso verrebbe
a creare disagi tra gli utenti, che la cosiddetta pilloladelgiornodopo
serve per riparare ai rapporti non protetti, quindi a rischio, e che l’arrivo
prossimo della Ru 486, attraverso la solita porta degli obblighi derivanti
dalla partecipazione all’unione europea, in sostanza rappresenterà un risparmio
economico, perché si evita l’intervento chirurgico, e non necessita di nuovi
atti legislativi.
Non c’è bisogno di perdersi in sottili
disquisizioni per riconoscere le evidenti contraddizioni presenti nelle
dichiarazioni della Turco. Ciò che mi imbarazza di più è il dover ricordare al
ministro della salute (per di più donna!), che da che mondo è mondo, la
gravidanza e tanto meno i rapporti sessuali non protetti non sono mai stati
classificati tra le possibili malattie che nostro malgrado ci possono capitare,
e che quindi i farmaci di cui si parla non servono né per salvare, né per
guarire nessuno. A coloro (farmacisti e rappresentanti di categoria) che con
grande senso civico si sono appellati all’obbligo di osservare le leggi dello
stato, vorrei chiedere perché di fronte alla liberalizzazione dei prodotti da
banco e delle licenze per le farmacie non si sono assoggettati alle leggi dello
stato con lo stesso rigore morale con cui oggi si sottraggono all’obiezione di
coscienza?
Al di là dell’inevitabile gioco delle parti, di
fronte ad una reazione così scomposta della pubblica opinione, mi sono più che
mai convinto che il tema della coscienza rappresenti il nervo scoperto del
nostro tempo, ricordando che i passaggi storici più dolorosi sono sempre
iniziati con l’anestetizzare prima e soffocare poi la coscienza degli
individui.
Don Marco
Belladelli.
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Speranza cristiana e
declino del mondo
Venerdì
30 Novembre scorso è stata pubblicata la seconda enciclica di Benedetto XVI.
Annunciata dai soliti ben informati già quest’estate come un intervento sui
temi sociali del nostro tempo, ancora una volta Papa Ratzinger spiazza tutti
scegliendo invece di parlare della seconda virtù teologale, la Speranza.
La
Spe salvi, questo è il titolo della nuova enciclica, si presenta come
una grande lectio magistralis, che a partire dal concetto cristiano di
Speranza, si sviluppa lasciandosi incalzare dalle domande che di volta in volta
sorgono in relazione a quanto si va progressivamente esponendo. Il discorso
spazia dai problemi di ermeneutica teologica, al confronto con la cultura
moderna, dalla testimonianza coraggiosa dei martiri e dei santi, alla
valorizzazione dei fioretti, i piccoli sacrifici quotidiani per mezzo dei quali
in un passato recente anche un bambino imparava a unire la propria vita a
quella di Gesù.
Secondo
il Papa, la novità del cristianesimo consiste nel possedere già al presente ciò
che si spera per il futuro, tanto che tutto quanto viene vissuto e sperimentato
nell’oggi diventa la prova certa, e non illusoria, di quel qualcosa di ancora
più grande che ci attende. “Il cielo non è vuoto.
La vita non è un semplice prodotto delle leggi e della casualità della materia,
ma in tutto e contemporaneamente al di sopra di tutto c'è una volontà
personale, c'è uno Spirito che in Gesù si è rivelato come Amore”
(n.5), uno Spirito che ci conosce e che è possibile incontrare. La dinamica
esistenziale, propria della virtù della Speranza, è quella che ci orienta verso
quella beatitudine, che ancora non conosciamo, ma dalla quale ci sentiamo
straordinariamente attratti. Il lavoro quotidiano per procurarci il pane del
corpo e dell’anima, ci prepara anche per il nuovo Paradiso che sta davanti a
noi.
Segue
a questo punto il confronto con l’epoca moderna, che occupa circa un terzo di
tutto il documento. Tanto rilievo evidenzia l’importanza di questo passaggio.
E’ la parte infatti che più è stata presa in considerazione dai vari
commentatori sui giornali e nel corso dei vari dibattiti che sono seguiti.
Ancora una volta il Papa va dritto al cuore della questione. La modernità
è iniziata con un passaggio sconcertante: la sostituzione della fede in
Dio con la fede nel progresso scientifico e tecnologico, dominato dalla
ragione, perfettamente libera. Attraverso l’analisi dei vari passaggi storici e
culturali, illustra l’ambiguità del progresso e la necessità di una autocritica
dell’età moderna, a cui si accompagna pure l’autocritica di un certo
cristianesimo moderno, non del tutto immune da un contagio, nemmeno tanto
superficiale.
L’enciclica
si conclude con l’indicazione di tre “luoghi” di apprendimento e di
esercizio della Speranza: la preghiera, l’agire e il soffrire, il Giudizio
finale a cui tutti saremo sottoposti.
Perché
il Papa ha scelto di parlare proprio della Speranza? Perché senza questa
prospettiva, tanto profonda da comprendere addirittura l’orizzonte
dell’eternità, e senza questo fondamento altrettanto solido, rappresentato
dall’attualità del gesto di Amore di Gesù, l’unico capace di suscitare in
coloro che ne sono toccati altrettanta forza di speranza per chi vive nel buio,
tutto si ridurrebbe a mera materialità. Non si tratta di un problema
contingente, ma del banco di prova per ciò che veramente vale in assoluto e
oltre ogni limite. Dalla citazione dello Pseudo-Rufino, secondo il quale “Il genere umano vive grazie a pochi; se non ci fossero
quelli, il mondo perirebbe...” (n. 15), si capisce che dalla
testimonianza di questa Speranza dipendono le sorti del mondo. Oggi c’è più che
mai bisogno di quella stessa Speranza che già duemila anni fa ha trasformato la
vita di molti uomini e donne, fino a renderli capaci di sopportare le
situazioni più dolorose e umilianti, senza disperare della propria salvezza. La
modernità ha dimostrato che la scienza (e con lei anche la tecnologia) è una
via indiscutibilmente utile per l’emancipazione, ma non per la redenzione
dell’uomo. Lo stesso discorso vale anche per le strutture. La loro bontà
costituisce certamente un aiuto, ma non cambiano l’uomo nel suo interno.
Continuando su questa via si rischia la fine perversa di tutte le cose, già
prevista da Kant oltre due secoli fa. Senza Dio all’uomo rimangono tante
speranze che continuamente sorgono e muoio come il sole ogni giorno, ma viene a
mancare la grande Speranza che non tramonta mai, quella che sostiene tutta la
vita, fino al raggiungimento della sua meta, l’eternità.
Concludiamo
lasciando la parola al Pontefice: “Dio è il
fondamento della speranza – non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un
volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l'umanità nel suo
insieme.” (n. 31).
Al
di là di tutto, questo è e rimarrà anche per il futuro prossimo il principale
dilemma del nostro tempo, o stiamo con Dio, il Dio cristiano, oppure siamo
contro di Lui e contemporaneamente anche contro l’uomo.
Don Marco Belladelli.
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Fate tacere Ratzinger!
Giovedì
17 Gennaio il Papa avrebbe dovuto partecipare all’inaugurazione del nuovo anno
accademico all’università de La Sapienza di Roma. Martedì 15/01
alle ore 17 e qualche minuto la sala stampa vaticana diramava il seguente
comunicato: A seguito delle ben note
vicende di questi giorni in rapporto alla visita del Santo Padre all’Università
degli Studi "La Sapienza" di Roma, che su invito del Rettore
Magnifico avrebbe dovuto verificarsi giovedì 17 gennaio, si è ritenuto
opportuno soprassedere all’evento. Il Santo Padre invierà, tuttavia, il
previsto intervento.
L’effetto
è stato pari all’esplosione di una bomba. I commenti e le reazioni si sono
sprecate. Da una parte lo sconcerto e lo sdegno della stragrande maggioranza
degli italiani, cattolici e non, che vedono in questo fatto il segno della
grave crisi culturale che attraversa il nostro Paese. Dall’altra una neanche
tanto malcelata soddisfazione di uno sparuto gruppo di irriducibili
anticlericali, gongolanti per essere riusciti con i loro metodi violenti,
almeno una volta, a far tacere non tanto il Papa, quanto piuttosto il “Ratzinger".
Diciamo subito che questa minoranza numericamente insignificante (67 professori
su 4.500, 1,375% e un centinaio di studenti contro le decine di migliaia che
frequentano l’università) non sarebbe arrivata a tanto senza la complicità dei
mass media, che farisaicamente ieri hanno concesso loro le prime pagine dei
giornali nazionali e le copertine dei vari TG, oggi si stracciano le vesti per
l’accaduto. Tanta enfasi non si giustifica soltanto con il diritto di cronaca,
ma risponde alle logiche e agli interessi, neanche tanto oscuri, di chi oggi
controlla il mondo dell’informazione in Italia.
In
un mio intervento su MANTOVACHIAMAGARDA del Febbraio scorso avevo accennato a
questa sempre più crescente insofferenza di certi ambienti laicisti e radicali
nazionali verso questo Papa, che con il suo argomentare logico, puntuale e
preciso smaschera le loro mistificazioni ideologiche fondate su uno scientismo
libertario, bolso e superato. Coloro che hanno impedito al Papa di partecipare
all’inaugurazione dell’anno accademico sono contenti, perché sono riusciti nell’intento
di chiudere la bocca all’uomo Ratzinger, la cui parola, chiara e forte, oggi
ancor più amplificata e autorevole per l’alto mandato di cui è investito, non
solo illumina, ma sbaraglia gli avversari. E quando non si è più in grado di
sostenere il confronto rispettoso e il dialogo corretto, per prevalere non
resta che la violenza, in qualsiasi forma la si esprima. Nell’atteggiamento
assolutamente irriducibile e assurdamente irrazionale di questi “scienziati”
anti-papalini del terzo millennio e dei loro adepti, mi è parso di cogliere
come una specie di furore sacrilego, cosa ben diversa da ciò che comunemente
chiamiamo passione ideologica, insomma qualcosa che mi ha ricordato certe scene
evangeliche, nelle quali con la stessa collera diabolica ci si scagliava contro
Gesù per farlo tacere. In proposito, qualora gli apostoli si fossero trovati
nelle stesse situazioni, Gesù ha dato delle indicazioni ben precise: “Se qualcuno poi non
vi accoglierà e non darà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da
quella città e scuotete la polvere dai vostri piedi.” (Mt 10,14). Allora quel “soprassedere”
contenuto nel comunicato della Santa Sede che cosa significa? E’ un rimandare a
tempi migliori, visto che un primo spostamento c’era già stato, dal 30/11 al 17/01,
oppure il Papa ha voluto evangelicamente scuotere anzitempo dalle proprie
scarpe, prima ancora che ne fossero imbrattate, la polvere di questa
anticultura irragionevolmente laicista e arrogante contro coloro che
ottusamente ancora la rappresentano e la sostengono?
Una
tale lettura dei fatti di questi giorni può risultare ai più un po’
stravagante, lo riconosco. Non lo è, se ricordiamo le parole pronunciate da
Benedetto XVI all’inizio del suo pontificato: Pregate per me, perché io non
fugga, per paura, davanti ai lupi. Come per dire, se proprio non lo
avessimo ancora capito, che quelli che stiamo vivendo sono proprio tempi da
lupi.
Don Marco Belladelli.
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Pasqua,
La novità
e
il pericolo della deriva
A
pochi giorni di distanza Benedetto XVI, con il suo solito stile fatto di
mitezza, ma di altrettanta chiarezza e puntuale precisione, sempre a scanso di
possibili fraintendimenti ed equivoci, ha lanciato due forti moniti alla
Chiesa. Tutti coloro che prendono sul serio la loro fede cristiana non possono
ignorare questi due passaggi e, in questo tempo dedicato alle solenni
celebrazioni pasquali, non trovare il tempo per riflettere su di essi e capire
che cosa comporti oggi il dichiararsi cristiani.
Cominciamo
da Sabato 8 Marzo, quando ricevendo in udienza l’assemblea plenaria del
Pontificio Consiglio per la Cultura ha detto: “Questa
secolarizzazione non è soltanto una minaccia esterna per i credenti, ma si
manifesta già da tempo in seno alla Chiesa stessa. Snatura dall’interno e in
profondità la fede cristiana e, di conseguenza, lo stile di vita e il
comportamento quotidiano dei credenti. Essi vivono nel mondo e sono spesso
segnati, se non condizionati, dalla cultura dell’immagine che impone modelli e
impulsi contraddittori, nella negazione pratica di Dio: non c’è più bisogno di
Dio, di pensare a Lui e di ritornare a Lui. Inoltre, la mentalità edonistica e
consumistica predominante favorisce, nei fedeli come nei pastori, una deriva
verso la superficialità e un egocentrismo che nuoce alla vita ecclesiale.”.
Otto
giorni dopo, nell’omelia della Domenica delle Palme in piazza S. Pietro,
parlando del mercanteggiare legalizzato a cui si era ridotto il culto nel
tempio di Gerusalemme al tempo di Gesù, ha detto: “Tutto ciò deve oggi
far pensare anche noi come cristiani: è la nostra fede abbastanza pura ed
aperta, così che a partire da essa anche i “pagani”, le persone che oggi sono
in ricerca e hanno le loro domande, possano intuire la luce dell’unico Dio,
associarsi negli atri della fede alla nostra preghiera e con il loro domandare
diventare forse adoratori pure loro? La consapevolezza che l’avidità è
idolatria raggiunge anche il nostro cuore e la nostra prassi di vita? Non
lasciamo forse in vari modi entrare gli idoli anche nel mondo della nostra
fede? Siamo disposti a lasciarci sempre di nuovo purificare dal Signore,
permettendoGli di cacciare da noi e dalla Chiesa tutto ciò che Gli è contrario?”.
Insomma,
secondo il Santo Padre, da una parte la fede cristiana è snaturata per il
condizionamento che subisce dalla cultura secolarizzata nella quale viviamo;
dall’altra la riduzione della religione a pratiche “idolatriche –mercantileggianti” offusca la luce di Dio per noi e
per tutti coloro che lo cercano con cuore sincero.
Non
è la prima volta che il Papa si occupa e si preoccupa delle difficili
condizioni in cui versa la Chiesa. Ricordiamo la famosa Via Crucis del
Venerdì santo del 2005, quando, ancora vivo Giovanni Paolo II, l’allora
Cardinal Ratzinger nel commento alla nona stazione deplorava la sporcizia che
c’è dentro la Chiesa, denunciando abusi di potere, vanità, superbia,
autosufficienza, eccesso di protagonismo e tante altre cose. Tra l’altro il
tema degli abusi sacramentali è anche una delle motivazioni che ha indotto
Benedetto XVI a reintrodurre l’antica liturgia pre-conciliare. Anche
nell’ultima enciclica, Spe Salvi, pubblicata il 30 Novembre scorso, non
si è lasciato sfuggire l’occasione per mettere in evidenza come in questi
ultimi decenni l’aria conciliare abbia significato per qualcuno un cedimento
più alle istanze della modernità, che non a quelle della fedeltà alle proprie
radici (cfr. SS n.22).
L’alta
autorità da cui viene questo monito, unito alla ripetuta insistenza con cui si
denuncia questa deriva della Chiesa, che interessa tanto i fedeli quanto i
pastori, non può non diventare una delle priorità su cui riflettere e
confrontarsi all’interno della Chiesa di oggi. L’urgenza e la necessità di un
tale dibattito, non nasce tanto dal bisogno di perseguire una perfezione, mai
totalmente realizzabile e raggiungibile nella condizione storica, quanto
piuttosto dall’esigenza di riproporre alle generazioni di oggi il Cristo del Vangelo
in tutta la sua potenza di vero Salvatore dell’umanità: “Al commercio di
animali e agli affari col denaro Gesù contrappone la sua bontà risanatrice.
Essa è la vera purificazione del tempio. Egli non viene come distruttore; non
viene con la spada del rivoluzionario. Viene col dono della guarigione. Si
dedica a coloro che a causa della loro infermità vengono spinti agli estremi
della loro vita e al margine della società. Gesù mostra Dio come Colui che ama,
e il suo potere come il potere dell’amore. E così dice a noi che cosa per
sempre farà parte del giusto culto di Dio: il guarire, il servire, la bontà che
risana.”
(dall’omelia della Domenica delle Palme).
Se
la Chiesa venisse meno alla fedeltà e al mandato di Cristo, non avrebbe più
senso di esistere. Siccome questo non può essere, allora avanti con la sfida
alla modernità, non per il gusto del conflitto, ma per aprire nuovi orizzonti
di vita e di speranza per l’oggi e per il domani. Buona Pasqua!.
Don Marco Belladelli.
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La domenica in albis
di magdi allam
Domenica
in albis deponendis. Da secoli la Domenica successiva alla Pasqua è così
chiamata, perché anticamente coloro che avevano ricevuto il battesimo nella
notte del Sabato santo, deponevano la veste bianca, indossata per l’occasione,
come segno della loro vita nuova di cristiani e della loro dignità di figli di
Dio, a immagine e somiglianza di Gesù. Anche Magdi Cristiano Allam deporrà oggi
la sua veste bianca. E speriamo che insieme con i segni liturgici vengano
deposte anche tutte le polemiche che in questa settimana hanno animato il
dibattito culturale e mediatico a seguito della sua conversione.
Se
ne sono dette di tutti i colori, a proposito e a sproposito. C’è chi subito, ha
gridato all’apostasia; chi addirittura ha parlato di una minaccia contro
l’Islam. Non poteva mancare poi chi ha colto l’occasione per insultare
nuovamente Papa Benedetto XVI, indicandolo come un provocatore nato, perché ha
acconsentito a battezzarlo personalmente, con tanta solennità, durante la
Veglia pasquale nella basilica di San Pietro, quando si aveva la certezza che
quelle immagini avrebbero fatto il giro del mondo. C’era bisogno di buttare
altra benzina sul fuoco delle difficili relazioni tra Occidente e Islam? Non ne
ha avuto abbastanza delle grane che ha causato il suo famoso discorso di
Ratisbona del Settembre 2006? E che dire poi de Il Corriere della Sera,
il maggiore quotidiano italiano di cui Allam è collaboratore da cinque anni e
vice-Direttore ad personam, che lo censura, pubblicando solo
parzialmente una sua lettera inviata al Direttore, Paolo Mieli, in cui il neo
battezzato illustra il suo percorso umano, spirituale, culturale e sociale, che
lo ha portato a vivere quello che egli stesso definisce “il giorno più bello della vita” e “un fatto
storico, eccezionale e indimenticabile, che segna una svolta radicale e
definitiva rispetto al passato”? E’ significativo che di quella lettera sia
stata tagliata propria la parte che fa riferimento agli aspetti umani e spirituali,
accentuando così quasi esclusivamente il valore polemico e politico della
scelta di Magdi Cristiano. Leggendola per intero si capisce che la conversione
non è semplicemente un abbandono di un islam “che è fisiologicamente
violento e storicamente conflittuale”, ma anche di un occidente che ha
fatto “dell’ateismo sventolato come fede” la propria bandiera.
Anche
se, da come pare, Il Corriere lo preferiva mussulmano, non si può
banalizzare la decisione di Magdi Allam alla stregua di un semplice cambio di
campo, una specie di trasformismo religioso e culturale, paragonabile a quello
a cui ci hanno abituato tanti politici nostrani in questi ultimi quindici anni.
Il suo è un vero e proprio incontro con il Cristo risorto, fino ad accettare la
logica dell’amore ai nemici. E’ lui stesso che lo riconosce esplicitamente,
quando dice: “Il miracolo della Risurrezione di Cristo si è riverberato
sulla mia anima liberandola dalle tenebre di una predicazione dove l’odio e
l’intolleranza nei confronti del ‘diverso’ ”. Secondo lui quella intrapresa è l’unica vera
strada che gli permette “di aderire all’autentica religione della Verità,
della Vita e della Libertà. Nella mia prima Pasqua da cristiano io non ho
scoperto solo Gesù, ho scoperto per la prima volta il vero e unico Dio, che è
il Dio della Fede e Ragione.”.
