QUANDO L'AMORE NON BASTA ...
A proposito della polemica scoppiata contro il sindaco di Bologna che ha deciso la trascrizione dei matrimoni tra omosessuali contratti all'estero per l'opposizione del Prefetto che ha chiesto la revoca del provvedimento, mi pare opportuno riproporre quanto scrissi due anni e mezzo fa su questo tema su LA VOCE DI MANTOVA. Il caso ha suscitato un vespaio nel quale tutti vogliono dire la loro al di là di ogni legittimità. Il sindaco Merola era tutto gongolante perché l'intervento del prefetto avrebbe costretto gli interessati ad appellarsi ai giudici, i quali in ottemperanza della legislazione europea avrebbero sicuramente riconfermato il provvedimento. Anche se in materia di diritto di famiglia ogni stato dell'unione ha la più totale indipendenza. Viste le difficoltà che questa legge incontra in Parlamento, si vuole a tutti i costi introdurre anche in Italia il matrimonio tra persone dello stesso sesso dal basso, come un dato di fatto di cui prendere atto.
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Parto innanzitutto dalla
paradossalità della crisi che sta interessando il matrimonio. Se è vero che è diventato
uno degli obiettivi principali delle rivendicazioni degli omosessuali in tutto
il mondo, è altrettanto evidente dai numeri e dai dati fornitici dalle
statistiche che in Occidente gli eterosessuali se ne stanno allontanando sempre
di più, perché a conti fatti lo considerano molto più rischioso che
vantaggioso. Una contraddizione non del tutto casuale e che non va interpretata
nella logica del chiodo scaccia chiodo, nel senso che uno lascia e l’altro
prende. Mi pare invece che entrambi i fenomeni socio-culturali vadano nella
stessa direzione, cioè di mettere in discussione alla radice il significato
originale dell’istituto del matrimonio, tradizionalmente inteso. Infatti, sia
la scelta della convivenza tra gli eterosessuali, come anche come la richiesta
di potersi unire in matrimonio da parte degli omosessuali si fonda unicamente
sull’autosufficienza dell’amore, a scapito di ogni forma di rigidità
istituzionale, propria del matrimonio, il cui fine ultimo, oltre all’unione dei
partner e la procreazione, è soprattutto la tutela della prole, in quanto parte
più debole della società. Solidarietà e responsabilità verso l’altro, sia esso
il partner o il figlio, resistono fino a quando sono supportate da ragioni di
tipo emotivo, affettivo e sentimentale. Quando queste vengono meno, non c’è più
ragione per continuare ad occuparsi e a preoccuparsi dell’altro. Del resto
l’istituto giuridico del divorzio, con tutto quello che si è portato dietro a
livello di costume e di comportamenti di massa, da oltre quarant’anni a questa
parte non ha fatto altro che rafforzare questo convincimento, e cioè che quando
all’interno della copia viene meno il sentimento, niente può più giustificare
la sua unione. Se le cose continuano ad andare in questa direzione, come del
resto sembra ai più giusto e visto poi che nessuno riesce a orientarle
diversamente, dobbiamo ipotizzare l’evolversi di una società molto diversa da
quella nella quale siamo cresciuti e nella quale ci siamo culturalmente nutriti.
La società che sta venendo avanti sarà certamente molto più libera e aperta di quella dalla quale veniamo.
Ma questa esaltazione del singolo, dei suoi diritti, delle sue libertà e
soprattutto della sua emotività ed affettività, non la renderà forse un tantino
troppo effimera, vaga e fluttuante, per un difetto di responsabilità verso i
legami più impegnativi, non più fondati dal punto di vista istituzionale? Bene
o male per secoli il matrimonio ha garantito la responsabilità e la solidarietà
verso la generazione e l’allevamento dei figli. Possiamo dire lo stesso per
quell’individualismo emotivo, fluttuante, scollegato e fragile che sembra
prendere il posto del matrimonio?
don Marco Belladelli
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