D.A.T.,
una questione di vita o di morte.
Tutti conosciamo i casi umani,
clinici e giuridici di Piergiorgio Welby, di Eluana Englaro e di DJ Fabo per il
grande risalto mediatico che hanno avuto le loro storie personali e per la
battaglia condotta insieme a familiari ed amici per ottenere il diritto di
morire. A questo proposito vorrei raccontare una storia vissuta in prima
persona negli oltre tre lustri di vita ospedaliera in un importante nosocomio
della capitale. Nel mio giro quotidiano di visita alle persone
ricoverate,
trovai in rianimazione una signora di quarant’anni, felicemente sposata e madre
di due figli ancora piccoli, sottoposta nella notte ad intervento chirurgico
d’urgenza, dal quale era uscita in condizioni disperate. Il marito, informato
della gravità del quadro clinico, già dalle prime ore del giorno era davanti
alla stanza del primario, determinato a firmare il consenso per la donazione
degli organi. Il fratello, tra l’altro pure lui medico in un altro ospedale
romano, invece si aggirava nervosamente nella sala d’attesa della terapia
intensiva, inveendo ad alta voce contro l’accanimento terapeutico praticato, a
suo dire, dai colleghi che avevano in cura la sorella. Quel giorno era in
sevizio un medico, uno di quelli che vorrei trovare sul mio cammino qualora mi
venissi a trovare in quelle stesse gravi condizioni di salute, il quale non
volle sentire ragione né dell’uno, né dell’altro, ma si piazzò ininterrottamente
per 24 ore accanto al letto della paziente, monitorandone minuto per minuto la
situazione e adeguando le varie terapie somministrate a seconda anche del minimo
mutamento del quadro clinico. Ad distanza di oltre dieci anni da quei fatti, la
signora oggi gode ancora degli affetti della sua famiglia e dei suoi cari, gira
per Roma per ottemperare ai suoi impegni professionali e personali e gode di
ottima salute. Se a quel tempo fosse stata in vigore la legge sul testamento
biologico recentemente approvata dal Parlamento, quel medico avrebbe dovuto
soltanto prepararsi a firmare il certificato di morte. Sono convinto che nei
nostri ospedali italiani siano molto più numerosi i casi simili a quello che ho
raccontato sopra, che non trovano nessun risalto mediatico e che quindi
rimangono nel più assoluto anonimato, perché considerati come la normalità,
rispetto agli altri casi più famosi, che hanno fatto versare fiumi d’inchiostro
e un mare di parole a colleghi giornalisti e a sedicenti esperti in materia,
conclusisi con la morte dei loro protagonisti. Nonostante i proclami
entusiastici di chi parla di una tappa storica per l’Italia, di un progresso
nell’orizzonte dei diritti umani e di una vittoria di civiltà, la legge sul
testamento biologico approvata nei giorni scorsi è inequivocabilmente
l’anticamera dell’eutanasia. Il problema infatti non è tanto per chi è capace
di intendere e di volere, il quale può in qualsiasi momento ritirare o rivedere
le proprie “disposizioni” interagendo
nel momento del bisogno direttamente con i medici o con chi di dovere, ma per coloro che nel testo sono indicati come
“minori o incapaci”. Per i minori
entrano in gioco i genitori. Per coloro che sono genericamente definiti
‘incapaci’, categoria nella quale rientrano tipologie diverse di persone, come
per esempio chi si trova in stato vegetativo persistente, oppure è affetto da
deficit intellettivo, anziani in stato di demenza progressiva, malati cronici
giunti ad uno stadio avanzato della malattia, si ricorre invece ad un tutore o
un amministratore di sostegno che deve farsi garante delle loro volontà. Chi può
garantire che in molti di questi casi non si verifichino degli abusi per
ragioni personali, o semplicemente per ideologia, liberando la società dalla
‘peso’ dei più deboli, considerati soltanto come un costo economico non più
tollerabile? Il solo fatto che di fronte a questa legge si possa dubitare circa
l’effettiva tutela a garanzia dei cosiddetti ‘incapaci’ la squalifica in toto.
Strano che quella parte di ‘cattolici’ che nonostante i vari distinguo, si sono
detti d’accordo con questa legge non abbiamo intravisto questa crepa, che in un
batter d’occhio si può trasformare in una voragine. Il problema non è quindi
quello che si vuol far credere, e cioè il diritto di esprimere il consenso ai
trattamenti clinici a cui dobbiamo essere sottoposti, ma la strisciante
destrutturazione dell’uomo dalle relazioni interpersonali e da se stesso,
perché questa volta è davvero una questione di vita o di morte. Quanto ho
scritto, credo basti a suscitare quella benedetta inquietudine per smuovere la
nostra inerzia ad interessarsi accuratamente di quanto sta avvenendo sotto i
nostri occhi.
Marco Belladelli
(pubblicato
su La Voce di Mantova il 20/12/2017).
Grazie per la tua riflessione e Augurismoci che i politici di professione cattolica tramutano in atti la loro appartenenza
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