Di
fronte ad una straordinaria pagina di storia dell’umanità, dove al centro ci
sono la ricerca della Verità, l’amore per la Vita e il rispetto per la Libertà
individuale di chicchessia, è triste vedere come anche questo fatto venga
faziosamente manipolato, per essere asservito e sacrificato alla logica del
potere e delle convenienze di qualcuno. L’altra cosa che mi colpisce, anche se
purtroppo non è una novità in assolto e per questo è sempre più evidente, è il
disagio, per non dire il fastidio, di certi ambienti culturali e sociali tutte
le volte che si ha esplicitamente a che fare con avvenimenti che fanno
riferimento a Dio, a Cristo o alla Chiesa. Quando verrà il giorno in cui in
questo nostro Occidente, salvato dal Cristianesimo, si deporranno
definitivamente questi stupidi pregiudizi, causa di sterili polemiche, di
infondati accuse, fino ad arrivare a vere e proprie forme di disprezzo, per
tutto ciò che è cristiano?
Don Marco Belladelli.
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la “ratio” di ratzinger.
Negli
ultimi due anni Papa Ratzinger ha pronunciato tre interventi, davanti ad
importanti consessi internazionali, di intellettuali e non, nei quali ha
indicato la “ragione umana” come il punto di equilibrio e la via
maestra da seguire per risolvere altrettanti nodi problematici della cultura
del nostro tempo, quali i rapporti tra Stato e Chiesa, tra fede e ragione e tra
scienza e fede.
Cominciamo
dall’ultimo discorso tenuto a Parigi in occasione della sua recente visita in
Francia. Il 12 Settembre scorso, dopo la calorosa accoglienza delle massime
autorità francesi, presso il Collegio dei Bernardini, davanti a 700 persone,
rappresentanti del mondo culturale di quel paese, ha parlato sul tema: “Le
origine della teologia occidentale e le radici della cultura europea”. La
ricerca di Dio (quaerere Deum) dei monaci dell’alto medioevo è stato
l’inizio di un percorso che li ha indotti e condotti ad allargare il campo
delle loro indagini e conoscenze ad altri ambiti della natura. Così sono nate
le scienze profane, cioè la eruditio, come la chiama il Papa, l’inizio
di ciò che in senso più ampio oggi chiamiamo “cultura”. Quel cammino, che aveva
come fine l’incontro con Dio, è stato possibile grazie alla ragione umana.
Nella sua esemplarità, esso rimane un metodo oggi ancora valido ed è anche il
fondamento di ogni vera cultura. La conseguenza, neppure tanto implicita, è che
ogni laicità non può prescindere dalla spiritualità, in quanto, secondo il
percorso appena illustrato, quest’ultima è la garante della libertà e
dell’autonomia delle realtà terrene. Questi principi trovano una loro concreta
ed immediata applicazione nella necessaria distinzione tra la sfera politica e
quella religiosa, dove più è necessaria quella sana laicità, l’unica capace di
riequilibrare oggi il tanto problematico rapporto tra Stato e Chiesa.
Il
12 Settembre di due anni fa, Benedetto XVI pronunziò invece la ormai famosa lectio
magistralis di Ratisbona, a cui seguirono le violente reazioni soprattutto
da parte del mondo arabo, ma anche di alcuni intellettuali occidentali,
accodatisi con malcelato opportunismo. Ad innescare la polemica fu la citazione
di uno scritto di Manuele II Paleologo, imperatore di Costantinopoli, che in un
suo dialogo con un colto uomo persiano, giudicava negativamente l’Islam,
religione che prevede la possibilità di essere imposta, laddove fosse
necessario, anche con il ricorso alla violenza. Perfino il rammarico per il
fraintendimento patito, espresso dal Papa nell’Angelus della Domenica
successiva, fu equivocato da certa stampa come un formale atto di scuse. Il
tema del discorso era “Il rapporto tra fede e ragione”. Invece che di un
attacco all’Islam, si trattava di una dura critica alla ragione moderna, per il
suo sottrarsi in modo arrogante dal confronto con la fede. Questo arroccamento,
da una parte lascia spazio all’insorgere dei fondamentalismi religiosi, con le
conseguenze che oggi tutti ben conosciamo, dall’altra ci si concede di usare la
ragione per dimostrare tutto e il contrario di tutto, conducendo la cultura
occidentale moderna dentro il vicolo cieco del soggettivismo più assurdo e
contraddittorio. Oggi quel contributo è giudicato da molti intellettuali come
una pietra miliare da cui non si può prescindere, sia per affrontare il
problema del rapporto tra fede e ragione, sia per trovare un punto di
equilibrio nel dialogo interreligioso.
Il
terzo discorso è quello “non” pronunciato all’università de La
Sapienza di Roma il 17 Gennaio scorso, un fatto vergognoso ed offensivo non
soltanto per i credenti, ma per la coscienza civile e democratica di tutti gli
italiani. Allora fu affidato al Papa il tema de “Il rapporto tra scienza e
fede”. Mi limito a citare un passaggio conclusivo di quel discorso: “Se
la ragione – sollecita della sua presunta purezza – diventa sorda al grande
messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce
come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita.
Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola.”.
E’
il grande rischio che sta correndo la cultura europea oggi. Svincolarsi dalla
propria radice cristiana, significa frantumarsi in tanti piccoli universi
insignificanti, per poi essere riassorbiti da qualcosa di più forte ed
unitario. Basta guardare a ciò che già sta succedendo in Inghilterra (e in
parte anche in Francia), dove in nome della multiculturalità sono nate delle
corti in cui si giudica secondo la sharìa islamica e non secondo il diritto
comune dello stato sovrano, uguale per tutti.
Don Marco Belladelli.
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Cristiani e
Mussulmani in dialogo.
Giovedì
6 Novembre si è concluso a Roma il primo seminario del Forum
cattolico-mussulmano. Un evento quasi completamente ignorato dai grandi
quotidiani nazionali e dai telegiornali, tutti concentrati sulla vittoria di
Obama, che però, dopo i ventilati scontri di civiltà ripetutamente evocati da
più parti, a cominciare da quel fatidico 11 Settembre 2001, merita di essere
messo in risalto, prima di tutto come
metodo da usarsi per superare le conflittualità, poi per i contenuti oggetto
del confronto tra le parti ed infine anche per le conseguenze concrete e
immediate che già si sono registrate.
Se
pensiamo poi che all’origine di questo incontro tra cristiani e mussulmani c’è
il famoso discorso di Ratisbona del 12/09/2006 (quello in cui Ratzinger citava
lo scritto di Manuele II Paleologo, imperatore di Costantinopoli, che in un suo
dialogo con un colto uomo persiano giudicava negativamente l’Islam in quanto
religione che prevede la possibilità di essere imposta anche con il ricorso
alla violenza), che negli ambienti mussulmani fondamentalisti e non solo, fu
giudicato come un offesa irreparabile, tanto da scatenare reazioni così
violente, fino ad arrivare addirittura alle minacce di morte per il Papa, la
cosa diventa ancora più sorprendente e intrigante. Passata la burrasca, si
cominciò invece a riflettere seriamente sul contenuto di quel discorso, che
cioè nel rapporto tra le varie religione si doveva escludere qualsiasi ricorso
alla violenza e che la ragione doveva diventare il criterio comune in base al
quale trovare dei punti d’incontro per una convivenza pacifica di tutti. E così
il 12 Ottobre 2007 138 Personalità mussulmane indirizzarono una lettera al Papa
e a tutti i Capi delle varie Chiese cristiane del mondo invitandoli a
confrontarsi su ciò che le due fedi e pratiche religiose hanno in comune: i due
comandamenti dell’amore.
Nell’udienza
concessa a coloro che hanno partecipato al seminario, Benedetto XVI ha
richiamato la necessità che tutti insieme si concorra alla promozione della
dignità della persona, donne comprese, e a garantire il libero esercizio dei
diritti umani “nel pieno rispetto della libertà di coscienza e della libertà
di religione di ogni individuo”.
Senza
nascondere le diversità, che cominciano dal modo diverso di intendere Dio, dopo
tre giorni di dibattito sul tema al centro del confronto: i due comandamenti
dell’amore di Dio e del prossimo, nella dichiarazione finale in 15 punti sono
stati definiti ambiti precisi nei quali è possibile ritrovarsi insieme fin da
oggi, come per esempio sul valore della vita umana e della sua dimensione
trascendente, la dignità della persona e dei diritti individuali che ne
derivano, inclusa la libertà religiosa, la necessità di rinunciare a qualsiasi
forma di violenza e oppressione, soprattutto quando viene usata nel nome di
Dio, come nel caso degli attentati terroristici, e l’auspicio per una finanza
eticamente responsabile.
Una
prima conseguenza concreta, positiva e importante di questo seminario è stata
la coraggiosa Lettera dei 144. I firmatari sono cristiani, cattolici,
ortodossi e protestanti, 77 dei quali convertiti dall’Islam, tutti che vivono
nell’Africa del nord o in Medio Oriente. Per la prima volta in modo pubblico
chiedono che nei paesi arabi si metta fine alla condizione di “dhimmi” (gruppo protetto grazie al pagamento di una tassa al governo
islamico, escluso dalla effettiva parità nella società), cioè di
cittadini di seconda categoria loro riservata, che non si applichi la legge
islamica per i non mussulmani e che venga garantita la libertà di cambiare
religione come un diritto fondamentale.
Ora
alle parole devono seguire i fatti. Se è vero che tra cristiani e mussulmani
c’è bisogno di superare i pregiudizi e di non demonizzarsi a vicenda, è
altrettanto vero che quella libertà che oggi essi godono qui in Occidente, loro
non sono pronti a garantirla ai cristiani che vivono nei loro paesi. Insomma a
Roma da oltre dieci anni c’è una grande Moschea, quanto dobbiamo ancora
attendere per costruire una chiesa a La Mecca?
Don Marco Belladelli.
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Chiesa e crisi
economica
In
attesa della pubblicazione dell’enciclica sociale, che si dice sia stata
mandata ad una ulteriore revisione per renderla più corrispondente alla
situazione attuale, in questi ultimi mesi non sono mancati i pronunciamenti
degli uomini di Chiesa a proposito della grave situazione economica che stiamo
attraversando. Ha cominciato il Papa stesso quando tre mesi fa, in una
meditazione a braccio durante il recente Sinodo sulla Parola di Dio ebbe a
dire: “Lo vediamo adesso nel crollo delle grandi banche: questi
soldi scompaiono, sono niente. … Solo la Parola di Dio è fondamento di tutta la
realtà, è stabile come il cielo e più che il cielo, è la realtà”
(06/10/2008).
In
precedenza il cardinal Bagnasco, Presidente della C.E.I., negli interventi di apertura dei periodici incontri
del Consiglio permanente, non aveva mancato di sottolineare l’aggravarsi della
situazione economica del paese, denunciando le difficoltà di molte famiglie ad
arrivare a fine mese, e richiamando il dovere della carità cristiana a
soccorrere nelle necessità fondamentali del mangiare e del vestire color che
sono oppressi dalla povertà. E proprio nei giorni precedenti il Natale la CEI,
attingendo al gettito dell’8 x 1000, ha costituito un fondo per aiutare le
fasce sociali più deboli, colpite dalla crisi economica.
Il
tempo natalizio, con tutte le varie celebrazioni che lo caratterizzano e i
numerosi interventi previsti, è stata l’occasione, soprattutto per il Papa, per
ritornare sul problema della crisi economica che investe tutto il mondo e dire
una parola chiara su come uscire da questa grave situazione. Già nel messaggio
per la giornata mondiale della pace del 1° Gennaio scorso, pubblicato ai primi
di Dicembre, si metteva in relazione l’impegno per la pacifica convivenza tra i
popoli nel mondo con la lotta alla povertà, sotto tutte le forme nelle quali
essa si presenta: economica, culturale, morale e spirituale. Al n. 10 del
messaggio si fa esplicito riferimento alla ormai famosa finanza creativa,
il cui difetto di fondo sta nell’essere finalizzata non a sostenere lo sviluppo
economico concreto dei vari paesi del mondo, ma unicamente a produrre rendite
immediate che, come stiamo vedendo, alla fine si dimostra dannosa per tutti, anche
per chi per lungo tempo ha beneficiato di tali vantaggi.
Nell’omelia
della notte di Natale, nel messaggio Urbi et Orbi dello stesso giorno e
ancora nel primo giorno dell’anno il Papa ha parlato soprattutto della
necessità e dell’urgenza di cambiare prima di tutto il modello di sviluppo
economico. La logica della cosiddetta scuola neoconsevatrice, quella che
fino ad oggi ha dettato legge ai mercati di tutto il mondo, dice: prima creiamo
reddito e poi lo redistribuiamo. Ratzinger dice esattamente il contrario:
siccome la redistribuzione è la causa dello sviluppo, essa viene prima di
qualsiasi altra cosa. Tanto per intenderci: vi ricordate la parabola evangelica
in cui c’è un padrone che prima di partire per un lungo viaggio distribuisce ai
suoi servi le sue sostanze, a chi dieci talenti, a chi cinque e a chi uno, a
ciascuno secondo le sue capacità? Al suo ritorno i servi, chiamati al rendiconto, orgogliosamente mostrano di aver
raddoppiato il capitale ricevuto. (cfr. Mt 25,14-30). Questo è il modello di
sviluppo che la Chiesa propone di seguire, quello in cui tutti sono coinvolti
nel processo produttivo. Insomma l’equità deve essere il principio fondante
dell’economia. Soltanto così lo sviluppo produrrà ancor più equità.
Diversamente si diventa tutti più poveri. Come la cronaca recente dimostra,
anche coloro che pensavano di arricchirsi sulle spalle altrui alla fine sono
rimasti con niente in mano.
Già
nel Novembre del 1985, in una conferenza tenuta presso l’Università Urbaniana
di Roma, l’allora Cardinal Ratzinger aveva previsto la situazione che oggi
stiamo vivendo. Fa parte della missione della Chiesa svolgere anche questo compito,
quello cioè di farsi baluardo in difesa dei più poveri, contro coloro che hanno
fatto (e continueranno a fare!) della logica del profitto, e del potere che da
esso ne deriva, la ragione del loro vivere.
Don Marco Belladelli.
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Lefebvriani, tra
scomuniche e negazionismo.
Al
termine dell’udienza di Mercoledì 28/01 scorso in sala Paolo VI, alla quale
erano presenti gli artisti del circo Medrano, uno di loro ha presentato al Papa
un leoncino e Ratzinger, contento come un bambino, lo ha accarezzato. Guardando
questa bella immagine, vorrei pensare che, pur trovandosi al centro di aspre
polemiche, quali quelle che si sono scatenate contro di lui in questa
ultima settimana, il Papa sia rimasto
sereno e pacifico, aiutato da quella semplicità disarmante e quasi fanciullesca
che lo contraddistingue.
Tutto
è cominciato sabato 24/01, quando è stato reso noto il decreto di ritiro della
scomunica ai quattro Vescovi ordinati illecitamente più di vent’anni fa dal
Vescovo ulta tradizionalista francese Mons. Lefebvre. Immediatamente si sono
aperti due fronti critici, uno interno alla Chiesa e un altro esterno. Il primo
riguardava la validità del Concilio Vaticano II. Ho sentito e letto
dichiarazioni contrapposte, tra chi, stracciandosi le vesti, vedeva in questo
gesto del Papa la fine del Concilio, e chi invece cantava vittoria, perché
finalmente si erano riconosciute le ragioni dei paladini della tradizione
pre-conciliare. L’altro fronte si riferiva invece alle dichiarazioni
negazioniste della shoah fatte da uno dei quattro Vescovi ex
scomunicati, Richard Williamson. Qualcuno, con troppa precipitazione e saltando
dei passaggi obbligati, prima di tipo logico e poi istituzionale, ha pensato
che l’atto di perdono del Papa significasse anche avvalorare le affermazioni
del Williamson. La coincidenza poi con la celebrazione del giorno della
memoria per tutte del vittime del nazifascismo ha fatto da straordinario
amplificatore alla questione.
Ci
associamo alla comprensibile indignazione della Comunità Ebraica, che, di
fronte alle assurde tesi dei negazionisti, vede di nuovo umiliati e offesi
tutti i milioni di vittime dell’olocausto e il riaffacciarsi minaccioso dello
spettro dell’antigiudaismo e dell’antisemitismo. Davanti a tanto rinnovato
dolore, nella stessa udienza già citata, Benedetto XVI non ha mancato di
manifestare tutta la sua più sentita e partecipata solidarietà, dicendo: “Mentre
rinnovo con affetto l’espressione della mia piena e indiscutibile solidarietà
con i nostri Fratelli destinatari della Prima Alleanza, auspico che la memoria
della Shoah induca l’umanità a riflettere sulla imprevedibile potenza del male
quando conquista il cuore dell’uomo. La Shoah sia per tutti monito contro
l’oblio, contro la negazione o il riduzionismo, perché la violenza fatta contro
un solo essere umano è violenza contro tutti.”
Meraviglia
però che in Vaticano sia sfuggito un particolare tanto importante e delicato
riguardante la questione ebraica, quando sarebbe stato sufficiente visitare il
sito internet dello storico inglese David John Cawdell Irving, uno tra i
maggiori esponenti del negazionismo, e per questo già condannato a tre anni di
carcere in Austria, per rendersi conto che il Williamson era un suo adepto.
Pare comunque che, dopo i tuoni e i fulmini degli ultimi giorni, i rapporti tra
Vaticano e mondo ebraico siano tornati più sereni, anche perché l’alzare
ulteriormente i toni, avrebbe rischiato di far saltare la programmata visita a
Maggio del Papa in Israele. Cosa che non conviene a nessuna delle due parti.
L’altra
polemica tutta interna alla Chiesa, riguarda invece l’accoglienza del Concilio
Vaticano II da parte degli eredi di Mons. Lefebvre, oggi riuniti nella
Fraternità sacerdotale San Pio X. Il
Papa stesso ha spiegato che il suo gesto va compreso nell’orizzonte specifico
del suo ministero di successore di Pietro a servizio all’unità della Chiesa.
Per questo ha ritenuto necessario rispondere alla sofferenza manifestata dai
quattro presuli con un atto di paterna misericordia, al quale deve seguire “il
sollecito impegno da parte loro di compiere gli ulteriori passi necessari per
realizzare la piena comunione con la Chiesa, testimoniando così vera fedeltà e
vero riconoscimento del magistero e dell’autorità del Papa e del Concilio Vaticano
II.” (28/01/09).
Al
di là delle rivalse anticonciliari e antitradizionaliste, il ritiro della
scomunica non significa ancora la piena comunione della Fraternità San Pio X
con quella Chiesa cattolica romana, di cui essi dicono di sentirsi parte e di
voler servire con tutte le loro forze; come del resto non sono previste
particolari manovre revisionistiche, che eviti loro di fare i conti con il
Concilio. Tra i lamenti di chi vede il Concilio morto e sepolto e i cori
trionfanti dei tradizionalisti, scelgo la serena letizia di Benedetto XVI. Come
si è già verificato per il famoso discorso di Ratisbona e per altre situazioni
critiche del suo pontificato, anche in questo caso alla fine il vero vincitore
sarà lui.
Don Marco Belladelli.
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Il coraggio di
Benedetto XVI
E’
la seconda volta che Papa Ratzinger scrive una lettera a tutti i Vescovi del
mondo per spiegare una sua decisione. La prima volta fu nel Luglio del 2007,
quando liberalizzò la celebrazione della S. Messa con il rito preconciliare. La
seconda volta è accaduto Giovedì scorso, 12/03, per spiegare la remissione
della scomunica ai quattro Vescovi ordinati illecitamente più di vent’anni fa
dal tradizionalista, Mons. Lefebvre. Mentre nel primo caso la lettera è stata
pubblicata insieme al motu proprio Summorum Pontificum, ora invece segue
di quasi due mesi il provvedimento di ritiro della scomunica.
