Lorenzo Lotto, Cristo vite, 1524, Cappella Suardi, Trescore Balneario (BG). |
V
Domenica di Pasqua “B”
Chi
rimane in me ed io in lui fa molto frutto.
Dal Vangelo secondo Giovanni (15,
1-8)
In quel tempo, Gesù disse ai
suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni
tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto,
lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che
vi ho annunciato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso
se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la
vite, voi i tralci. Chi
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli». Parola del Signore.
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Oggi
Gesù ci propone un’altra immagine importante per rivelare il mistero della sua
persona e per rappresentarci il rapporto che deve esistere tra lui ed i
discepoli: quello della vite e dei tralci. Siamo nel contesto dell’ultima cena,
uno dei momenti più solenni di tutta la vita di Gesù e l’affermazione “Io sono la vera vite e il Padre mio è l’agricoltore”,
ci fa pensare a tutte quelle volte in cui nell’antico testamento si è paragonato
il popolo d’Israele ad una vigna che, nonostante le cure ricevute, alla fine
però non ha dato i frutti sperati (cfr. Os 10,1-3; Is 5,1-7; Ger 2,21). In Gesù
il Padre ha finalmente trovato la docilità, la corrispondenza e l’amore che si
attendeva.
Se
Gesù è la “vera vite”, i discepoli
sono i tralci. Come la fecondità del tralcio dipende dal suo rimanere attaccato
alla vite, la stessa cosa vale anche per la vita del discepolo. Si potrebbe
dire: “Voi siete, perché io sono”, e di conseguenza “senza di me non potete fare nulla”, un’affermazione tanto forte che
apre la riflessione sul senso del “rimanere
in Cristo”. La fecondità della vita cristiana dipende quindi dalla qualità
del rapporto che ci unisce a Gesù, rapporto segnato dalla prova e dalla
persecuzione, rappresentati con l’immagine della potatura. In alternativa c’è
il giudizio di condanna e di perdizione: “Ogni
tralcio che in me non porta frutto, lo taglia … Chi non rimane in me viene
gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e
lo bruciano”.
All’inizio
e alla fine del nostro brano di oggi si fa riferimento alla persona del Padre,
la cui opera è paragonata all’agricoltore, che si prende cura della vigna, come
già nei testi dell’antico testamento. Nonostante tutte le difficoltà provocate
dall’infedeltà umana egli raggiunge il suo scopo che è l’abbondanza dei frutti
prodotti dai discepoli in comunione con il Signore Gesù.
Viene
spontaneo chiederci: siamo un tralcio che porta frutto o invece siamo un
tralcio secco? E fuori dall’immagine: quanto è vitale il nostro rapporto con
Cristo? Vengono in mente le ormai famose parole con cui l’allora cardinal
Ratzinger, prima di essere eletto Papa, paragonava la vita dei cristiani di
oggi ad una barca sballottata dalle turbolenze del pensiero moderno, dominato
dalla dittatura del relativismo, dove unico criterio di giudizio della realtà è
il proprio “Io”. Per verificare questa supponenza egocentrica, non c’è bisogno di ricorre a sofisticate analisi
psico- socio- filosofico. Basta fermarsi pochi istanti a riflettere,
soprattutto in questo tempo di pandemia, per rendersi conto quanto il nostro
spirito sia intasato da un individualismo soffocante. Molto spesso nel dialogo
spirituale della confessione o della direzione spirituale capita di incontrare
persone che sono sinceramente alla ricerca di Dio, ma incapaci di raggiungerlo,
per quel circolo vizioso che li porta continuamente, nel bene e nel male, a
ritenere se stessi la misura del mondo.
La
realtà della Pasqua, cioè il Cristo risorto, è la possibilità concreta offerta
ad ogni uomo e donna, in particolare ad ogni cristiano/a, di comprendere la
nostra esistenza nell’orizzonte del Signore Gesù, cioè del “Rimanete
in me e io in voi”
capace di ricondurre nei giusti limiti il nostro “Io”, per una fecondità nella prospettiva dell’ “amore più grande, di chi da la vita per chi
ama” (Gv 15,13). Accogliendo in noi la grazia di Dio attraverso la
preghiera personale e comunitaria, l’ascolto della Parola e i sacramenti,
diventiamo capaci di quelle opere, che indicano la presenza del Regno di Dio in
mezzo a noi: “ … ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e
mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi
avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi …”
(Mt 25,35-36). Anche quando il nostro animo è segnato dalla sofferenza per le prove della vita, iniziamo sempre il nostro
incontro con Dio con la lode della sua grandezza, la benedizione per le opere
meravigliose da lui compiute, il ringraziamento per tutti i doni ricevuti. Un
atteggiamento segno della qualità del nostro rapporto con Cristo: “Chi
rimane in me e io in lui, fa molto frutto”. Buona Domenica!
don Marco Belladelli.
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