giovedì 18 settembre 2014

Cultura e Società

 
QUANDO L'AMORE NON BASTA ...
A proposito della polemica scoppiata contro il sindaco di Bologna che ha deciso la trascrizione dei matrimoni tra omosessuali contratti all'estero per l'opposizione del Prefetto che ha chiesto la revoca del provvedimento, mi pare opportuno riproporre quanto scrissi due anni e mezzo fa su questo tema su LA VOCE DI MANTOVA. Il caso ha suscitato un vespaio nel quale tutti vogliono dire la loro al di là di ogni legittimità. Il sindaco Merola era tutto gongolante perché l'intervento del prefetto avrebbe costretto gli interessati ad appellarsi ai giudici, i quali in ottemperanza della legislazione europea avrebbero sicuramente riconfermato il provvedimento. Anche se in materia di diritto di famiglia ogni stato dell'unione ha la più totale indipendenza. Viste le difficoltà che questa legge incontra in Parlamento, si vuole a tutti i costi introdurre anche in Italia il matrimonio tra persone dello stesso sesso dal basso, come un dato di fatto di cui prendere atto.
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Parto innanzitutto dalla paradossalità della crisi che sta interessando il matrimonio. Se è vero che è diventato uno degli obiettivi principali delle rivendicazioni degli omosessuali in tutto il mondo, è altrettanto evidente dai numeri e dai dati fornitici dalle statistiche che in Occidente gli eterosessuali se ne stanno allontanando sempre di più, perché a conti fatti lo considerano molto più rischioso che vantaggioso. Una contraddizione non del tutto casuale e che non va interpretata nella logica del chiodo scaccia chiodo, nel senso che uno lascia e l’altro prende. Mi pare invece che entrambi i fenomeni socio-culturali vadano nella stessa direzione, cioè di mettere in discussione alla radice il significato originale dell’istituto del matrimonio, tradizionalmente inteso. Infatti, sia la scelta della convivenza tra gli eterosessuali, come anche come la richiesta di potersi unire in matrimonio da parte degli omosessuali si fonda unicamente sull’autosufficienza dell’amore, a scapito di ogni forma di rigidità istituzionale, propria del matrimonio, il cui fine ultimo, oltre all’unione dei partner e la procreazione, è soprattutto la tutela della prole, in quanto parte più debole della società. Solidarietà e responsabilità verso l’altro, sia esso il partner o il figlio, resistono fino a quando sono supportate da ragioni di tipo emotivo, affettivo e sentimentale. Quando queste vengono meno, non c’è più ragione per continuare ad occuparsi e a preoccuparsi dell’altro. Del resto l’istituto giuridico del divorzio, con tutto quello che si è portato dietro a livello di costume e di comportamenti di massa, da oltre quarant’anni a questa parte non ha fatto altro che rafforzare questo convincimento, e cioè che quando all’interno della copia viene meno il sentimento, niente può più giustificare la sua unione. Se le cose continuano ad andare in questa direzione, come del resto sembra ai più giusto e visto poi che nessuno riesce a orientarle diversamente, dobbiamo ipotizzare l’evolversi di una società molto diversa da quella nella quale siamo cresciuti e nella quale ci siamo culturalmente nutriti. La società che sta venendo avanti sarà certamente molto più  libera e aperta di quella dalla quale veniamo. Ma questa esaltazione del singolo, dei suoi diritti, delle sue libertà e soprattutto della sua emotività ed affettività, non la renderà forse un tantino troppo effimera, vaga e fluttuante, per un difetto di responsabilità verso i legami più impegnativi, non più fondati dal punto di vista istituzionale? Bene o male per secoli il matrimonio ha garantito la responsabilità e la solidarietà verso la generazione e l’allevamento dei figli. Possiamo dire lo stesso per quell’individualismo emotivo, fluttuante, scollegato e fragile che sembra prendere il posto del matrimonio?
don Marco Belladelli

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