Si
tratta di un gesto inusuale per un Papa, come pure di un modo insolito di
governare la Chiesa. Lo ha riconosciuto anche il Cardinal Ruini, quando in un
suo intervento sull’ Osservatore Romano a commento della lettera parla
di "una
comunicazione personale che supera i limiti dell'ufficialità e si offre al
lettore in maniera trasparente, consentendogli di entrare, per così dire,
nell'animo del Papa". Un animo che, come avevamo auspicato nel nostro
ultimo intervento su questo giornale (04/02/09), speravamo fosse rimasto
sereno, nonostante le polemiche di cui era oggetto. Oggi invece veniamo a
sapere quanto ha sofferto di fronte alla perplessità e alla incomprensione di
tanti Vescovi, e di altri che addirittura sono arrivati ad accusarlo “di
voler tornare indietro, a prima del Concilio”.
Di fronte alla “veemenza” con
cui gli oppositori si sono scagliati contro di lui, il Papa avrebbe potuto
benissimo scaricare le colpe sui suoi collaboratori. Invece prima di tutto
comincia riconoscendo umilmente i suoi errori, assumendosene tutta la
responsabilità, senza neppure tirare in ballo coloro che, invece di aiutarlo,
lo hanno esposto a questo vergognoso tiro al piccione. Anzi, quando parla di internet come
di una fonte di notizie da non trascurare, aggiunge pure che per il futuro farà
tesoro di questa brutta esperienza.
Nel
passaggio successivo della lettera, Benedetto XVI torna a spiegare “il
significato positivo come anche il limite del provvedimento del 21 gennaio 2009”,
che cioè la scomunica è una sanzione disciplinare personale, la sua remissione
faceva seguito alla disponibilità dimostrata dagli interessati di riconoscere
l’autorità del Papa e del Concilio e non comportava l’automatico riconoscimento
canonico della Fraternità San Pio X.
Nella
parte finale affronta in modo aperto e diretto quelle che egli ha sentito come
le critiche più pesanti, perché rivolte contro la sua persona e il suo
ministero: “Ora però rimane la questione: Era tale provvedimento necessario?
Costituiva veramente una priorità? Non ci sono forse cose molto più
importanti?”. La risposta è altrettanto lapidaria e non lascia alcuna
possibilità di replica. Se qualcuno non lo avesse ancora capito, “l’impegno
faticoso per la fede, per la speranza e per l’amore nel mondo costituisce in
questo momento (e, in forme diverse, sempre) la vera priorità per la Chiesa,
allora ne fanno parte anche le riconciliazioni piccole e medie.”.
A
coloro che in questi anni nella Chiesa sono diventati maestri del politicamente
corretto, cioè espertissimi nel calcolare l’opportunità o meno di certi gesti o
di certe parole, il Papa risponde riportando al centro dell’esperienza
cristiana l’essenza del Vangelo. Quando poi Ratzinger stesso rilegge tutto
l’accaduto alla luce di quanto San Paolo scrive ai Galati (cfr. 5,13-15), non
si può non pensare che, se siamo arrivati a questo punto, lo si debba ad una
caduta della tensione spirituale ed alla conseguente carenza di integrità
morale.
Se qualcuno poi non se ne
fosse ancora accorto o non ne fosse pienamente convinto, in questa lettera
Benedetto XVI dimostra tutto il suo coraggio di non fuggire “per paura, davanti ai lupi”, da qualsiasi parte essi vengano,
dall’interno o dall’esterno della Chiesa Cattolica,
come aveva promesso quattro anni fa all’inizio del suo pontificato.
Don Marco Belladelli.
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Il Papa, i
preservativi e l’AIDS.
Martedì
scorso, mentre si era in volo verso Yaoundè, la capitale del Camerun, nella
ormai tradizionale conferenza stampa che il Papa tiene con i giornalisti
accreditati che lo accompagnano sul suo stesso aereo, durante il tratto di
andata dei suoi viaggi, un corrispondente della televisione francese ha chiesto
a Ratzinger che cosa pensasse di chi giudica “La
posizione della Chiesa cattolica sul modo di lottare contro l’AIDS non
realistica e non efficace”. Benedetto XVI ha risposto dicendo che è
vero esattamente il contrario: “Penso che la
realtà più efficiente, più presente, più forte della lotta contro l’Aids sia
proprio la Chiesa cattolica”, elencando di seguito tutte le varie
realtà ed istituzioni religiose direttamente impegnate in questo senso. E poi
ha aggiunto “Direi che non si può superare questo
problema dell’Aids solo con soldi. Sono necessari, ma se non c’è l’anima che li
sappia applicare, non aiutano, non si può superare con la distribuzione di
preservativi: al contrario, aumentano il problema”. Ha poi anche indicato due strade da percorrere,
finalizzate al cambiamento dei comportamenti e dei costumi che sono la causa di
questa pandemia, “l’ umanizzazione della sessualità e una vera
amicizia anche e soprattutto per le persone sofferenti”.
Il
primo ad attaccare il Papa per queste sue dichiarazioni, a proposito della
inefficacia dei preservativi, è stato il ministro degli esteri francese, il
quale ha visto nelle parole del Pontefice addirittura “una minaccia alla salute pubblica e al dovere di salvare
vite umane”. A ruota sono poi arrivate le prese di posizione di un
ministro olandese e di uno tedesco. Si è scomodato perfino il Fondo Monetario
Internazionale e per finire il governo spagnolo, per reazione, si è impegnato
ad inviare un milione di condom in
Riporto alcuni dati riferiti dall’agenzia AsiaNews, che ci
aiutano a capire di che cosa stiamo parlando. L’agenzia dell’Onu per la lotta all’Aids
in uno studio
A questo punto il discorso si farebbe lungo e complesso. Di fatto
ciascuno rimane libero di trarre le proprie conclusioni, con tutti i ma e i
però che preferisce, e pure di continuare ad agire come meglio crede, se è
convinto dell’efficacia dei preservativi. Come dice il proverbio: uomo
avvisato, mezzo salvato.
Mi resta solo da dire che nella foga di attaccare il Papa, non è
stato dato adeguato risalto alla notizia di poche ore dopo, che cioè Benedetto
XVI, appena sbarcato a Yaoundè, portando come esempio il centro Cardinal Lèger,
dove
Don Marco Belladelli.
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Il Papa in Terra
Santa.
Tra
pochi giorni il Papa si recherà in Terra Santa. Il programma prevede la visita
in Giordania, Israele e nei territori dell’Autorità Nazionale Palestinese. Un
viaggio tanto desiderato da Benedetto XVI e altrettanto ostacolato. Poco più di
sei mesi fa era ancora in corso il conflitto nella striscia di Gaza dove ci
sono stati più di 1.500 morti. Tra il Gennaio e il Febbraio scorsi è seguita la
polemica per la remissione della scomunica al vescovo lefebvriano negazionista
Williamson. E, soprattutto in Italia, non sono ancora state superate le
divergenze per la preghiera del Venerdì Santo della liturgia preconciliare che,
se pur modificata dal Papa stesso, a molti rabbini proprio non va giù. Per non
parlare poi delle tante ragioni di perplessità che vengono dall’interno della
Chiesa stessa. Un esempio su tutti: i Vescovi dell’area interessata
dall’itinerario papale avevano consigliato di rimandare a tempi di maggiore
tranquillità per questa regione tanto travagliata. A tutto questo si sono
aggiunte ultimamente addirittura minacce di morte nei confronti del Pontefice.
Un attentato a Benedetto XVI sarebbe un evento talmente grave, da innescare
reazioni difficilmente immaginabili e dalle conseguenze fuori da qualsiasi
possibile controllo. Ovviamente scenari tanto drammatici sono assolutamente da
scongiurare. Resta il fatto che Israeliani, Palestinesi e Arabi, sono in
concorrenza gli uni con gli altri e nello stesso tempo vogliono a loro modo
trarre il massimo vantaggio possibile dalla visita del Papa. Insomma, mai
viaggio papale si è presentato tanto complesso dal punto di vista umano,
religioso e sociopolitico.
Circa
venti giorni fa, in una intervista ripresa da numerose testate giornalistiche,
il Patriarca latino di Gerusalemme, Sua Beatitudine Fouad Twal, ha dichiarato:
“Al Papa pellegrino, i cristiani locali
dicono “Ahlan wa sahlan!”, “Benvenuto!”. Le loro inquietudini risiedono
semplicemente nella domanda: “Che cosa dirà?”, o meglio “Che cosa gli si farà
dire?”. Interrogativi che trovano risposta nel coraggio e nella fermezza
più volte dimostrata da Papa Ratzinger. Con la sua semplicità e i suoi modi
gentili, non risparmia mai niente a nessuno, sa andare dritto al nocciolo della
questione, chiunque sia il suo interlocutore, in qualsiasi contesto si trovi,
senza essere né inopportuno, né impertinente.
Nelle
diverse occasioni in cui il Pontefice ha parlato di questo suo prossimo viaggio
in Terra Santa, lui stesso ha tenuto a precisare che si tratta di pellegrinaggio,
cioè di un viaggio principalmente dalla valenza religiosa. Ha anche indicato i
due obiettivi principali che si propone di perseguire con la sua presenza nella
terra di Gesù: confortare i cristiani di quelle regioni tanto tribolate,
confermandoli nella fede e nella speranza, e contribuire con la sua presenza ad
un vero e concreto processo di pace per tutti.
Il
Papa conosce bene le sofferenze di queste Chiese, prima di tutto per una
condizione di marginalità nella quale si trovano normalmente a vivere, a cui si
aggiungono le pesanti conseguenze del conflitto arabo-israeliano, aperto da
decenni e per il quale non si intravedono prossime facili soluzioni. I
cristiani mediorientali sono nella stragrande maggioranza arabi e palestinesi.
La loro situazione è come quella di chi si trova tra l’incudine e il martello e
spesso l’unica soluzione per la sopravvivenza resta l’esilio, come è successo
in IRAQ, dove dallo scoppio della guerra fino ad oggi, quasi un milione di
cristiani hanno abbandonato il loro paese, cercando rifugio all’estero.
Per
quanto riguarda invece il difficile problema della pace, Benedetto XVI non si
fa illusioni. Del resto non spetta a lui proporre soluzioni diplomatiche e
tantomeno dettare condizioni politiche. Ricordando però quello che disse a
Gerusalemme nel 1994, quando fu invitato a parlare del rapporto tra ebrei e
cristiani: “ebrei e cristiani
devono accogliersi reciprocamente in una più profonda riconciliazione, senza
nulla togliere alla loro fede e, tanto meno, senza rinnegarla, ma anzi a
partire dal fondo di questa stessa fede. Nella loro reciproca riconciliazione
essi dovrebbero divenire per il mondo una forza di pace.”, mi pare di capire che
ancora insisterà su questi stessi temi, ritenendo il riavvicinamento tra gli
ebrei e i cristiani la base fondamentale su cui poggiare i
successivi impegni di pacificazione con tutto il mondo arabo-mussulmano.
Don Marco Belladelli.
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Giordania, “Terra
Santa” per il dialogo e la convivenza pacifica tra cristiani e mussulmani
Quando
si dice “Terra Santa”, si pensa subito ai luoghi della vita di Gesù e alle
città tradizionalmente meta dei pellegrinaggi dei cristiani, vale a dire
Gerusalemme, Betlemme, Nazareth e dintorni. Ma molti degli avvenimenti raccontati
nell’Antico testamento, che hanno avuto come protagonisti i Patriarchi, i
Profeti e i vari Re d’Israele, ugualmente importanti per la nostra fede, si
sono svolti in quello che oggi è territorio del Regno di Giordania, da dove
venerdì 08/05 Benedetto XVI ha voluto cominciare il suo pellegrinaggio. Il
programma del viaggio papale prevedeva all’arrivo l’inaugurazione del centro
per handicappati Regina Pacis di
Amman, dove l’ 80% dei ricoverati sono mussulmani. Sabato 10/05, prima di far
visita all’antica basilica del “memoriale di Mosè” sul monte Nebo, luogo
straordinario per riconoscere le comuni radici di ebrei e cristiani e per
riaffermare “l’inseparabile vincolo”
che unisce la Chiesa e il popolo eletto, ha benedetto la posa della prima
pietra della futura Università cattolica di Màdaba, città posta a circa
Con
l’inaugurazione del centro per handicappati e con la sosta presso quella che
sarà
L’incontro
con i capi religiosi mussulmani, guidati dal principe Ghazi Bin Muhammed Bin
Talal, cugino del re Abdullah II,
tenutosi davanti alla moschea dedicata al defunto re Hussein, ha
rappresentato un vero e proprio sviluppo positivo, oltre ogni più ottimistica
previsione, della ormai storica lectio
magistralis di Ratisbona del 13 Settembre
Oltre
ai fondamentali significati religiosi e spirituali, i gesti compiuti, le parole
pronunciate dal Pontefice in Giordania, unita alla cordiale e sincera
accoglienza che essi hanno trovato da parte di coloro che hanno avuto l’onore
di ospitarlo, sono certo che rappresenteranno in futuro dei punti di
riferimento importanti, sia per la vita della Chiesa, sia per i suoi complessi rapporti
con il mondo arabo-mussulmano in genere.
Don Marco Belladelli.
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A quando la
riconciliazione tra Chiesa e Sinagoga?
Che il passaggio in Israele sarebbe stato per
Benedetto XVI molto più ostico, rispetto ai tre giorni di squisita ospitalità
araba di cui ha beneficiato in Giordania, era in qualche modo prevedibile.
Nessuno, più di Ratzinger, prima come teologo e poi da Papa, ha dedicato tanta
attenzione ai rapporti con gli Ebrei (2005: vista alla sinagoga di Colonia;
2008: visita alla sinagoga di New York; udienze romane a diverse organizzazioni
ebraiche internazionali). Tuttavia rimane da parte loro nei suoi confronti una
sorta di diffidenza, evidenziatasi in modo tanto inequivocabile proprio nei
giorni del suo pellegrinaggio a Gerusalemme. Se si fa eccezione della cortesia
usatagli dal Presidente Simon Peres al suo arrivo in Israele, sia la visita
allo Yad Vashem e al muro del pianto, che l’incontro con il Gran Rabbinato sono
stati caratterizzati da momenti di freddezza, al limite dell’imbarazzo. A molti
commentatori israeliani non è piaciuto ciò che il Papa ha detto al museo
dell’olocausto, perché, a loro dire, in quel luogo doveva prima di tutto
chiedere perdono ai sei milioni di vittime come tedesco e come cristiano.
Alcuni hanno sottolineato che non ha visitato tutte le sale del memoriale,
forse per non trovarsi davanti alla famosa foto del suo predecessore, Pio XII, con
relativa didascalia, in cui lo si accusa di essere uno dei responsabili dello
sterminio. E infine, secondo altri, non ha dimostrato la commozione di Giovanni
Paolo II, né tantomeno ha suscitato l’emozione del suo augusto predecessore.
Consapevole di trovarsi in uno dei luoghi di
maggiore criticità sociopolitica di tutto il pianeta, da cui dipende la pace
mondiale, nell’omelia di Martedì 12, nella valle di Giosafat, che separa il
monte degli Ulivi dalla città di Davide, Papa Ratzinger ha evidenziato il paradosso
di Gerusalemme, da cui deriverebbero chiusure e rigidità. Da una parte c’è la
sua vocazione e missione di città santa, città della pace, e dall’altra il suo
destino secolare di trovarsi al centro di conflitti e divisioni, senza
soluzione di continuità. Le contrapposizioni generano sofferenze, che a loro
volta irrimediabilmente induriscono i cuori e impediscono al presente ogni
possibile via alla pace: “In questa Santa Città dove la vita
ha sconfitto la morte, dove lo Spirito è stato infuso come primo frutto della
nuova creazione, la speranza continua a combattere la disperazione, la
frustrazione e il cinismo, mentre la pace, che è dono e chiamata di Dio,
continua ad essere minacciata dall’egoismo, dal conflitto, dalla divisione e
dal peso delle passate offese.”
Nell’incontro del mattino con i membri del
Gran Rabbinato di Gerusalemme, per non smentirsi a proposito della sua
disarmante trasparenza, aveva invece fatto esplicito riferimento al quel
sentimento di sospettosa prevenzione con cui è stato accolto: “La fiducia è
innegabilmente un elemento essenziale per un dialogo effettivo.”. Come a
voler sottolineare che per dialogare bisogna essere in due, disposti da ambo le
parti a far credito di buona fede al proprio interlocutore per poterlo
ascoltare.
Benedetto XVI è andato in Israele pronto ad
imbastire una vera riconciliazione tra cattolici ed ebrei: “Oggi ho
l’opportunità di ripetere che
Don
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L’inquinamento
spirituale
In
questi giorni, le più importanti testate giornalistiche nazionali sia
radiotelevisive, sia della carta stampata, hanno dato grande risalto ad alcuni
passaggi dell’omelia che il Papa ha tenuto Domenica scorsa 31/05, solennità di
Pentecoste. Prima di tutto voglio
ricordare che la Pentecoste, nonostante non sia accompagnata da tradizioni ed
esteriorità particolari, come per esempio il Natale, non è una Domenica
qualsiasi dell’anno, ma, volendo fare una scaletta, tra tutte le celebrazioni
cristiane è la festa più importante, dopo
Va
pure detto che la prima preoccupazione di Ratzinger nelle sue omelie è quella
di illustrare il valore salvifico della festa o dell’evento particolare che si
celebra, per aiutare i fedeli ad accogliere e a vivere il mistero di grazia in
esso presente. Commentando quindi l’evento della Pentecoste, così come lo
descrive san Luca al cap. 2 degli Atti degli Apostoli, a proposito del vento impetuoso, il segno sensibile
attraverso il quale si percepisce la presenza e l’azione divina dello Spirito
Santo, in questo caso molto simile ad una vera e propria tempesta che ha invaso
il cenacolo dove erano riuniti Maria e gli Apostoli in preghiera, ha paragonato
lo Spirito Santo all’aria, elemento essenziale per la vita dell’uomo sulla
terra, e ha detto: “Quello che l’aria è per la vita biologica, lo è lo
Spirito Santo per la vita spirituale”. Sempre in linea con lo
stesso paragone ha poi aggiunto: “E come esiste un inquinamento atmosferico,
che avvelena l’ambiente e gli esseri viventi, così esiste un inquinamento del
cuore e dello spirito, che mortifica ed avvelena l’esistenza spirituale”,
facendo anche alcuni esempi concreti, per non essere frainteso: “ad esempio immagini che
spettacolarizzano il piacere, la violenza o il disprezzo per l’uomo e la donna.
”. Ma, a detta del Papa, il vero problema è che in nome della
libertà l’inquinamento spirituale viene non solo tollerato, ma addirittura
giustificato: “A
questo sembra che ci si abitui senza difficoltà. Anche questo è libertà, si dice, senza riconoscere
che tutto ciò inquina, intossica l’animo soprattutto delle nuove generazioni, e
finisce poi per condizionarne la stessa libertà”.
Tra
i tanti commenti pro e contro che ho letto e ascoltato, mi ha colpito quello di
chi facendo finta di non capire, ha spostato la questione su un altro piano,
rimandando il problema al mittente. Secondo il sociologo Alberoni infatti è la
Chiesa oggi ad aver perso il contatto con le nuove generazione. Il Papa parla
esclusivamente ad essa e per essa, quindi l’inquinamento spirituale è qualcosa
che la riguarda in prima persona. Molti altri hanno fatto lo stesso gioco
logicamente scorretto, quello cioè di cambiare il punto di vista, per poi
concludere che la riflessione del Papa è fuori luogo o del tutto non
pertinente. Altri invece, forti della superficialità del mestierante, propria
di chi è abituato a semplificare fino alla banalità, sono partiti per la
tangente, parlando e disquisendo di inquinamento “morale”, termine ed orizzonte del tutto assente dal testo papale.
