venerdì 17 novembre 2017

Il Vangelo della salute del 19/11/2017

Georges de La Tour, Riscossione delle tasse, 1630-35, Galleria nazionale d'arte di Leopoli (UK).
XXXIII Domenica del Tempo Ordinario, “A”.
Sei stato fedele nel poco: prendi parte alla gioia del tuo padrone.
DAL VANGELO SECONDO MATTEO (25,14-30)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:
«Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca
nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.
Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”.
Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”». Parola del Signore.
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Dopo la parabola delle Dieci vergini, Gesù racconta la parabola dei talenti, proposta oggi dalla liturgia. Pure qui c’è qualcuno che ritarda. E’ colui che all’inizio è chiamato genericamente “un uomo” e quando ritorna dal viaggio “il padrone”, colui davanti al quale  alla fine dovremo presentarci tutti per la resa dei conti.
Prima di partire infatti aveva distribuito i suoi beni ai servi in parti differenti, a chi cinque, a chi tre, a chi un solo talento, secondo il criterio della capacità di ciascuno. Il talento era una unità di misura del peso, divenuto nel corso del tempo una moneta. Il suo valore equivaleva a circa 6.000 denari, quando un denaro era la paga giornaliera di un operaio (cfr. Mt  20,2), corrispondente oggi a circa 400.000 euro. Una bella somma, anche per colui a cui è toccato meno, tenuto conto che si tratta di una elargizione gratuita e di cui ciascuno è libero di disporre come meglio crede. La lontananza del padrone sta infatti ad indicare che Dio non ci sta col fiato sul collo, ma che l’uomo ha una sua libertà d’azione, soprattutto per quel che riguarda le realtà temporali. Quando meno te l’aspetti, il padrone torna e chiede conto ai servi di come hanno utilizzato i beni ricevuti, per renderli partecipi di gioie ancora più grandi. I primi due hanno raddoppiato il capitale. “Bene, servo buono e fedele, - dice loro il padrone - sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Il terzo invece, quello con un solo talento, dopo aver accusato il padrone di essere una persona dura, avida e di incutere paura nei servi, riferisce candidamente di avere sotterrato il talento ricevuto e di essere pronto a restituirglielo, senza fargli torto. La reazione del padrone è indignata: “Servo malvagio e pigro … ” e la condanna ancor più terribile: “il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. Fuori dalla metafora, il padrone è Gesù, il Dio fatto uomo e Signore dell’universo, e noi siamo i servi. I talenti sono la vita e i doni di grazia che tutti abbiamo ricevuto, un capitale da sviluppare e far fruttare nell’orizzonte dei significati e dei valori del regno di Dio, e non da lasciare inutilizzato o da sperperare capricciosamente a proprio piacere. La parabola evoca chiaramente la realtà del giudizio ultimo, a cui tutti saremo sottoposti dopo la nostra morte, quando apparirà il vero valore della nostra vita terrena, e cioè se abbiamo in qualche modo favorito e contribuito allo sviluppo e alla crescita del regno di Dio: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”; oppure se per varie ragioni ci siamo sottratti a questo progetto di vita divino: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”. Non ci sarà spazio per giustificazioni, intercessioni o mediazioni varie, perché sarà chiaro a tutti quello che è stato o non è stato, senza alcuna ambiguità. Infatti nel momento della morte ciascuno di noi acquisisce una coscienza cristallina capace di una consapevolezza altrettanto certa riguardo al bene e al male di cui ciascuno è responsabile. Non sarà però un fatto puramente legale, ma sarà l’incontro con Gesù Signore, che fraternamente ci chiederà: “Parlami di te, Sorella/Fratello”. Come ha detto Papa Benedetto XVI nell’enciclica Spe salvi : “Il suo sguardo, il tocco del suo cuore ci risana mediante una trasformazione certamente dolorosa «come attraverso il fuoco». È, tuttavia, un dolore beato, in cui il potere santo del suo amore ci penetra come fiamma, consentendoci alla fine di essere totalmente noi stessi e con ciò totalmente di Dio. Così si rende evidente anche la compenetrazione di giustizia e grazia: il nostro modo di vivere non è irrilevante, ma la nostra sporcizia non ci macchia eternamente, se almeno siamo rimasti protesi verso Cristo, verso la verità e verso l'amore.” (n.47). Nella parabola sono presenti altri temi, come per esempio quello della condanna eterna, insieme a quello della libertà dell’uomo. E’ la sesta volta che Matteo parla delle tenebre, una solitudine a cui non c’è rimedio e una sofferenza inconsolabile, come lascia intendere lo “stridore di denti”, proprio di chi è dimenticato da Dio. Nel servo inutile infatti riconosciamo coloro che non fanno nulla per il regno dei cieli, hanno un’idea sbagliata di Dio, tanto da averne paura e accusarlo di essere insensibile e ingiusto, verso di loro e verso tanti altri uomini e donne.
A proposito poi della libertà, Martin Buber diceva: “Io amo la libertà, ma non le credo! … Essere costretti dal destino, dalla natura, dagli uomini: l’opposto non sarà essere liberi da essi, ma essere in comunione e in coalizione con essi. … Vivere sulla base della libertà è una responsabilità personale, altrimenti non è che una farsa patetica”. Al momento della resa dei conti, la differenza tra il “servo buono e fedele” e il servo “malvagio e pigro” sarà proprio nel segno della responsabilità tra chi avrà agito mettendo a frutto i doni ricevuti e chi invece non avrà colto l’opportunità dei doni ricevuti, vivendo in modo inconcludente. Per questo “a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha”. Buona Domenica! 
don Marco Belladelli.

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