Prendo
atto, mio malgrado, dell’ennesimo tentativo di mistificazione della verità e
della realtà, e soprattutto della pregiudiziale chiusura a qualsiasi dialogo
con la Chiesa, e con chi la rappresenta, da parte dei soliti ambienti culturali
ad essa refrattari, anche quando il messaggio in sé rimane molto semplice e
chiaro per tutti, sia per chi lo voglia ascoltare, sia per chi lo voglia ignorare,:
“La metafora del vento impetuoso
di Pentecoste fa pensare a quanto invece sia prezioso respirare aria pulita,
sia con i polmoni, quella fisica, sia con il cuore, quella spirituale, l’aria
salubre dello spirito che è l’amore!”. Paradossalmente, come
lo smog delle nostre città aumenta il desiderio e il bisogno dell’aria pura e
fresca di montagna per i polmoni, così coloro che negano un qualsivoglia
inquinamento spirituale, rendono ancor di più
straordinariamente necessaria quell’aria pura dello Spirito, cioè
l’amore che fa bene al cuore, perché tutto ciò che non è amore avvelena,
condiziona e rende meno liberi.
Don Marco Belladelli.
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La fede adulta
Qualche
mese fa, durante una cena con amici, come spesso accade quando è presente un
prete, il discorso è andato a finire quasi naturalmente sulla Chiesa, in
particolare sulla Chiesa locale e sui chiari di luna che sta attraversando per
la carenza di sacerdoti, l’accorpamento delle parrocchie e con tutte le conseguenze
che questo comporta. Per capire il presente, è venuto spontaneo il confronto
con il passato, in questo caso con un passato molto recente, dove si trovano
immediatamente le cause e le ragioni del malessere di oggi. Si raccontava di
cose vissute circa venticinque, trent’anni fa, cioè tra la fine anni settanta e
la prima metà degli anni ottanta tanto per intenderci, quando con la pretesa di
formare cristiani adulti si sono proposti, e anche un po’
imposti, non soltanto ai ragazzi, ma anche ai loro genitori, ritmi di catechesi
al limite dell’esasperazione. Ricordo che un carissimo amico sacerdote aveva
definito questi programmi pastorali delle mostruose macchine trita fumo. Credo
che non fosse tanto lontano dalla verità. La maturità cristiana a cui si mirava
era intesa più sul piano psicologico della consapevolezza umana, che non su
quello della grazia divina e degli effetti positivi derivanti dalla sua
accoglienza. Un fraintendimento non da poco, che alla fine legittima anche gli
insuccessi di tante attività pastorali.
Da
allora non avevo più sentito parlare di fede
adulta, fino a quando alcuni anni fa questa espressione è stata adottata da
qualche politico di razza di area cattolica, in occasione del referendum per
l’abrogazione della legge sulla fecondazione assistita, per smarcarsi dalle
posizioni della Chiesa sul tema in questione e, più in generale, sui cosiddetti
temi eticamente sensibili, di cui in questi ultimi tempi si discute molto.
Domenica
28/06, durante la celebrazione di chiusura dell’Anno Paolino, è stato il Papa stesso a parlare di nuovo di fede adulta per spiegarne il significato
originale, secondo il pensiero di colui che per primo ha usato questa
espressione, l’apostolo San Paolo. La fede matura consiste nel coraggio di
aderire a quanto la Chiesa insegna, anche quando questo va contro gli schemi
del modo contemporaneo. Dopo aver criticato coloro in nome della loro autonomia
e libertà di coscienza prendono della fede cristiana ciò che fa loro comodo e
rigettano invece ciò che indispone, o comunque non è in sintonia con il modo di
pensare che va per la maggiore, insomma vive un cristianesimo un po’ alla fai da te, il Papa ha aggiunto: “La fede adulta non si
lascia trasportare qua e là da qualsiasi corrente. Essa s’oppone ai venti della
moda. Sa che questi venti non sono il soffio dello Spirito Santo; sa che lo
Spirito di Dio s’esprime e si manifesta nella comunione con Gesù Cristo”.
Se
la riflessione si fermasse a questo punto, qualcuno potrebbe ridurre il
problema della fede adulta ad una
semplice questione morale di tipo generale. In qualsiasi situazione o ambito
del vivere umano, a chiunque è sempre richiesto un minimo di coerenza.
Continuando però nell’analisi del pensiero di San Paolo, Ratzinger evidenzia
che l’interesse ultimo del cristiano e del suo pensare e vivere secondo la
fede, non è il proprio bene personale, né tanto meno il solo bene della Chiesa,
ma il tutto nella sua integrità, cioè
l’universo intero e la sua trasformazione in Cristo. Insomma chi vive della
vera fede, appunto di una fede adulta,
contribuisce al vero progresso del mondo. Per dirla ancora con Benedetto XVI: “Dove aumenta la
presenza di Cristo, là c’è il vero progresso del mondo. Là l’uomo diventa nuovo
e così diventa nuovo il mondo”.
L’incidenza
di una fede (o se si preferisce di una vita) cristiana veramente adulta o matura, che dir si voglia, non
la si misura allora semplicemente sul piano della psicologia del singolo
individuo, né tantomeno su quello della mera dimensione morale di una persona,
ma ha che fare con la trasformazione in senso evangelico di tutto il mondo.
Forse per questo, qualcuno ha detto: “Il
genere umano vive grazie a pochi, se non ci fossero loro il mondo perirebbe”
(Pseudo-Ruffino).
Don Marco Belladelli.
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Caritas in Veritate
Dopo quasi
due anni di attesa dalla sua annunciata pubblicazione, dopo consultazioni a
livello mondiale e ripetute revisioni, problemi di traduzione in latino, dovuti ai neologismi e ai termini particolarmente
complessi in uso oggi nel mondo finanziario, dopo la firma del Papa,
apposta Lunedì 29 Giugno scorso, Martedì prossimo, 7 Luglio, avremo finalmente
tra le mani la tanto attesa terza enciclica di Benedetto XVI sui temi
socioeconomici, intitolata Caritas in
Veritate. Come da antica consuetudine, vengono usate le prime due parole
del testo ufficiale in latino. Si sa già che in prima battuta l’editrice
Vaticana stamperà 150 mila copie. Il libretto sarà composto di 141 pagine,
divise in 6 capitoli. Oltre all’edizione in italiano,
sono previste traduzioni anche in inglese, francese, tedesco, spagnolo,
portoghese e cinese.
Per
quanto riguarda il contenuto lo
ha così sintetizzato lo stesso Ratzinger nell’Angelus di Domenica 28/06: “approfondire alcuni aspetti dello sviluppo integrale nella
nostra epoca, alla luce della carità nella verità”. Sempre secondo lo stesso Pontefice, vengono ripresi temi
già presenti nella 'Populorum progressio'
di Paolo VI, pubblicata nel Marzo del 1967, oltre quarantadue anni fa. Diversi
organi di stampa dicono che saranno affrontati anche altre materie, quali lo
sviluppo dei popoli, la fratellanza, l'ambiente e la crisi economica.
Già il titolo è tutto un programma. Si tratta di una famosa affermazione
di San Paolo nella lettera agli Efesini 4,15 e che il Papa ha recentemente
commentato, nell’omelia di chiusura dell’Anno
Paolino. A suo dire con questa espressione l’Apostolo descrive in maniera
positiva la fede “veramente adulta”,
nel senso di matura. Mentre il potere del male è la menzogna, “La verità sul
mondo e su noi stessi si rende visibile quando guardiamo a Dio. E Dio si rende
visibile a noi nel volto di Gesù Cristo. Guardando a Cristo riconosciamo
un’ulteriore cosa: verità e carità sono inseparabili. In Dio, ambedue sono
inscindibilmente una cosa sola: è proprio questa l’essenza di Dio. Per questo,
per i cristiani verità e carità vanno insieme. La carità è la prova della
verità. Sempre di nuovo dovremo essere misurati secondo questo criterio, che la
verità diventi carità e la carità ci renda veritieri.”.
“Il
Foglio”, quotidiano diretto da Giuliano Ferrara, sabato scorso ha pubblicato
due paragrafi, i nn. 34 e 35. Per stuzzicare la vostra curiosità a leggerla
integralmente, vi riassumo qui di seguito il loro contenuto.
Nel primo
numero si considera la contraddizione antropologica dell’uomo moderno. Da una
parte il suo essere “fatto per il dono,
che ne esprime e attua la dimensione di trascendenza”, mentre dall’altra
parte, la modernità lo ha “erroneamente
convinto di essere il solo autore di se stesso, della sua vita e della società.
E’ questa una presunzione, conseguente alla chiusura egoistica in se stesso”.
L’uomo autosufficiente, e che si sente capace da solo di eliminare il male dalla
storia, ha fatto coincidere la felicità e la salvezza con le forme materiali
del benessere e con azioni di continuo riequilibrio sociale. Si prende ad
esempio l’economia, la cui pretesa indipendenza da qualsiasi interferenza etica
per moltiplicare in modo esponenziale la ricchezza, alla fine si è rivelato un
abuso, che ha bruciato una quantità immensa di ricchezza e ha prodotto povertà.
A questo punto segue l’esortazione a non spegnere la speranza cristiana nel
cuore dell’uomo, perché non si tratta semplicemente di un bene spirituale. La Speranza è una risorsa sociale, che va
messa al servizio dello sviluppo integrale dell’uomo, costruito giorno per
giorno nella libertà e nella giustizia.
Nel secondo
paragrafo si parla del libero mercato. Prima del mercato c’è un dato
contesto sociale e politico di riferimento e c’è anche una intensa trama di
relazioni interumane su cui esso stesso poggia. Come si è visto in questi
ultimi tempi, “Senza forme interne di
solidarietà e di fiducia reciproca il mercato non può pienamente espletare la
propria funzione economica”. Insomma, prima del mercato c’è l’uomo, e la bontà del mercato, dipende dalla sua
onestà e dal suo desiderio di giustizia.
Don Marco Belladelli.
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CHE NON INTERESSA NIENTE
Forse
perché assorbiti dalle questioni interne, dal lodo Alfano al congresso del PD,
o dai grandi temi internazionali, o forse più probabilmente perché l’Africa
interessa poco e niente, sta di fatto che ad una settimana dalla sua apertura
la stampa ha dedicato scarsissima attenzione alla seconda assemblea speciale
del Sinodo per l’Africa, aperto solennemente in San Pietro da Benedetto XVI
domenica 4 Ottobre. A quindici anni di distanza dal primo, svoltosi sempre a
Roma nel 1994, per il secondo Sinodo si è scelto di confrontarsi sul tema: “La
Chiesa in Africa a servizio della riconciliazione, della giustizia e della
pace. ‘Voi siete il sale della terra …
Voi siete la luce del mondo ’ (Mt 5,13.14)”.
Quando
diciamo “Africa”, parliamo di un grande continente, ricchissimo di risorse
naturali di ogni genere, dove vivono più di un miliardo di persone (a cui vanno
aggiunti gli altri 200 milioni e oltre sparsi nel mondo), la maggior parte dei
quali si trova in condizione di estrema povertà e miseria. Negli ultimi
vent’anni si sono fatti passi avanti, come per esempio alcuni timidi segni di
cultura democratica che va via, via affermandosi a livello politico e
istituzionale e una crescita del PIL che in media si aggira attorno al 5% annuo,
con alcuni paesi arrivati fino al 20%. Accanto a questi fermenti positivi,
permangono molti aspetti problematici, quando addirittura non si ha a che fare
con situazioni che, invece di progredire, regrediscono senza soluzione di
continuità. A cominciare dalla corruzione, che scoraggia gli investimenti e
l’iniziativa imprenditoriale, per continuare con lo stravolgimento di alcuni
valori tradizionali della società africana, quali la famiglia, la vita sociale
rurale, il rapporto tra le generazioni, in particolare il ruolo degli anziani,
e il sistema socio-economico. Non vanno dimenticati i numerosi conflitti locali
e regionali, dove si massacrano migliaia di persone innocenti, quando
addirittura non si trasformano in veri e propri genocidi, come è già accaduto
nel
Molto
spesso poi, la buona volontà di chi vuole combattere povertà, miseria e le
gravi condizioni di salute delle popolazioni, si scontra con il cattivo
funzionamento degli apparati statali, tanto che i numerosi e lucrosi (per
l’Africa!) programmi di aiuto economico-sociale promossi dalle istituzioni
finanziarie internazionali si sono spesso rivelati funesti. L’imposizione
dall’esterno indebolisce sempre più la fragile economia africana, contribuendo
invece ad aumentare il degrado sociale, con relativo aumento delle criminalità,
l’allargamento del divario tra ricchi e poveri, l’esodo dalle zone rurali e la
sovrappopolazione delle città. In Africa manca ancora un mercato interno, che
favorisca le produzioni locali ed eviti che i prezzi dei prodotti siano fissati
all’estero. A tutto questo poi si aggiungono le emergenze sanitarie, prima fra
tutte l’AIDS, che continua a mietere vittime, sia tra la popolazione adulta che
tra i giovani, e il problema delle migrazioni clandestine verso l’Europa,
soprattutto di questi ultimi.
Nel
dibattito in corso al Sinodo, al quale partecipa personalmente anche il Papa,
compatibilmente con tutti i suoi impegni, i Vescovi africani hanno
coraggiosamente denunciato il neocolonialismo delle multinazionali, che
continuano a sfruttare le immense risorse naturali, devastando impunemente
territorio e tessuto sociale, e la nefasta opera di molte ONG che, dietro la
facciata degli aiuti internazionali, promuovono politiche e ideologie di
assoluta dipendenza all’occidente. Non va poi dimenticato il fondamentalismo
che, radicalizzando le differenze etniche, tribali, religiose e culturali, è
una delle prime cause di sanguinosi e insanabili conflitti.
E’
giunto anche per l’Africa il tempo del riscatto da queste catene, per diventare
protagonista di crescita e sviluppo, in consonanza con la propria identità e
cultura. E la Chiesa, in quanto portatrice di una specifica prassi di
trasformazione sociale, fondata sul Vangelo e sul suo messaggio di giustizia e
di pace, non se ne disinteressa, anzi è presente per farsi carico dei problemi
e proporsi come uno dei principali attori sociali, capace di favorire
riconciliazione e promozione umana.
Don Marco Belladelli.
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Il papa a brescia, omaggio a paolo vi
Domenica
8 Novembre Benedetto XVI sarà a Brescia soprattutto per un omaggio al suo
predecessore, Paolo VI. Dopo la solenne concelebrazione del mattino in città,
nel pomeriggio il programma prevede l’arrivo a Concesio per la visita alla casa
natale e alla Chiesa parrocchiale, dove è stato battezzato Papa Montini, e
l’inaugurazione del nuovo Centro “Paolo VI”. Un omaggio che non ha precedenti,
e altrettanto doveroso, quanto necessario, per dare il giusto risalto alla
grandezza di una persona, Giovanni Battista Montini, e ad un pontificato,
spesso sottovalutato per l’importanza e la rilevanza che ha avuto sia dentro
che fuori la Chiesa.
Paolo
VI sarà ricordato nei secoli come il Papa del Concilio Vaticano II. Di fronte
allo smarrimento creatosi tra i Padri Conciliari per la morte di Giovanni
XXIII, egli seppe sapientemente governare l’assemblea di tutti i Vescovi del
mondo, nel suo momento cruciale, quando ci si apprestava ad affrontare i temi
teologici fondamentali della divina rivelazione, della liturgia, della Chiesa e
del suo rapporto con il mondo, conducendola a felice conclusione. La seconda
caratteristica importante del suo pontificato sono stati i grandi viaggi
apostolici, nei quali ha toccato tutti e cinque i continenti. Ha cominciato
dalla Terra Santa, nel Gennaio del ’64, per poi continuare con l’India, la
Colombia, gli Stati Uniti, l’Uganda, per finire con le Filippine e varie tappe
in Oceania, da Sidney, alle Isole di Samoa, nel 1970. Lui stesso, spiegando il
significato della scelta del nome, aveva sottolineato che era ormai giunto il
tempo di imitare l’Apostolo delle genti nel ripercorrere le vie del mondo
intero per annunciare di nuovo il Vangelo a tutti gli uomini. Un ricordo
personale: ero ancora un bambino, quando con grande emozione assistetti per
televisione al ritorno di Paolo VI dalla Palestina. Percorse tutto la strada,
dall’aeroporto fino a San Pietro, in piedi sull’auto scoperta per salutare la
folla esultante che gli faceva ala lungo tutto il tragitto. Non c’era un metro
deserto. Papa Montini è stato poi l’uomo del dialogo dentro e fuori
Ma
la ragione principale per cui Benedetto XVI si sente debitore nei confronti
Paolo VI è la profonda sintonia spirituale e culturale, che esiste tra i due, a
cominciare dal modo d’intendere ed interpretare il Concilio Vaticano II. Il
criterio del rinnovamento nella continuità, assunto da Ratzinger come punto
fermo del suo pontificato, era già stato fissato con chiarezza da Montini. Una
sintonia che ha trovato una importante conferma nell’ultima enciclica di
Benedetto XVI, la Caritas in Veritate, dove
viene esplicitamente richiamata e riassunta
Papa
Ratzinger non ha mai mancato occasione per manifestare grande affetto e stima
per Paolo VI. Basta ricordare quanto disse lo scorso anno, nel trentesimo
anniversario della sua morte, quando definì “sovrumano” il merito per il buon esito del Concilio ed evidenziò “le sue spiccate doti di intelligenza e il
suo amore appassionato alla Chiesa ed all’uomo” come un dono di Dio fatto
alla Chiesa e al mondo.
Don
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Una breccia in un
altro muro secolare
Lunedì
9 Novembre 2009. Mentre a Berlino si celebrava in modo fastoso il ventennale
della caduta del famoso muro, che per ventotto anni ha diviso in due la
capitale tedesca, e la riunificazione della Germania, a Roma è stata finalmente
pubblicata la costituzione apostolica Anglicanorum
coetibus. Finalmente perché, annunciata una ventina di giorni prima dal
cardinal Levada, presidente della Congregazione per la Dottrina della fede
(l’ex Sant’Ufficio), tra una smentita e l’altra delle varie anticipazioni di stampa,
sembrava essersi persa nei meandri della Curia romana. E’ il documento con cui
Una
significativa breccia in un muro eretto quasi cinque secoli fa. Era infatti il
1539 quando Enrico VIII, per poter sposare Anna Bolena, faceva votare al
Parlamento inglese “l’Atto di supremazia”,
con cui nasceva
In
analogia con quanto oggi la Chiesa prevede per i militari, con questo documento
vengono istituiti degli ‘ordinariati personali’, cioè l’equivalente delle
nostre diocesi, non però legate al territorio, ma alle persone, che vi
aderiscono con una iscrizione. Per valorizzare una tradizione di quasi cinque
secoli, agli Anglicani viene pure concesso di poter continuare ad usare i
propri libri liturgici, senza per questo che si possa parlare di un rito
anglicano. Ma le due novità più sorprendenti per la cattolicità è la scelta dei
Vescovi da parte della comunità, attraverso l’indicazione di una terna di nomi
al Papa, e la possibilità di ordinare preti (ipoteticamente anche Vescovi)
uomini sposati.
Anche
questa apertura manifesta quanto Benedetto XVI abbia a cuore l’unità dei
credenti. Come ebbe ha ricordare il Marzo scorso, nella lettera inviata a tutti
i Vescovi del mondo in occasione della rovente polemica per la riduzione della
scomunica a quattro Vescovi del gruppo di monsignor Lefebvre, per la Chiesa di
oggi e per il Successore di Pietro si tratta di una priorità, rispetto a
qualsiasi altro impegno. Altro aspetto importante da evidenziare è il positivo esito
dell’impegno ecumenico, frutto più che del dialogo fra le diverse Comunità
ecclesiali, di un riconoscimento che la Chiesa di Roma è la fedele custode di
quel bagaglio di verità e di vita, tramandateci dagli stessi Apostoli.
Anche
se per questo avvenimento non c’è stata l’enfasi mediatica come per il muro di
Berlino, non per questo è meno rilevante per l’oggi e meno significativo per
Don Marco Belladelli.
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Auguri di “Buon
Anno!”,fuori tempo massimo.
Ho sentito
dire che fino a metà Gennaio si è ancora
in tempo per fare gli auguri di “Buon Anno!”. A chi avrà la pazienza di
leggermi, propongo alcuni pensieri tratti dalle omelie e dalle riflessioni di
Benedetto XVI in occasione delle celebrazioni natalizie appena trascorse, con
la speranza che possano risultare ben auguranti. Comincio dall’ 8/12 scorso
quando, in occasione dell’annuale omaggio alla Madonna in piazza di Spagna,
rivolgendosi alla città che ha bisogno di Maria, perché le ricorda che Dio c’è,
parlò degli “invisibili”, cioè di
coloro che balzano improvvisamente all’attenzione delle cronache, vengono
sfruttati finché suscitano morbose curiosità e poi dimenticati. Si tratta, ha
osservato il Papa, di un meccanismo perverso di cui si servono i mass media per
farci sentire “spettatori” , mentre “siamo tutti ‘attori’ e, nel male come nel
bene, il nostro comportamento ha un influsso sugli altri”. In quei giorni
sui giornali ancora si parlava della morte del transessuale Brenda e del caso
Marrazzo. Tanto per ricordarci che tutto quello che facciamo, in privato o in
pubblico, ha sempre delle conseguenze su gli altri, soprattutto in senso umano
e morale. E non soltanto per la politica.
Nel
messaggio Urbi et Orbi del giorno di
Natale, prendendo spunto da una preghiera della liturgia: “Oggi su di noi splenderà la luce, perché è nato per noi il Signore”,
ha detto che quel “noi”, ieri
insignificante presenza di uomini e donne alla grotta di Betlemme, è diventato
il “noi” della Chiesa, cioè di tutti
coloro che accogliendo l’amore di Dio fanno risplendere anche oggi sul mondo la
luce di Cristo. Ha poi ricordato ad una, ad una, tutte quelle situazioni nelle
quali la Chiesa, anche se perseguitata, è minoranza viva, dall’Iraq al Congo,
dalla Corea all’America latina, dall’Europa all’America del nord, per
sottolineare che qualunque presenza cristiana nel mondo, anche la più umile,
nascosta e sofferente, non è, e non sarà mai, né casuale, né
insignificante.
Un ultimo
spunto dall’omelia dell’Epifania. Soffermandosi su Erode e i Sacerdoti, che
danno indicazioni esatte ai Re Magi, ma si guardano bene dal muoversi di un
millimetro, si è chiesto: “Qual è la
ragione per cui alcuni vedono e trovano e altri no? Che cosa apre gli occhi e
il cuore? Che cosa manca a coloro che restano indifferenti, a coloro che
indicano la strada ma non si muovono?”. E’ una domanda che spesso mi faccio
anch’io, quando sono costretto a fare i conti con certe prese di posizioni
pretestuose e ingiustificate rispetto al palesemente evidente. Il Papa ha
elencato tutta una serie di ragioni: “la
troppa sicurezza in se stessi, la pretesa di conoscere perfettamente la realtà,
la presunzione di avere già formulato un giudizio definitivo sulle cose… Alla
fine - ha aggiunto Benedetto XVI -
quello che manca è l'umiltà autentica, che sa sottomettersi a ciò che è più
grande, ma anche il coraggio autentico, che porta a credere a ciò che è
veramente grande, anche se si manifesta in un Bambino inerme”.E oggi mancano sia umiltà che coraggio,
mentre abbondano superbia e viltà. Ecco perché ci si sente più soli e
impauriti.
Auguro a
voi e a me un 2010 con un po’ più di responsabilità per noi stessi e per gli
altri, con un po’ più di umiltà e coraggio, e, pensando a chi ogni giorno crede
a rischio della propria vita, anche con un po’ più di cristiana serietà.
Don Marco Belladelli.
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Il
‘Giorno della Memoria’, la Chiesa, e gli Ebrei.
“Oggi, si celebra il "Giorno della
memoria", in ricordo di tutte le vittime di quei crimini, specialmente
dell’annientamento pianificato degli Ebrei, e in onore di quanti, a rischio
della propria vita, hanno protetto i perseguitati, opponendosi alla follia
omicida. Con animo commosso pensiamo alle innumerevoli vittime di un cieco odio
razziale e religioso, che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte
in quei luoghi aberranti e disumani”. Dopo queste inequivocabili parole di
partecipazione alle sofferenze della shoah e di condanna per chi le ha causate,
pronunciate all’udienza di mercoledì 27/01, giorno della memoria, mi pare che i
problemi esistenti tra Benedetto XVI e gli Ebrei su questo tema siano chiariti
e superati una volta per sempre. Superati anche rispetto a tutte quelle
speculazioni che fino ad oggi hanno provocato
sospetti e diffidenze, smascherate e denunciate come assolutamente
gratuite ed infondate in un fermo articolo di Bernard-Henri Levy, pubblicato il
20/01 scorso su Il Corriere della Sera.
Alla fine,
Benedetto XVI passerà alla storia come il Papa che ha visitato più sinagoghe di
tutti i suoi predecessori: Colonia nel 2005, New York nel 2008 e Roma il 17
Gennaio scorso, senza contare il viaggio del Maggio
La cordialità e la franchezza del
dialogo non hanno impedito di fare spazio anche alle diversità, orgogliosamente
affermate, e alle questioni controverse, neppure queste passate sotto silenzio,
come per esempio la pari dignità da sempre rivendicata e acquistata dagli Ebrei
soltanto con l’avvento del Regno d’Italia, i silenzi di Pio XII e il diritto
all’esistenza dello Stato d’Israele, come compimento delle antiche promesse,
prima ancora che frutto delle garanzie del diritto internazionale. Benedetto
XVI ha risposto auspicando che nello Stato d’Israele “tutti percorrano umilmente il cammino della giustizia
e della compassione”,
come a sottolineare che questa virtù e questo sentimento là dovrebbero essere
più presenti e praticati.
Per ora siamo arrivati fin qui, in
attesa del prossimo round, fissato
per l’Ottobre prossimo, quando a Roma si
svolgerà il Sinodo speciale per le Chiese del Medio Oriente.
Don
Marco Belladelli
Pubblicato
su LA VOCE DI MANTOVA il 02/02/10.
La Chiesa, oltre lo
scandalo della pedofilia.
Gli
aggettivi usati dai commentatori per definire la positiva accoglienza da parte
dell'opinione pubblica della Lettera ai
Cristiani d’Irlanda del Papa si sprecano: nobile, coraggiosa, rigorosa,
chiara. E chi più ne ha, più ne metta. Qualcuno, colpito dai toni e dai modi
con cui Benedetto XVI affronta la spinosa questione dei casi di pedofilia e la
iniqua reticenza delle autorità ecclesiastiche nel non perseguire in modo
adeguato i colpevoli, azzarda addirittura il più alto e autorevole dei paragoni
possibili, le Lettere di San Paolo,
quando nei suoi scritti l’Apostolo interviene per dirimere questioni pratiche
dalle conseguenze laceranti nella vita delle Comunità cristiane da lui fondate
(vedi per esempio 1Cor. 5,1ss).
Lo schema
seguito dal Santo Padre nel suo argomentare mi ha invece ricordato gli
imperativi con cui lo stesso Signore Gesù in persona, nelle famose lettere alle
sette Chiese dell’Apocalisse invita i cristiani di quelle Comunità alla
conversione: “Ricorda dunque da dove sei
caduto, ravvediti e compi le opere di prima” (Ap. 2,5). Infatti, dopo aver
espresso il suo sgomento, la sua riprovazione e il senso di tradimento provato
per quanto successo e per come è stato gestito il problema, Benedetto XVI evoca
la gloriosa storia della Chiesa d’Irlanda, ricordando soprattutto i suoi grandi
esempi di santità, di generosità e di eroicità, a cominciare dal grande
vescovo, evangelizzatore dell’Europa, san Colombano, fino ai giorni nostri.
Segue quindi un duro monito al ravvedimento, nel quale affronta i vari aspetti
della situazione che si è venuta a creare, secondo precisi criteri di
giustizia, già presenti nelle norme canoniche vigenti, a cui era doveroso far
riferimento, per ovviare al propagarsi e all’aggravarsi delle dimensioni del
problema. Nello stesso tempo si rivolge a tutti coloro che sono direttamente o
indirettamente coinvolti, per offrire partecipazione, vicinanza spirituale e
sostegno, prima di tutto alle vittime alle loro famiglie, ai consacrati
colpevoli e ai vescovi, per proseguire poi con i genitori, i giovani, i
sacerdoti, i religiosi e tutta la Chiesa d’Irlanda.
Fare
giustizia è essenziale, ma da sola non basta. Bisogna, come dice l’Apocalisse,
tornare ‘a compiere le opere di prima’,
cioè conformare “la vita in modo sempre
più vicino alla persona di Gesù Cristo”. Per questo il Papa propone una
serie di iniziative concrete dalle quali tutta la Chiesa irlandese possa trarre
grazie di guarigione per le ferite sofferte e rinascita. Le elenco di seguito:
preghiera, penitenza, digiuno, lettura frequente della sacra Scrittura,
frequenza ai sacramenti, adorazione eucaristica, esercizi spirituali. Secondo
Benedetto XVI, per mezzo di esse sarà possibile riparare ai peccati commessi e
rinnovarsi interiormente. In sostanza viene proposto un vero e proprio cammino
di “Cristoterapia”, un percorso di
guarigione incentrato sull’incontro con Gesù Cristo e sull’accoglienza della
potenza dello Spirito Santo, che parte dalla sfera più intima e più profonda
della nostra persona, cioè quella spirituale, per coinvolgere poi
progressivamente tutte le altre dimensioni dell’uomo, quella psichica e quella
somatica. La novità sta nell’applicare questo modello terapeutico non a singole
persone o a un gruppo particolare, ma a tutta una Chiesa nazionale, che ora ha
bisogno di “una rinascita … nella
pienezza della verità stessa di Dio, poiché è la verità che ci rende liberi
(cfr Gv 8, 32).”.
La Lettera ai Cristiani d’Irlanda di Ratzinger apre un’altra questione che
all’interno della Chiesa e tra gli addetti ai lavori (e non solo) è già
diventata una vera e propria polemica infuocata, quando individua tra le cause
del vergognoso scandalo in questione il fraintendimento del “programma di rinnovamento proposto dal
Concilio Vaticano Secondo”. Un affermazione senza dubbio pesante e non
casuale, che fa sorgere molte domande sul suo effettivo significato e su tutte
le possibili conseguenze, che da quanto si può capire, per il Papa non si limitano al pur grave problema della
pedofilia.
Don Marco Belladelli.
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Il Papa sotto
attacco
Da
quando è scoppiato lo scanalo della pedofilia, per il Papa non c’è stato un
attimo di tregua. Non passa giorno che giornali e televisioni non si
accaniscano su questi temi, sguazzandoci dentro e facendosi eco gli uni gli
altri, per riproporre alla fine sempre la stessa minestra riscaldata.
Sorprende
che si voglia coinvolgere a tutti i costi proprio colui che da sempre nella
Chiesa su questo problema si è dichiarato per la tolleranza zero. E’ ormai provato che da Presidente della Congregazione per la Dottrina della Fede,
Ratzinger fu osteggiato dall’inquisire potenti ecclesiastici, rivelatisi poi
realmente colpevoli. E’ stato lui che, appena salito al soglio di Pietro, ha
immediatamente ritirato fuori il processo contro il fondatore dei Legionari di Cristo, Maciel Marcial
Degollado fino alla condanna dello stesso ad una rigida clausura, nel più
assoluto isolamento, vita natural durante. E’ sempre lui che in occasione del
suo viaggio negli Stati Uniti ha incontrato le vittime dei pedofili, le ha
ascoltate, si è scusato con loro, ha pregato con loro e per loro. La stessa
cosa è avvenuta in Australia. Quello poi che è successo recentemente in Irlanda
e Germania è cronaca nota a tutti.
Sorprende
ancor di più, che sia uno dei più importanti giornali del mondo ad attaccare il
Papa in modo così veemente. Sì, proprio il grande New York Times, che pur di coinvolgere Benedetto XVI, ha tirato
fuori una vecchia storia di oltre vent’anni fa, nella quale il prete coinvolto,
stranamente assolto dall’autorità civile, era stato invece perseguito da quella
ecclesiastica, fino alla sua morte. Tra l’altro, il quotidiano americano fonda
la propria accusa su un documento della Congregazione
della fede del 1998, tradotto dall’italiano in inglese alla carlona, tanto
da prendere lucciole per lanterne, come ha dimostrato martedì 6 Aprile Rodari
su Il Foglio.
Nella
Chiesa non sono mancate le reazioni in difesa del Papa. Oltre alle note
ufficiali del Direttore della sala stampa
vaticana, dobbiamo registrare le affermazioni di padre Cantalamessa,
predicatore della casa Pontificia, durante la celebrazione del Venerdì santo,
con l’immancabile seguito di polemiche, le dichiarazioni di solidarietà del
cardinal Sodano all’inizio della S. Messa della Domenica di Pasqua e la lunga
intervista rilasciata dallo stesso qualche giorno fa all’Osservatore romano.
A
scanso di equivoci, l’ho già detto e mi ripeto: anche per un solo caso, la
pedofilia non va mai né giustificata, né minimizzata, soprattutto quando si
tratta di preti. Detto questo, rimane la domanda: perché tanto furore contro
colui che più di ogni altro si è adoperato per estirpare questo male nella
Chiesa? Tra i vari commentatori, il sociologo Massimo Introvigne parla di “un tipico esempio di panico morale”, cioè una amplificazione
sistematica sia dei dati reali, sia della sua rappresentazione mediatica, sia
delle sue conseguenze politiche. Vittorio Messori evidenzia invece il paradosso
tra chi all’esterno lo accusa di non aver agito e chi all’interno di aver agito
troppo, liquidando il tutto come “una
ferocia giacobina” che lascia il tempo che trova e per la quale non bisogna
prendersela più di tanto. Lucetta Scaraffia propende per dei veri e propri di
attacchi politici. Insomma, una vendetta in piena regola contro colui che nei
suoi cinque anni di pontificato non ha risparmiato niente a nessuno.
Forse
la risposta più convincente l’ha fornita lo stesso Benedetto XVI quando nel suo
recente Messaggio Urbi et Orbi di
Pasqua, dice: “Anche ai nostri giorni
l’umanità ha bisogno di un ‘esodo’, non di aggiustamenti superficiali, ma di
una conversione spirituale e morale. Ha bisogno della salvezza del Vangelo, per
uscire da una crisi che è profonda e come tale richiede cambiamenti profondi, a
partire dalle coscienze.”.
Allora
come si giustifica l’attacco al Papa? Come qualcosa di assolutamente
irrilevante dal punto di vista etico e culturale, ma soltanto l’ennesimo
polverone innalzato ad arte da chi ha più convenienza che nulla cambi.
Don Marco Belladelli.
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Benedetto XVI
compie cinque anni.
Lunedì
19 Aprile 2010 è quinto anniversario della elezione di Benedetto XVI.
Tra
i vari commentatori c’è chi lo esalta e chi invece lo critica. Qualcuno,
vittima del proprio infantilismo, non gli perdona ancora di essere tedesco e
ironizza sul suo conto, ricorrendo agli stereotipi del panzercardinal e ad altre sciocchezze simili. Altri invece sono
fortemente infastiditi dalla franchezza e dalla chiarezza, priva di timori reverenziali verso chicchessia, con
cui fin dall’inizio del suo pontificato ha additato pubblicamente i danni
prodotti dal relativismo e dal soggettivismo culturale ed etico dei nostri
tempi. E’ il caso, per esempio, della lobby degli omosessuali, che lo vedono
come uno dei principali nemici alle loro conquiste di emancipazione culturale,
sociale e politica, come l’attribuzione alle loro unioni degli stessi diritti
riconosciuti alla famiglia naturale. Le grandi multinazionali, vere e proprie
superpotenze economiche, considerano la sua autorità morale, universalmente
riconosciuta, un ostacolo all’espansione della loro egemonia sovranazionale. I
cosiddetti intellettuali di estrazione laica, sia di destra che di sinistra,
gli rimproverano invece di non essere come Giovanni Paolo II.
Mai,
come ai nostri giorni, gli uomini hanno avuto la memoria corta. Molti hanno
dimenticato, e chi invece ancora se le ricorda, le ha rimosse perché oggi
politicamente scorrette, le molte e pesanti critiche rivolte a Papa Woityla nei
primi anni del suo pontificato. Basta rileggersi i giornali di quegli anni per
ritrovare la contrarietà di certa opinione pubblica davanti ai suoi
atteggiamenti e ai suoi insegnamenti. Qualcuno ricorderà l’irriguardoso Woitylaccio, uscito dalla bocca del
futuro premio Oscar, Roberto Benigni, durante il festival di Sanremo del 1980,
davanti a milioni di persone; e Il Pap’Occhio di Renzo Arbore, un film
parodia, dove si irrideva Giovanni Paolo II alla stregua di un povero fanatico,
malato di narcisismo. E’ abbastanza normale per un Papa nei primi anni di
pontificato dover mettere in conto una certa ostilità.
Nonostante
l’ostinazione maliziosa con cui lo si confronta con il suo predecessore, per
sminuirne il carisma, a cinque anni dalla sua elezione, Benedetto XVI continua
ad avere un seguito senza precedenti. Mi riferiscono alle decine di migliaia di
persone che ogni settimana vengono a Roma per ascoltarlo alle udienze del
Mercoledì, all’Angelus della
Domenica, o in occasione delle sue varie comparse pubbliche. Ciò che negli
ultimi anni è la norma, cioè di riempire nei mesi invernali oltre all’aula
Paolo VI, anche la basilica di S. Pietro, in precedenza accadeva raramente. Per
non parlare poi del successo delle sue pubblicazioni. Il suo libro, “Gesù di
Nazareth”, è diventato un Best Seller
in tutto il mondo. Le sue encicliche sono andate a ruba, contendendo i primi
posti delle classifiche ad autori di grido. Per non parlare di altre
pubblicazioni minori, come discorsi di viaggi e non, omelie e catechesi.
All’interno
della Chiesa, come ha dichiarato lui stesso fin dall’inizio, suo impegno
prioritario è dare compimento al processo di rinnovamento iniziato negli anni
sessanta con il Concilio Vaticano II, per rimediare a quelli che egli stesso ha
definito i “fraintendimenti”,
diventati nel tempo causa di abusi, a volte addirittura di veri e propri
scandali, tra coloro che hanno interpretato questo avvenimento non nel segno
della continuità, ma della rottura. Un altro aspetto a cui si sta dedicando con
altrettanto fervore è l’ecumenismo, per riportare quanto prima tutte Chiese a
quell’unità che ha caratterizzato i primi mille anni di storia del
Cristianesimo. Mai, come negli ultimi cinque anni, i rapporti, soprattutto con
gli Ortodossi, sono stati tanto frequenti e fraterni. Parallelamente al dialogo
ecumenico, si sono intensificati anche le occasioni di incontro e di confronto
con i rappresentati delle altre religioni, in particolare con gli Ebrei e i
Mussulmani. Per Benedetto XVI il dialogo interreligioso è la via privilegiata
per rafforzare nella Comunità internazionale le ragioni della pace, sempre
troppo deboli, rispetto agli interessi che innescano gli ancor troppo numerosi
conflitti armati, presenti oggi nel mondo. Ratzinger verrà anche ricordato come
il Papa della “ragione”. Per ovviare
alla confusione causata dalle ideologie e dal moltiplicarsi di mode di
pensiero, ha posto al centro del dibattito culturale il problema della
razionalità, come misura di un vero umanesimo, su cui costruire le basi della
speranza per il futuro dell’umanità.
Se
qualcuno non se ne fosse ancora accorto, stiamo vivendo una altra grande pagina
di storia che si integra perfettamente con quella, certamente straordinaria,
che si è appena conclusa con Giovanni Paolo II.
Don Marco Belladelli.
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Benedetto XVI a
Fatima
Benedetto
XVI è il terzo Papa che si reca in pellegrinaggio a Fatima e che si confronta
con i tre famosi segreti dalla rilevanza intrigante ed inquietante non soltanto
dal punto di vista religioso, ma anche da quello politico. Quando la Madonna ha
parlato di guerre che finivano, di altre ancor più terribili che sarebbero
seguite, di nazioni da consacrare al suo Cuore Immacolato, per rimediare ai
danni che avrebbero causato all’umanità intera, e del martirio di un Papa in un
contesto mondiale di distruzione e di morte, significa, come si usa dire oggi,
che è scesa in campo in prima persona per dire la sua su come vanno e su come
dovrebbero andare le cose nel mondo.
Ratzinger
ha definito le apparizioni mariane un “impulso”
datoci direttamente da Dio per accogliere e vivere meglio quanto il Signore
Gesù ci ha già insegnato nel Vangelo. A chi gli chiedeva in particolare del
significato e dell’interpretazione del terzo segreto, reso pubblico soltanto
nel
Dopo
queste affermazioni, che hanno trovato conferma anche nelle omelie papali,
durate le varie celebrazioni che si sono svolte nel corso del recente
pellegrinaggio, è necessario rifare il punto sul messaggio di Fatima.
Contrariamente a quanto si era detto dieci anni fa, quando fu pubblicato il
testo del terzo segreto, bisogna rilevare che esso non si è ancora pienamente
realizzato, ma che il suo compimento riguarda sia il nostro presente che il
futuro prossimo venturo. Per la Chiesa (e per tutta l’umanità nel suo insieme)
si preannunciano quindi tempi di sofferenza. Ma la cosa più sorprendente è
sentire un Papa indicare nel peccato stesso della Chiesa la causa prima di
questa sofferenza e il nemico principale da sconfiggere, attraverso un cammino
di penitenza, di purificazione, di perdono e anche di giustizia. Ciò che più
preoccupa il Papa non sono tanto le cose più o meno drammatiche che devono accadere,
quanto piuttosto la resistenza degli stessi
credenti e praticanti, a cominciare da frati, suore, preti e vescovi, ad
accettare questo “profondo bisogno”
di sottomettersi ad un regime, non formale, ma sostanziale di penitenza di
purificazione, di perdono e di giustizia. Detto in altri termini, se è vero che
lo scandalo dei preti pedofili è un peccato così grave, da gridare vendetta al
cospetto di Dio e va combattuto e superato a qualsiasi costo, ciò che ancor più
spaventa il Santo Padre è quel sistema di potere, contro il quale a dovuto fare
i conti lui stesso da cardinale (il caso dei Legionari di Cristo insegna!),
sistema fatto di menzogne e di compiacenze, con cui si è impedito di accertare
la verità dei fatti, si sono protetti i responsabili e si è permesso al “peccato” di proliferare impunemente,
fino alle più alte gerarchie della Chiesa. Senza l’aiuto diretto dal cielo di
Maria Santissima, saremmo davvero perduti.
Don
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L’omicidio di Mons.
Padovese
e il viaggio del
Papa a Cipro.
L’omicidio
di S. Ecc. Mons. Luigi Padovese, dal 2004 Vicario Apostolico dell’Anatolia e
Presidente della Conferenza episcopale turca, mi ha lasciato sgomento per la
sua drammaticità ed assurdità. Fino ad oggi le fonti investigative addossano la
responsabilità del gesto al giovane autista di origine armena e ai suoi
problemi psichici. Pare che l’assassino abbia agito per impulso di una “rivelazione” che gli diceva di uccidere
il Vescovo, da quattro anni anche suo datore di lavoro. Giovedì 3/06, verso le
13 ore locali, lo ha letteralmente sgozzato con un coltello nella sua casa di
Iskanderun (l’antica Alessandretta), poco prima che mons. Padovese potesse
raggiungere Cipro per partecipare alla visita del Papa in programma da Venerdì
a Domenica.
Nonostante
da più parti, secondo la ricostruzione a cui anch’io mi sono rifatto, si cerchi
di negare il movente politico e/o religioso, ci troviamo davanti ad un grave
episodio di sangue che evidenzia una situazione paradossale, contraddittoria e
problematica del paese turco, a pochi nota. Mentre infatti nella costituzione
si proclama l’uguaglianza di tutti i cittadini, di fatto non si riconoscono i
diritti delle minoranze, in particolare dei cristiani, che sono costretti a
vivere in una condizione di tollerata clandestinità, tanto che da una presenza
di oltre due milioni prima del 1927, oggi se ne contano poche migliaia. L’ho
potuto costatare personalmente lo scorso anno durante il pellegrinaggio sulle
orme di San Paolo, in occasione dell’anno giubilare per i duemila anni dalla
nascita dell’Apostolo. Chiese ridotte a museo, dove il culto era ammesso
soltanto per la straordinarietà della circostanza. Le piccole comunità
religiose presenti, tra l’altro di origine italiana, impedite a fare qualsiasi
azione di annuncio, anche verso chi si accosta alla Chiesa liberamente, pena
l’arresto e la detenzione. Oltre all’omicidio di don Andrea Santoro del
Febbraio 2006, di cui ricordo ancora il commosso ed entusiastico saluto al
Consiglio Presbiterale di Roma, prima di lasciare la capitale per quella nuova
missione da dove non sarebbe più tornato, in questi anni in Turchia si sono
registrati numerosi altri attentati a religiosi, per fortuna senza esiti
mortali. In un intervista di qualche tempo fa alla televisione svizzera, lo
stesso Vescovo ucciso denunciava apertamente ripetuti attentati alla sua
persona, in forme e modi che all’apparenza avrebbero potuto sembrare dei banali
incidenti, come per esempio essere investiti da una moto lanciata ad alta
velocità, mentre si attraversa
Mons.
Padovese, da fine biblista e teologo, specializzato in patristica, qual era,
negli anni del suo ministero in Anatolia aveva dedicato molto impegno al
dialogo con il mondo mussulmano, rivendicando pure dal governo quella libertà
di culto, ancor oggi negata ai cristiani turchi. Di fatto in tutto il Medio
Oriente, la Chiesa ogni giorno deve fare i conti con dittature, discriminazioni
e vere e proprie persecuzioni. Nell’ Istrumentum
laboris che in questi giorni a Cipro il Papa consegnerà a tutti i Vescovi
del Medio Oriente, in preparazione del prossimo Sinodo straordinario di questa
regione, sono descritte quelle stesse situazioni, che fino ad oggi hanno
significato per i cristiani esilio forzato e non di rado morti innocenti, come
nel caso di don Santoro e di Mons. Padovese. Sono situazioni non più
tollerabili, soprattutto da parte di quei governi che ambiscono vedere
riconosciuta la loro certificata democraticità, per poter sedere a pieno titolo
nel consesso dei cosiddetti Paesi Occidentali, dove i diritti della persona
sono riconosciuti e tutelati.
Don Marco Belladelli.
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Chiude l’ Anno
sacerdotale
tra lo scandalo dei
pedofili e i nuovi martiri
Roma si è riempita di preti più del solito. Oltre
ai già numerosi residenti per motivo di ministero e di studio, in questi giorni
si sono aggiunti quelli provenienti da tutto il mondo per la conclusione dell’
“Anno Sacerdotale”. In più di quindicimila hanno partecipato alla solenne
celebrazione di Venerdì 11 Giugno, festa del Sacro Cuore, presieduta da
Benedetto XVI.
Sono ormai più di quarant’anni che si parla di
crisi del prete. Bastano due dati statistici per costatare le dimensioni e la
gravità di una situazione che non ha precedenti nella storia della Chiesa. Dal
1970 ad oggi in Italia il clero secolare è diminuito del 30%, i religiosi
addirittura di oltre il 40%, e l’età media dei preti si aggira ormai attorno ai
60 anni. Più che gli abbandoni, una percentuale tutto sommato irrilevante, ciò
che ha pesato è stata la mancanza di nuove vocazioni. Due le cause principali:
la secolarizzazione, che ha marginalizzato la religione e soprattutto ha
culturalmente rinnegato la “sacralità” del vivere e dell’essere, e la
difficoltà psicologica dei giovani (e non solo!) di oggi ad accettare uno stato
di vita totalizzante. La prospettiva di un impegno “in eternum” oggi fa paura
a tutti, sempre, comunque ed dovunque.
Il Papa ha voluto l’ “Anno sacerdotale” per
sostenere e valorizzare il ministero del sacerdote, senza il quale non c’è
futuro per
Lo scandalo dei preti pedofili, che già da alcuni
anni aveva pesantemente ferito la Chiesa statunitense e quella australiana, nei
mesi scorsi è scoppiato anche in Europa, coinvolgendo intere nazioni e
funestando il sereno svolgimento dell’Anno sacerdotale. Una piaga che ha
costretto lo stesso Ratzinger a scendere in campo in prima persona, per
promuovere una linea di condotta, basata su trasparenza, giustizia e penitenza,
unica via per stroncare radicalmente questa gravissima piaga dal vissuto della
Chiesa.
A coronare di gloria la chiusura dell’Anno
sacerdotale è venuto il martirio di un Vescovo. Ormai è provato che
l’assassinio di Mons. Luigi Padovese non è stato causato dal raptus di un
malato di mente, ma che si è trattato di una vera e propria esecuzione, secondo
il rituale del fondamentalismo islamico, che prevede
Il sacerdozio è e sarà anche per il futuro un
grande dono per chi lo riceve, per la Chiesa e per il mondo intero.
Don Marco
Belladelli.
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europa,
terra di missione.
Dopo i
recenti scandali dei preti pedofili e della compromissione economico-politica
di alti prelati della Curia romana, non manca occasione in cui, un po’ con
provocatoria malizia e un po’ con senso di commiserazione, qualcuno mi chieda
se non sia giunta anche per la Chiesa l’ora di adeguarsi ai tempi,
giustificando cultura e comportamenti che ormai vanno per la maggiore, da cui
nessuno sembra essere immune, se non a costo di imperdonabili ipocrisie o di
una marginalità culturale e sociale per l’oggi e per il domani senza rimedio.
La risposta
l’ha data il Papa stesso la sera del 28 Giugno scorso, quando durante l’omelia
dei primi vespri per la festa dei Santi Apostoli, Pietro e Paolo, nella
basilica di San Paolo fuori le mura,
ha annunciato la creazione di un nuovo Organismo della Curia romana, un
Pontifico Consiglio “con il compito
precipuo di promuovere una rinnovata evangelizzazione nei Paesi dove è già
risuonato il primo annuncio della fede e sono presenti Chiese di antica
fondazione, ma che stanno vivendo una progressiva secolarizzazione della
società e una sorta di "eclissi del senso di Dio", che costituiscono
una sfida a trovare mezzi adeguati per riproporre la perenne verità del Vangelo
di Cristo”. Prendendo spunto dal carisma di San Paolo, l’Apostolo delle
genti che per primo predicò il Vangelo ai pagani, attraversando tutta l’Europa,
dalla Grecia alla Spagna, Benedetto XVI ha incentrato la sua riflessione sulla
vocazione missionaria della Chiesa, elemento tanto fondamentale, che se venisse
meno sarebbe compromessa la sua stessa natura: “Guai a me se non annuncio il Vangelo! (1Cor 9,16)”. Evidenziata poi la spiccata sensibilità missionaria
dei suoi predecessori, Paolo VI e Giovanni Paolo II, i Papi che hanno ripreso
l’antica tradizione dei viaggi apostolici,
ha sottolineato che il compito della Chiesa di portare il Vangelo nel mondo a
tutti gli uomini è tutt’altro che compiuto. Del resto, una delle ragioni che ha
indotto Giovanni XXIII a convocare il Concilio Vaticano II e che ha animato il
lavoro dei Padri conciliari era quella di interrogarsi su come annunciare il
Vangelo nel mondo contemporaneo. Anche se il Cristianesimo è la religione più
diffusa, la maggioranza dei sei miliardi di donne e uomini che abitano il
pianeta o non conoscono il Cristo o non l’hanno ancora accolto. In molti di
coloro che l’hanno accolto manca convinzione e profondità di esperienza (i
cosiddetti cristiani anagrafici). E nei Paesi di antica tradizione cristiana da
alcuni secoli è in atto un processo di secolarizzazione che ha prodotto una
grave crisi di fede e di appartenenza alla Chiesa.
Al mio
interlocutore e a tutti coloro che dentro o fuori la Chiesa per affrontare la
crisi che l’ha investita propendono per lo sconto sul prezzo della radicalità
evangelica e la rassegnazione all’andazzo del mondo, rispondo con il Papa che
la strada maestra da imboccare è quella della nuova evangelizzazione. “Nuova” non nei contenuti, ma nello slancio interiore, "nuova" nella
ricerca di modalità che corrispondano alla forza dello Spirito Santo e siano
adeguate ai tempi e alle situazioni; "nuova" perché necessaria anche
in Paesi che hanno già ricevuto l’annuncio del Vangelo”. Allora avanti con la missione, cominciando proprio da noi, dalla
vecchia Europa. Detto questo, resta da fare i conti con coloro che a parole si
dicono d’accordo con la nuova evangelizzazione, ma nei fatti
continuano a pensare e ad agire in un modo che di missionario non ha proprio nulla. Sono i burocrati della Chiesa, una categoria ecclesiastica affermatasi
soprattutto negli ultimi quarant’anni, i quali, forse senza accorgersi e loro
malgrado, sono diventati più sensibili alle categorie proprie della sociologia,
che non al genuino spirito evangelico.
Don Marco Belladelli.
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Il Papa in
Inghilterra
Preceduta
da polemiche infuocate, alla fine la visita di Benedetto XVI in Inghilterra ha
finito per essere un successo su tutti i fronti.
Secondo un
vecchio stereotipo, pare sia impossibile essere inglesi e nello stesso tempo
cattolici. Un pregiudizio rispolverato per l’occasione dai giornali d’oltre
Manica per buttare benzina sul fuoco contro la venuta del Papa, vuoi per i
costi della visita, oppure per lo scandalo dalla pedofilia. Lo stesso Governo
si è dovuto scusare per un documento riservato nel quale si suggeriva
d’inserire nel programma papale la benedizione di un matrimonio gay e
l’inaugurazione di una clinica per aborti.
Ciò che ha
fatto cambiare idea agli inglesi è l’aver visto il Papa di persona, i suoi
gesti e i suoi comportamenti reali e l’averlo ascoltato per ciò che ha
effettivamente da dire all’uomo e al mondo, e non per ciò che i giornali gli
fanno dire. In una società ridondante di superficialità esistenziale e campione
di secolarismo come quella inglese, le parole del Papa, piene di umanità e di
spiritualità, hanno trovato il terreno favorevole, tanto da essere accolte per
quel che effettivamente sono, cioè il messaggio di Speranza che, così come
risuona nell’animo umano, può venire soltanto da Cristo.
Nell’udienza
pubblica di mercoledì 22/09, il Papa stesso ha parlato di “un evento storico, che ha segnato una nuova importante fase nella lunga
e complessa vicenda delle relazioni tra quelle popolazioni e
Se il
momento più importante è stato senza dubbio la beatificazione a Birmingham del cardinal
John Henry Newman, prete, prima anglicano e poi cattolico, e grande
intellettuale che ha testimoniato come anche per l’uomo di oggi “la via della coscienza non è chiusura nel
proprio "io", ma è apertura, conversione e obbedienza a Colui che è
Via, Verità e Vita”, non bisogna dimenticare la veglia notturna che l’ha
preceduta, in un clima di profondo raccoglimento spirituale; le migliaia di
giovani che hanno partecipato alla S. Messa del Papa dall’esterno di
Westminster con entusiasmo e trepidazione; il commosso incontro con le vittime
dei preti pedofili, una vergogna che ha meritato alla Chiesa il giusto castigo,
per la necessaria purificazione; i vari incontri ecumenici di dialogo e di
preghiera con la Chiesa anglicana; e l’incontro con gli esponenti delle altre
religioni, di cui
Pare che
Lunedì mattina molti inglesi si siano risvegliati sofferenti della "post papal depression". Insomma, la
grande insofferenza, alla fine si è trasformata in nostalgia per il Papa.
Don Marco Belladelli.
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La Chiesa in Medio
Oriente
Con
l’Assemblea speciale per il Medio Oriente del Sinodo Dei Vescovi, chiusasi
Domenica 24/10 con la solenne
celebrazione eucaristica presieduta da Benedetto XVI in San Pietro a Roma, la
Chiesa ha voluto dire la sua sui difficili
problemi che travagliano quella regione e riproporsi come presenza di
pace per tutte le diverse componenti religiose, etniche, politiche e sociali
presenti. Le affermazioni di alcuni Padri sinodali hanno però ugualmente
suscitato la reazione scomposta del governo di Israele. All’ arcivescovo di Newton dei greco-melkiti (Stati Uniti
d’America), mons. Cyrille Salim Bustros, che in riferimento alle ingiustizie
perpetrate con l'occupazione dei territori palestinesi, ha affermato: “non ci si può basare sul tema della Terra
Promessa per giustificare il ritorno degli ebrei in Israele e la espulsione dei
palestinesi” alla luce di una distorta lettura della Bibbia, ha
risposto il viceministro degli esteri israeliano, definendo il Sinodo un “forum per la
propaganda araba, … ostaggio di una maggioranza anti-israeliana”. Davanti ad una reazione tanto aggressiva, Lunedì è
dovuto intervenire il portavoce della sala stampa vaticana, Padre Lombardi, per
dichiarare che chi vuole conoscere le posizioni emerse durante il Sinodo deve
leggersi il messaggio finale, l’unico testo
scritto ufficiale elaborato e presentato sabato, a conclusione dei
lavori, nel quale sono sintetizzate le posizioni comuni a tutti i Padri
sinodali. Ci sono poi punti di vista diversi, risuonati anche dentro
l’assemblea sinodale, che vanno però considerati come posizioni personali dei
singoli e non come la voce comune di tutto il Sinodo.
Nei suoi
duemila anni di storia, è la prima volta che la Chiesa si ferma a trattare con
una così speciale attenzione le problematiche dei Cristiani che vivono in Medio
Oriente. I Padri sinodali hanno riconosciuto che la prima sfida che oggi sta
loro davanti, come del resto a qualsiasi altro cristiano nel mondo, è quella di
accogliere la propria specifica vocazione e missione, quella cioè di accettare la
nostra fede e di viverla in ogni ambito della vita, secondo quanto
ci ha insegnato il Signore. Riguardo poi all’annoso e fino ad oggi insolubile
conflitto israelo-palestinese, che crea continuamente insicurezza per tutti e
per tutta l’area geografica, si è convenuto che l’unica risposta possibile non
sono le scelte unilaterali di chicchessia, con cui si cerca di cambiare con
la forza lo status quo a proprio favore, ma la ricerca sincera di una pace
giusta e definitiva. A proposito di conflitti, non si poteva dimenticare la
straordinaria condizione di sofferenza vissuta dai Cristiani in Iraq. La Chiesa
universale deve ad essi tutto il sostegno possibile e necessario, perché
possano rimanere nelle loro città, dove vivono da millenni e dove si spera
possano ritornare anche i milioni di profughi che la guerra ha costretto
all’esilio. Il rapporto con il mondo mussulmano deve invece coniugarsi sulla
base di due principi fondamentali. Ogni cristiano ha prima di tutto il dovere
della carità verso chiunque e dovunque esso si trovi. L’altro principio che
deve regolare la convivenza pacifica con i fedeli islamici è quello di
contribuire al bene e al progresso della società nella quale si è inseriti.
Il
messaggio del Sinodo si conclude con un appello alla comunione e alla
testimonianza rivolto a tutti i Cristiani nel loro insieme e alle diverse
categorie, nella loro specificità. La consapevolezza di non aver fatto fino ad
oggi tutto quanto è nelle loro possibilità e secondo quanto il Signore ci ha
insegnato, diventa per le Chiese mediorientali la spinta e l’orizzonte per una nuova
missione di evangelizzazione, nella sicura speranza che soltanto nella fedeltà
al messaggio di Cristo può venire pace e prosperità non soltanto per loro, ma
per tutti coloro, Mussulmani ed Ebrei, che con i cristiani condividono in quei
territori la vita di ogni giorno.
Don Marco Belladelli.
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Luce del Mondo, il
libro-intervista al Papa
Esaurite le
prime 50.000 copie, Venerdì 2/12 sarà pronta la prima ristampa del
libro-intervista a Benedetto XVI, “Luce
del Mondo”, pubblicato poco meno di una decina di giorni fa. Sono già stati
firmati contratti con altre 10 case editrici in tutto il mondo e sono in
preparazione traduzioni in diciotto lingue diverse.
E’ ormai
un’abitudine per Joseph Ratzinger rilasciare periodicamente lunghe interviste
ad un giornalista a lui vicino, che poi si trasformano in un bestseller
mondiale, per il forte impatto che il suo pensiero ha, sia all’interno della
Chiesa, sia sull’opinione pubblica in genere. Nel giro di poco più di un quarto
di secolo è già la quarta volta. Ha cominciato nel 1984 con “Rapporto sulla fede”, assieme a Vittorio
Messori. Sono seguiti nel 1996 “Il sale della terra” e nel 2000 “Dio e il Mondo”,
scritti invece dal giornalista bavarese Peter Seewald, lo stesso con cui si è
intrattenuto a Castel Gandolfo per circa venti ore di colloquio nell’ultima
settimana del Luglio scorso, preferito ad altri candidati per l’opportunità di
poter parlare liberamente nella lingua madre.
Il
risultato finale di queste conversazioni estive sono le 284 pagine del libro Luce del Mondo, nel quale il Papa
risponde a più di 90 domande, distinte in tre ambiti, come indicato dal
sottotitolo, “Il Papa, la Chiesa e i
segni dei tempi”. Si comincia da ciò che ha fatto nei primi cinque anni del
suo pontificato e da ciò che intende fare nel prossimo futuro. Si passa poi a
considerare i problemi che riguardano la Chiesa al suo interno e nel suo
rapporto con la società di oggi. E infine si parla del mondo, guardando
soprattutto a ciò che l’attende, nella prospettiva di una Speranza per tutti.
Questa volta però non è soltanto il Cardinal Prefetto della Congregazione della
Fede a parlare, ma il Papa stesso in persona. Con tono confidenziale, in modo
semplice, diretto e con un linguaggio alla portata di tutti, Benedetto XVI
risponde a tutte le domande che gli sono rivolte, senza reticenze e censure,
accettando pure il rischio di essere contraddetto da chiunque, come già scrisse
nella prefazione del “Gesù di Nazaret”.
Le anticipazioni di stampa, a cominciare dall’Osservatore Romano, hanno dato
ampio risalto soprattutto a certi temi, sui quali l’opinione pubblica è
particolarmente sensibile, quali il preservativo e l’AIDS, l’omosessualità, la
pedofilia, Pio XII e gli ebrei, il sacerdozio femminile, il burka, e via
dicendo. La ricerca del sensazionalismo alla fine distoglie dall’essenziale del
libro, che mi pare molto ben espresso alle pagg. 99-100: “Credo che oggi … il nostro compito sia in primo luogo quello di mettere
in luce la priorità di Dio. La cosa importante, oggi, è che si veda di nuovo
che Dio c’è, che Dio ci riguarda e ci risponde”. Ci sono altri passaggi
importanti a proposito della Chiesa e del rischio che oggi molti corrono, anche
al suo interno, di equivocare sulla sua natura e finalità: “Siamo una comunità di persone che vive nella
fede… non un gruppo di interesse, ma una comunità di persone libere che donano
gratuitamente, e che attraversa nazioni e culture, il tempo e lo spazio. … Il
compito non è creare un prodotto o avere successo nelle vendite … ma vivere la
fede, annunciarla, e al tempo stesso mantenere un profondo rapporto con Cristo
e con Dio Padre”. Il Papa auspica per il futuro un cristianesimo a cui si
aderisce “per scelta convinta” e,
anche se minoritario, capace di plasmare
Don Marco Belladelli.
Pubblicato
su
guerra
ai Cristiani
Nel primo
giorno del 2011 la notizia dell’attentato ad una chiesa copta di Alessandria
d’Egitto in poche ore ha fatto il giro del mondo. Nella notte tra il 31
Dicembre e il 1 Gennaio, i fedeli davanti alla chiesa sono stati investiti da un’esplosione.
Non si sa ancora se per una autobomba o per un kamikaze, che si è fatto
esplodere. Il bilancio delle vittime conta 22 morti e 70 feriti, numeri senza
precedenti per l’Egitto, dove i conflitti tra cristiani e musulmani non sono
purtroppo una novità. L’anno scorso c’è stata una sparatoria nel sud del paese,
all’uscita dalla S. Messa di mezzanotte, con perdite sempre da parte dei
cristiani. Circa un mese fa invece i disordini sono scoppiati attorno al
monastero di San Bishoi, per fortuna senza vittime. Alla fine è pure arrivata
la rivendicazione di un gruppo terroristico vicino ad Al Qeada, nel quale si
collega quanto accaduto ad Alessandria con le minacce lanciate contro i
cristiani d’Egitto, dopo l’altro attentato ancor più sanguinoso del 31 Ottobre
scorso alla cattedrale siro-cristiana della Madonna del Perpetuo Soccorso di
Bagdad, dove ci sono stati 51 morti e molte decine di feriti. Se si ascoltano i
racconti dei sopravvissuti a questo grave fatto di sangue c’è da rimanere senza
fiato per la ferocia mostrata dai terroristi. Si trattava di un gruppo di
ragazzi molto giovani, tra i 14 e i 15 anni, armati di mitra, granate e con una
cintura esplosiva attorno alla vita. Sono entrati in chiesa poco dopo
mezzogiorno, appena finita l’omelia, e hanno cominciato a sparare alla cieca.
Hanno perfino sparato sulla croce, irridendo i presenti con parole che
evocavano quelle degli aguzzini di Gesù sul Calvario: “Ditegli che venga a
salvarvi!”. Non hanno avuto pietà per nessuno. Hanno sparato anche sui bambini,
soltanto perché piangevano terrorizzati. Quando finalmente è arrivato
l’esercito si sono fatti esplodere. Nell’ “Angelus” del 2 Gennaio, il Papa ha
detto: “Questo vile gesto di morte come quello di mettere bombe ora anche vicino
alle case dei cristiani in Iraq per costringerli ad andarsene, offende Dio e
l’umanità intera, che proprio ieri ha pregato per la pace e ha iniziato con
speranza un nuovo anno”. Pur invitando i cristiani a resistere e a
rispondere con la non violenza, Benedetto XVI ha parlato di una vera e propria
“strategia di violenze che ha di mira i
cristiani”. Insomma, siamo ormai alla “cristianofobia”,
un neologismo nel quale sono compresi atteggiamenti di avversione che vanno dal
fastidio all’emarginazione, dalla discriminazione alla persecuzione dei
cristiani nel mondo. Oltre all’Egitto e all’Iraq, in questi ultimi mesi abbiamo
registrato altri fatti di sangue contro i cristiani in Pakistan, nelle
Filippine e in Nigeria. Il tutto nella quasi totale indifferenza dell’occidente
cristiano. Non mi riferisco soltanto alle tiepide reazioni delle cancellerie
governative, ma anche alle nostre Chiese locali. La CEI aveva indetto per
domenica 21 Novembre una giornata di preghiera per i cristiani perseguitati nel
mondo, che sì e no ha trovato eco sui settimanali diocesani. Tutte le volte che
mi capita di parlare di questo tema, vedo i fedeli sgranare gli occhi
sbalorditi. Come a dire: ma le persecuzioni non erano quelle dei cristiani
mangiati dai leoni nel Colosseo? E non sono finite mille e settecento anni fa,
con l’edito di Milano dell’imperatore Costantino del 313? Purtroppo no. Le
persecuzioni attraversano tutta la storia della Chiesa. E il secolo del
martirio per eccellenza è manco a dirlo il XX, quello che si è appena concluso,
con 40 milioni di cristiani uccisi. A tutt’oggi tre su quattro perseguitati nel
mondo sono cristiani, a motivo della loro fede. Ecco perché il Papa ha scelto
come messaggio per
Conoscere
le cose come stanno è il primo passo per uscire dall’indifferenza.
Don Marco Belladelli.
Pubblicato
su
Il Gesù di
Ratzinger, volume secondo.
Il 10 Marzo
prossimo sarà in libreria il secondo volume su ‘Gesù di Nazaret’ scritto dal
Papa. Avrà come sottotitolo “La settimana
santa. Dall’ingresso in Gerusalemme alla risurrezione”. Pubblicato dalla
Libreria Editrice Vaticana e distribuito in Italia dalla Rizzoli, in 380
pagine, divise in nove capitoli, Ratzinger ci spiega che cosa è accaduto in
quella settimana tanto fondamentale per la fede cristiana, per la storia e per
la salvezza di tutta l’umanità. Si comincia con l’analisi degli avvenimenti
della Domenica delle palme, per finire con la risurrezione, passando attraverso
tutti gli altri fatti fondamentali di quegli otto giorni: la cacciata dei
mercanti dal tempio; i discorsi tenuti in quei giorni da Gesù sempre al tempio
di Gerusalemme; la lavanda dei piedi; il problema del traditore; la preghiera
sacerdotale; l’istituzione dell’Eucaristia; l’agonia nell’orto degli ulivi e
l’arresto; il processo di Gesù; la crocifissione, la morte, la risurrezione e
le apparizioni. Il libro si conclude con un’appendice dedicata all’ascensione.
Papa Ratzinger aveva in mente di scrivere questo libro ancor prima di diventare
Benedetto XVI. Lo aveva pensato come il frutto maturo della sua carriera accademica,
inserendosi su un filone letterario, quello delle “Vita di Gesù”,
iniziato alla fine del ‘700 con Lessing e che ha prodotto i suoi migliori
risultati nella prima metà del secolo scorso con Karl Adam, Romano Guardini e
il nostro Giovanni Papini. Il suo scopo però non è soltanto quello di emulare
gli illustri intellettuali e teologi che lo hanno preceduto. A suo dire, a
cominciare dagli anni ’50 in poi, con la diffusione dell’esegesi biblica
secondo il cosiddetto metodo storico-critico, “la figura di
Gesù, su cui poggia la fede, divenne sempre più nebulosa”, tanto da
diventare agli occhi degli stessi credenti addirittura evanescente. Pur
giudicando importante e decisivo il contributo offerto da tale metodo,
Benedetto XVI afferma, senza ombra di dubbio, di aver più fiducia nel Gesù del
Vangelo così com’è, senza troppe mediazioni, che non in quello degli esegeti e
dei teologi: “Io ritengo che proprio questo Gesù - quello dei Vangeli – sia
una figura sensata e convincente”. Insomma, quella che incontreremo nella
lettura del libro, soprattutto in questo secondo volume, è il risultato della
personale ricerca del volto del Signore fatta da Joseph Ratzinger, da sei anni
264° successore di san Pietro, come presupposto e incitamento autorevoli e
garantiti della nostra personale ricerca. Per invogliare alla lettura,
considerando l’emergenza morale in cui viviamo, concludo con un passo del 3°
capitolo, dedicato al ‘mistero del traditore’.
“Ciò che a Giuda è accaduto per Giovanni non
è più psicologicamente spiegabile. È finito sotto il dominio di qualcun altro:
chi rompe l’amicizia con Gesù, chi si scrolla di dosso il suo «dolce giogo»,
non giunge alla libertà, non diventa libero, ma diventa invece schiavo di altre
potenze – o piuttosto: il fatto che egli tradisce questa amicizia deriva ormai
dall’intervento di un altro potere, al quale si è aperto. Tuttavia, la luce
che, provenendo da Gesù, era caduta nell’anima di Giuda, non si era spenta del
tutto. C’è un primo passo verso la conversione:«Ho peccato», dice ai suoi
committenti. Cerca di salvare Gesù e ridà il denaro (cfr Mt 27, 3ss). Tutto ciò
che di puro e di grande aveva ricevuto da Gesù, rimaneva iscritto nella sua
anima – non poteva dimenticarlo.
La seconda sua tragedia – dopo il tradimento – è che non riesce più a credere
ad un perdono. Il suo pentimento diventa disperazione. Egli vede ormai solo se
stesso e le sue tenebre, non vede più la luce di Gesù – quella luce che può
illuminare e superare anche le tenebre. Ci fa così vedere il modo errato del
pentimento: un pentimento che non riesce più a sperare, ma vede ormai solo il
proprio buio, è distruttivo e non è un vero pentimento.
Fa parte del giusto pentimento la certezza della speranza – una certezza che
nasce dalla fede nella potenza maggiore della Luce fattasi carne in Gesù.
Giovanni conclude il brano su Giuda in modo drammatico con le parole: «Egli,
preso il boccone, subito uscì. Ed era notte» (13,30). Giuda esce fuori in un
senso più profondo. Entra nella notte, va via dalla luce verso il buio; il
«potere delle tenebre» lo ha afferrato (cfr Gv 3,19; Lc 22, 53).”
Don Marco Belladelli.
Pubblicato
su
Come rimediare alla
crisi di fede secondo Ratzinger
Domenica 16
Ottobre in san Pietro, durante la celebrazione eucaristica a conclusione del
convegno dei nuovi evangelizzatori, Benedetto XVI ha annunciato un “Anno della
Fede”. Inizierà l’11 Ottobre 2012, cinquantesimo anniversario dell’apertura del
Concilio Vaticano II e ventesimo dalla promulgazione del Catechismo della Chiesa
Cattolica, e si concluderà Domenica 24 Novembre 2013, festa di Cristo Re. Dopo
due encicliche, una sulla carità: “Deus Caritas Est”, e l’altra sulla speranza:
“Spe Salvi”, c’era d’attendersi un nuovo autorevole intervento del Papa
dedicato alla fede, per completare il discorso sulle tre virtù teologali. Nella
Lettera d’indizione sono spiegate le ragioni e gli scopi dell’iniziativa.
Facendo propria un’espressione degli Atti degli Apostoli, il Papa presenta la
fede come una “porta” che introduce alla comunione con Dio, il Dio trinitario
di Gesù, e come un cammino che dura tutta
Don Marco Belladelli.
pubblicato
su
Assisi,
città della pace
Venticinque
anni dopo Giovanni Paolo II, il 27 Ottobre scorso Benedetto XVI ha voluto di
nuovo convocare ad Assisi i rappresentanti di tutte le Religioni del mondo per
pregare insieme con loro per la pace e
Don
Marco Belladelli.
pubblicato
su
La Chiesa oltre gli
abusi sessuali
“Sì, sulla
pedofilia la Chiesa sta finalmente cambiando”. Ad affermarlo è
don Marco Belladelli.
pubblicato
su
I numeri del Papa.
Ottantacinque
e sette sono i numeri del Papa. 85 sono gli anni che ha compiuto il 16 Aprile
scorso e 7 invece sono quelli di pontificato, essendo stato eletto il 19 Aprile
2005. Qualcuno magari può anche provare a giocarseli. Nessun altro Pontefice da
un secolo a questa parte aveva superato il traguardo degli 85 anni. La
coincidenza delle due date offre lo spunto per fare un bilancio di quello che
all’inizio veniva considerato un pontificato di transizione. Nonostante tutto,
molti continuano a paragonare Benedetto XVI con il suo predecessore, per farlo
risultare nel confronto perdente. Senza togliere nulla alla indubbia grandezza
del beato Giovanni Paolo II, è stato Ratzinger stesso a rimuovere l’ingombrante
imbarazzo, quando in un discorso alla Curia romana del Dicembre 2008,
commentando le principali attività di quell’anno, tra le quali anche la
“Giornata Mondiale della Gioventù” in Australia, disse “Il Papa non è la star intorno alla quale gira il tutto. Egli è
totalmente e solamente Vicario. Rimanda all’Altro che sta in mezzo a noi”.
Più che rimproverargli di non essere come Woityla, cosa del resto ovvia, molti
non gli perdonano ancora il suo iniziale e continuato attacco al relativismo e
soggettivismo dominante la cultura di oggi, tanto che un grande quotidiano
nazionale preferisce dare spazio ai ”secondo
me” di qualche Cardinale in pensione, più ammiccante verso il laicismo
dominante, piuttosto che prendere in seria considerazione il ricco e illuminate
magistero papale di questi ultimi anni. L’altro grande sforzo di Benedetto XVI
è quello di riscattare il Concilio Vaticano II dal rischio di un appiattimento
sulla modernità in quanto tale. Pericolo derivato da una interpretazione dei
testi conciliari improntata alla rottura con il passato, e non alla continuità
con esso. Un compito non facile, se si considera che certi modi di fare,
eccessivamente riduttivi nei confronti della fede cristiana, oggi presenti
nella Chiesa, hanno avuto e continuano ad avere molta più influenza sul Popolo
di Dio, rispetto ad una ortodossia più in sintonia con la tradizione di duemila
anni di storia del cristianesimo. L’altra faccia della medaglia, in risposta ai
problemi posti oggi dalla modernità, è il grande impegno profuso in favore
della “nuova evangelizzazione”, tema di cui si occuperà anche il prossimo
Sinodo dei Vescovi di Ottobre. In questa prospettiva va considerata la lettera
indirizzata nel Maggio 2007 ai Cristiani della più grande nazione del mondo, la
Cina, dove a tutt’oggi la Chiesa non è libera di esprimersi e di perseguire le
sue finalità spirituali per il bene di oltre un miliardo e trecento milioni di
persone. Anche il secondo sinodo speciale per l’Africa, con i due viaggi
apostolici (Camerun e Angola nel 2009 e Benin nel 2011) che lo hanno
accompagnato, e il viaggio in Brasile nel 2007, per la quinta conferenza
generale dell’episcopato latinoamericano, avevano lo scopo di dare nuovo
impulso all’evangelizzazione. Di fronte alla complessità di questo impegno
apostolico e per rilanciare a tutto tondo e in ogni direzione la missionarietà
della Chiesa, nel Giugno 2010 Papa Ratzinger ha costituito un nuovo dicastero
vaticano appositamente dedicato alla nuova evangelizzazione. Un altro grande
merito di Benedetto XVI che, quando fu eletto, non pensava di affrontare nelle
dimensioni con cui si è presentato, è stato la lotta contro la pedofilia nella
Chiesa nel segno della trasparenza, della punizione dei colpevoli e della
collaborazione con le autorità civili. Insomma, un pontificato tutt’altro che
di transizione. Papa Ratzinger non si è accontentato di sopravvivere a se
stesso. Per questo dopo sette anni rimane ancora valido l’invito che rivolse a
tutti i Cristiani all’inizio del suo pontificato: “Cari amici – in questo momento io posso dire soltanto: pregate per me,
… perché io non fugga, per paura,
davanti ai lupi.”.
don Marco Belladelli.
pubblicato
su
Se anche i Vescovi
disobbediscono al Papa …
Il 14 Aprile scorso Benedetto XVI ha scritto una lettera ai Vescovi di
lingua tedesca per una questione che riguarda tutta la Chiesa, ma sulla quale a
tutt’oggi ha incontrato le resistenze di molte Conferenze Episcopali, prima fra
tutte, strano a dirsi, proprio di quella italiana. Il problema è la corretta
traduzione della formula di consacrazione del vino durante la S. Messa. Le
parole che da quasi quarant’anni ascoltiamo, in questo punto particolare della
celebrazione, quando andiamo a Messa sono: “Prendete,
e bevetene tutti: questo è il calice del mio Sangue per la nuova ed eterna
alleanza, versato per voi e per tutti”, mentre il testo latino ufficiale, rimasto immutato anche dopo il
Concilio, dice: “pro vobis
et pro multis”, cioè “per
voi e per molti”. Quando negli anni settanta si trattò di redigere i testi
del rito della S. Messa nelle lingue nazionali secondo la riforma conciliare,
si decise per il “per tutti”, perché si riteneva che questa formula
interpretasse più compiutamente il valore del sacrifico di Gesù, che morì in
croce per tutti gli uomini, nessuno escluso. Nella sua lettera il Papa dice due
cose. Fatto salvo il valore ontologico della morte di Gesù il quale, come più
volte ci ricorda San Paolo in vari passi dei suoi scritti, morì per tutti,
nella liturgia bisogna rispettare alla lettera i racconti neotestamentari
dell’ultima cena, nei quali si usano le parole o “per molti” o “per voi”, ma
mai “per tutti”. La celebrazione eucaristica è per “i molti” che sono presenti
e hanno accolto la chiamata di Dio alla salvezza, in rappresentanza di tutti
coloro che ancora non hanno risposto. Parlando poi della sua personale
esperienza, aggiunge: “Dal
momento che devo recitare le preghiere liturgiche continuamente in lingue
diverse, noto che, talora, tra le diverse traduzioni, non è possibile trovare
quasi niente in comune e che il testo unico che ne è alla base, spesso è
riconoscibile soltanto da lontano. Vi sono state poi delle banalizzazioni che
rappresentano delle vere perdite”. I riti della S. Messa nelle varie
lingue nazionali devono quindi essere una ‘traduzione’ del testo ufficiale
latino, non una ‘interpretazione’, perché seguendo questo criterio si finisce
per tradire, spesso
addirittura banalizzare, il contenuto della liturgia, preghiera ufficiale di
tutta la Chiesa universale. Se poi, continua Benedetto XVI, fosse necessario spiegare ai fedeli il significato di
certe formule, si ricorra alla catechesi. Attraverso di essa tutti potranno apprezzare il
valore della liturgia, una delle fonti dell’unità della Chiesa. Elencati i temi
da sviluppare, si meraviglia che tutto ciò non sia stato fatto a tempo debito,
visto che la questione si trascina almeno dal 2001. Come dice il proverbio, il
Papa ha parlato ai tedeschi, perché tutti comprendano. Su questioni come la
liturgia non c’è spazio per decisioni democratiche, come hanno fatto i Vescovi
italiani nel Novembre 2010 che, pur sapendo come stavano le cose, avevano
deciso a schiacciante maggioranza, 171 contro 11, a favore del “per tutti”. Se
è vero che Gesù è morto per tutti, è altrettanto evidente che non tutti
accolgono questo dono. Insomma, contrariamente a quello che alcuni pensano,
l’inferno purtroppo non è vuoto.
don Marco Belladelli.
pubblicato
su
Quo vadis, Petre!
“Fratres carissimi, non solum propter tres
canonizationes ad hoc Consistorium vos convocavi, sed etiam ut vobis decisionem
magni momenti pro Ecclesiae vitae communicem. Conscientia mea iterum atque
iterum coram Deo explorata ad cognitionem certam perveni vires meas
ingravescente aetate non iam aptas esse ad munus Petrinum aeque administrandum”.
Carissimi Fratelli,vi ho convocati a
questo Concistoro non solo per le tre canonizzazioni, ma anche per comunicarvi
una decisione di grande importanza per la vita della Chiesa. Dopo aver
ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla
certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per
esercitare in modo adeguato il ministero petrino.
Con
queste parole, ieri, 11 Febbraio 2013 verso le 11,30 circa, Benedetto XVI ha
comunicato ai Cardinali, riuniti in Concistoro ordinario pubblico per la
proclamazione di tre prossime canonizzazioni, la sua decisione di dimettersi da
Vescovo di Roma e successore di S. Pietro alla guida della Chiesa. In pochi
minuti la notizia ha fatto il giro del mondo, suscitando tra i cristiani, e non
solo, turbamento e sconforto. Nella dichiarazione scritta in latino di suo
pugno il Papa dice che negli ultimi tempi in lui non sono venute meno soltanto
le forze fisiche, ma soprattutto le forze spirituali, il vigore dell’animo. Per
questo “in piena libertà” ha preso
questa grave decisione. Del suo deperimento fisico ce ne eravamo resi conto
tutti. Poco meno di un mese fa un amico che lavora presso la Santa Sede mi
aveva confidato che mentre teneva un discorso durante un’udienza pubblica nei
giorni successivi al Natale, il Papa aveva dovuto interrompersi perché non
riusciva più a leggere. Ascoltandolo però non pareva che fosse venuto meno
anche il vigore dell’anima. Tutt’altro! E’ proprio questo che lascia sgomenti e
che suscita tante domande: come è possibile? Tutti abbiamo ancora vivo nella
memoria il coraggio e la forza di Giovanni Paolo II. Anche se in condizioni a
dir poco pietose, tre giorni prima di morire ha voluto a tutti costi
affacciarsi dalla finestra del suo studio per salutare e benedire i pellegrini
raccolti in piazza San Pietro. Una mamma intervistata ieri nei pressi della
Basilica vaticana, diceva che come non ci si dimette mai dall’essere genitori,
così pure da una paternità spirituale, come quella del Papa. Nonostante i tanti
paragoni ad avvenimenti simili del passato, quello più comune è con Celestino
V, reso famoso perché inserito dall’Alighieri nella Divina Commedia come colui
che fece il gran rifiuto, la decisone di Benedetto XVI è un qualcosa che
non ha precedenti nella storia, sia per quello che oggi è e rappresenta la
Chiesa cattolica nel mondo, sia per il particolare momento storico che tutti
stiamo vivendo. Pur trattandosi di una eventualità prevista dal Codice di
Diritto canonico, siamo davanti ad un fatto del tutto eccezionale. Quando nel
Settembre 2011 due noti giornalisti come Giuliano Ferrara e Antonio Socci
avevano dalle rispettive testate sui cui scrivono, Il Foglio e Libero, avevano
anticipato questa possibile decisione di Benedetto XVI al compimento degli 85
anni, furono quasi sbeffeggiati, come se parlassero di fantastoria, e non della
realtà. Rileggere oggi quei pezzi, può aiutarci a capire quello che è successo.
Più volte da queste colonne anch’io ho messo in evidenza come in questi quasi
otto anni di pontificato, Benedetto XVI ha dovuto fare i conti con le tante
contrarietà incontrate, soprattutto dentro la Chiesa. Basta ricordare le due
lettere che ha inviato a tutti i Vescovi del mondo per fare accettare le sue
decisioni e le resistenze che ha incontrato nella lotta contro la pedofilia
nella Chiesa da parte di chi non era d’accordo con il metodo da lui proposto.
Proprio Domenica scorsa abbiamo ascoltato nel Vangelo quello straordinario
dialogo tra Gesù e il futuro capo degli Apostoli: “Prendi il largo! … Sulla tua parola getterò le reti … Non temere, sarai pescatore di uomini”.
Una trasformazione che ha reso capace l’umile pescatore di Galilea di superare
prima le sue fragilità di uomo pavido che aveva rinnegato il suo Maestro, e poi
di farsi carico della missione affidatagli dal Signore, fino a morire,
crocifisso a testa in giù sul Gianicolo, a Roma, per mano di Nerone. Nel
rispetto per ciò che Benedetto XVI ancora incarna, fino al 28 Febbraio
prossimo, e per l’uomo, Joseph Ratzinger, che nel travaglio della sua coscienza
ha preso questa grave decisione, contro la quale nessuno può permettersi di
andare, a mio modesto parere resta aperta una grande domanda: tutto questo è
volontà di Gesù Cristo?
don Marco Belladelli.
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pubblicato
su
Quei fulmini su San
Pietro
Le
inattese dimissioni di Benedetto XVI hanno turbato non soltanto i fedeli, ma
anche molte persone religiosamente tiepide, indifferenti e a lui non favorevoli
per pregiudizio ideologico, come per esempio alcuni omosessuali militanti, che
in questi anni lo hanno sempre visto come un loro nemico e spesso dileggiato e
fatto oggetto di offese.
Il
Papa non è un’autorità tra le altre, o semplicemente un’alta autorità morale
come comunemente si usa dire. E’ il dolce Cristo in terra, come lo chiamava S.
Caterina da Siena. E’ il vertice dell’incarnazione, il contrappeso a qualsiasi
ideologia. Ci si raccoglie attorno a lui, non soltanto per la dottrina (credere
ciò che crede Pietro), ma per riconoscere la voce di Cristo e il suo amore (“Simone,
mi ami tu? Pasci i miei agnelli”. Gv 21,16).
In
questi giorni molti hanno interpretato la sua rinuncia al ministero petrino
come una cosa che rientra nella normalità di una persona anziana che non ce la
fa più. Più irritante invece, e a parer mio del tutto fuori luogo, la voce di
tanti laici che, forti della loro quasi assoluta occupazione mediatica, hanno
esultato per la fine dell’ultimo retaggio di medioevo arrivato fino a noi,
inneggiando al trionfo della modernità. Proprio quelli che in questi otto anni
hanno sempre combattuto Papa Ratzinger, a cominciare da quel suo atto d’accusa
contro il relativismo imperante dell’aprile 2005, oggi lo esaltano,
interpretando il suo ritiro come una capitolazione a quella logica a cui si era
opposto.
Per
fortuna, nella lectio magistralis sul Concilio tenuta ai preti di Roma il 14/02
u.s., è stato ancora una volta Benedetto XVI in persona a denunciare questa
costitutiva incapacità dei media a capire la Chiesa, per quel vizio innato di
buttare ad ogni costo tutto in politica. Di fronte poi all’euforia di chi si
esalta per il momento storico che stiamo vivendo, personalmente avrei preferito
che non si fosse mai realizzata una tale situazione. Del resto, anche Benedetto
XVI nell’udienza di Mercoledì 13/02 ha definito “grave” questa sua decisione.
Come a dire che se appena avesse intravisto una qualsiasi altra via di uscita,
l’avrebbe seguita. Per questo il gesto di Benedetto XVI è perfettamente in
linea con la sua forte personalità di uomo coraggioso, franco e privo di timori
reverenziali verso chicchessia, come lo abbiamo ben conosciuto in questi anni,
soprattutto nei momenti di difficoltà che hanno segnato il suo pontificato. Un
atteggiamento tanto fermo che per molti ha rappresentato un fondamento di
speranza, altri invece ne sono stati molto infastiditi, come più volte ho messo
in evidenza su queste colonne.
In
questi ultimi mesi Benedetto XVI ha spesso ribadito che il futuro è nelle mani
di Dio (03/01/2013) e che la Chiesa è di Dio, per questo il suo volto non va deturpato
da divisioni e lotte intestine (cfr. omelia del 13/02/2013). Questi ammonimenti
sembrano avere il tratto distintivo di un testamento, come se con il gesto
delle sue dimissioni Benedetto XVI abbia voluto rimettere Dio e la sua
misteriosa e potente azione di salvezza al centro della vita della Chiesa e del
mondo, così che tutti possano vederla, come abbiamo visto quei fulmini
scaricarsi sulla cupola di san Pietro. Riguardo poi a come vestirà e come lo
chiameremo dopo le 20 del 28/02, mi è venuta in mente l’immagine di quel
Vescovo vestito di bianco di cui parlava una bambina tanti anni fa. Che c’entri
qualcosa, o è soltanto una favola?
Marco Belladelli.
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pubblicato
su
Viva il Papa! Viva Benedetto XVI!
Un anonimo cristiano quasi 170 anni ha inciso
il suo affetto per il Papa del suo tempo, Pio IX, in un graffito ancora oggi
visibile e leggibile su un banco del Duomo di Mantova. Oggi invece approfitto
dello spazio concessomi dal Direttore del nostro giornale per dire il mio
grazie a Benedetto XVI, che ieri si è congedato dalla Chiesa e dal mondo con il
suo solito stile fatto di serena semplicità, sentimenti sinceri, cristallina
chiarezza di pensiero e una fede incrollabile in Gesù Cristo, circondato
dall’affetto di migliaia di fedeli e dalla simpatia e dalla stima di
altrettanto numerosi uomini di buona volontà in tutto il mondo. Quanto abbiamo
visto in questi ultimi giorni di pontificato in piazza S. Pietro è la punta
dell’iceberg di quello che si sente e si vive nella Chiesa in tutto il mondo.
Nonostante la contrarietà di certi media, questo Papa è entrato profondamente
nel cuore della gente, sia per quello che rappresenta, sia per quello che ha
fatto. Prima di tutto va ricordato il suo luminoso insegnamento magisteriale
che rimarrà un punto di riferimento fondamentale, soprattutto per quanto
riguarda la spinosa questione del valore e del significato del Concilio
Vaticano II, da interpretarsi nel segno della continuità con la tradizione
della Chiesa e non della discontinuità. Altrettanto importante è stata la sua
azione pastorale che ha
messo al primo posto la riscoperta della fede e la sua gioiosa testimonianza, come stiamo sperimentando in questo
Anno della fede da lui voluto per sollecitare la Chiesa ad una più viva
presenza oggi nel mondo. Non vanno inoltre dimenticati l’impegno a favore dei
valori non negoziabili della vita umana, la convinta e intensa azione
ecumenica, soprattutto verso gli ortodossi e gli anglicani, per rafforzare
l’unità della Chiesa, il dialogo con le altre religioni e lo sforzo di porre al
centro del dibattito culturale la ragione come punto d’incontro con la
modernità. Non meno rilevante è stata la sua azione di governo, attraverso la
quale ha cercato di tener fede a quelle esigenze di efficacia, competenza e
pulizia interna alla Chiesa, contro il carrierismo, l’incompetenza funzionale e
la sporcizia denunciate nella famosa Via Crucis del 2005, quando era ancora
cardinale. Non tutti sanno per esempio che ha rimosso o obbligato alle
dimissioni circa un’ottantina di Vescovi per incapacità o indegnità personale.
Nonostante tutto lui stesso ha riconosciuto nella sua ultima udienza generale
come in questi otto anni non siano mancati momenti difficili nei quali sembrava
che il Signore dormisse e la barca di Pietro dovesse affondare. Molti Vescovi
per esempio hanno mal digerito la liberalizzazione della celebrazione della S.
Messa in latino secondo il rito antico. E’ altrettanto noto che la sua lotta contro
la piaga della pedofilia nel clero non abbia goduto della piena solidarietà
della Curia romana e più in generale di tutta la Chiesa. A completare l’opera
ci mancava lo scandalo Vatileaks, con un maggiordomo che sottrae documenti
dalla segreteria personale per passarli ad un giornalista e darli in pasto
all’opinione pubblica. Nei giorni scorsi indiscrezioni di stampa sulla
relazione della Commissione Cardinalizia incaricata di indagare su questo
crimine, fermamente e seccamente smentite dalla Segreteria di Stato, facevano
intravedere dietro a questo scandalo lotte di potere, avidità personali e
morbosità sessuali. Un mix che ricorda molto il caso di padre Marcial Maciel
Degollado, fondatore dei legionari di Cristo, prontamente perseguito da
Benedetto XVI nel Maggio 2005, dopo neanche un mese dalla sua elezione. Una
figura misteriosa, a detta dello stesso Ratzinger, dalla doppia vita, che ha
fatto della propria esistenza una struttura peccaminosa fondata sulla menzogna.
In assoluto non siamo in grado di escludere una tale realtà possa aver
prolificato dentro la Chiesa per mezzo di compiacenti complicità in modi e
forme del tutto inusuali. Qualora una tale ipotesi fosse anche soltanto
minimamente vera, non ci resta che combatterla nel modo che ci ha insegnato
Benedetto XVI, amando e servendo il Vero, il Bene e il Bello, che è Gesù
Cristo, e con la trasparenza. C’è oggi forse qualcosa più degno di Lui per gli
uomini di Chiesa e per gli uomini e le donne moderne? Viva il Papa! Viva
Benedetto XVI!
MARCO BELLADELLI.
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Benedetto XVI e la sede vacante
L’immagine
di quell’elicottero bianco con a bordo l’ancora Papa Benedetto XVI, che giovedì
28 Febbraio per alcuni istanti si è sovrapposto alla cupola di San Pietro
dirigendosi poi verso sud, per sorvolare la via Appia e raggiungere Castel
Gandolfo, rimarrà nella storia e nella mente di tutti coloro che lo hanno
visto.
Intanto
Lunedì 4 Marzo sono iniziate le Congregazioni dei Cardinali, a cui partecipano
sia i 115 grandi elettori che entreranno in conclave, sia gli ultraottuagenari
che per diritto sono esclusi dall’assemblea elettiva. In attesa della data del
conclave, restano ancora senza risposte esaustive le domande sul significato
delle dimissioni di Papa Ratzinger e soprattutto su che cosa dobbiamo
aspettarci nel futuro prossimo. Dagli scenari tratteggiati in questi giorni
dagli addetti ai lavori nei dibattiti, confronti, analisi e interviste più o
meno anonime, traspare con sufficiente evidenza l’urgenza di mettere mano alla
riforma della Curia romana e la necessità di un nuovo slancio missionario. Con
tutto ciò, pare anche che i Cardinali non abbiano ancora trovato né un punto
d’incontro né tanto meno la persona che meglio possa governare la Chiesa in
questo particolare momento storico. Credo sia utile allora riprendere gli
ultimi interventi di Benedetto XVI, nei quali neanche troppo velatamente sembra
aver voluto mandare un messaggio a tutta la Chiesa e in particolare a coloro
che sono chiamati a scegliere il nuovo successore dell’apostolo Pietro.
Nell’Angelus di Domenica 24/02 Papa Ratzinger ha paragonato le sue dimissioni
ad una risposta al Signore che lo chiama a salire sul monte. Nell’ultima
udienza del 27/02 ha parlato di “un presente di Dio” e di “una grande fiducia,
perché la forza della Chiesa sta nella Parola di verità del Vangelo”. Come a dire:
non preoccupatevi, ciò che sta accadendo è opera di Dio e non dell’uomo. Un
altro punto su cui ha insistito è su come intendere la Chiesa. Citando il
grande teologo, Romano Guardini il 28/02 ai Cardinali ha ricordato che la
Chiesa “non è un’istituzione escogitata e costruita a tavolino …, ma una realtà
vivente”.
Il giorno prima in piazza San Pietro aveva gridato: “la Chiesa è viva!”. Ringraziando le tante persone semplici che in
questi otto anni gli hanno scritto manifestandogli affetto e condividendo con
lui gioie e angosce del vivere ogni giorno la fede cristiana, ha descritto la
Chiesa come “una comunione di fratelli e sorelle nel corpo di Gesù Cristo”. Nell’ultimo breve saluto alla folla
raccolta nella piazza del palazzo apostolico di Castel Gandolfo, prima di
definirsi un semplice pellegrino giunto all’ultima tappa del suo cammino
terreno, si è lasciato scappare: “Non sono più Sommo Pontefice”. Voleva
scrollarsi di dosso con qualche ora in anticipo rispetto alla scadenza il peso
di un pontificato molto difficile, oppure intendeva anticipare il nuovo che
avanza? La serenità del suo volto e la risposta del giorno prima a coloro che
lo accusavano di voler scendere dalla croce: “Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore
Crocifisso”, ci fanno propendere per la seconda ipotesi. I Cardinali
chiamati a scegliere il nuovo successore di Pietro, sono davanti a un dilemma:
fingere di cambiare perché nulla cambi, come purtroppo è avvenuto molto spesso
negli ultimi decenni, oppure intraprendere il difficile cammino della
conversione e del ritorno alla freschezza e alla forza del cristianesimo delle
origini. Vuoi vedere che per uscire dall’impasse e imboccare la via voluta da
Dio, vedremo di nuovo tornare a Roma quell’elicottero bianco con a bordo
Benedetto XVI? Nei prossimi giorni avremo la risposta.
Marco Belladelli
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