Lorenzo Lotto, Gesù, la vite e i tralci, 1524, Trescore (BG). |
V
Domenica di Pasqua “B”
Chi
rimane in me ed io in lui fa molto frutto.
Dal Vangelo secondo Giovanni (15,
1-8)
In quel tempo, Gesù disse ai
suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni
tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto,
lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che
vi ho annunciato.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli». Parola del Signore.
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Oggi
Gesù usa parole metaforiche molto significative per rappresentare il rapporto esistente
tra lui ed i discepoli, quello della vite e dei tralci. Siamo nel contesto
dell’ultima cena, uno dei momenti più solenni di tutta la vita di Gesù, ed egli
si paragona alla vite mentre i discepoli sono i tralci. Come la fecondità del
tralcio dipende dal suo rimanere attaccato alla vite, la stessa cosa vale anche
per la vita del discepolo: “Chi rimane in
me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla”.
La fecondità della vita cristiana dipende quindi dal rapporto che ci unisce a
Gesù. In alternativa c’è il giudizio di condanna e di perdizione, rappresentato
con l’immagine del tralcio secco, gettato nel fuoco e bruciato.
All’inizio
e alla fine del nostro brano di oggi si fa riferimento alla persona del Padre, paragonato
al vignaiolo, cioè all’agricoltore, che si prende cura della vigna. E’ Lui che
pota il tralcio perché porti più frutto e sia ancor più fecondo, mentre quello
infruttuoso viene tagliato e gettato via. La gloria e il vanto del Padre
consistono nell’abbondanza dei frutti prodotti dalla vita dei discepoli.
Viene
spontaneo chiederci: siamo un tralcio che porta frutto o invece siamo un
tralcio secco? E soprattutto: quanto è vitale il nostro rapporto con Cristo?
Vengono
in mente le ormai famose parole con cui l’allora cardinal Ratzinger, prima di
essere eletto Papa, paragonava la vita dei cristiani di oggi ad una barca
sballottata dalle turbolenze del pensiero moderno, dominato dalla dittatura del
relativismo, dove unico criterio di giudizio della realtà è il proprio “io”.
Per verificare la supponenza del nostro narcisismo non c’è bisogno di ricorre a
sofisticate analisi psico- socio- filosofiche, è sufficiente una minima
capacità introspettiva per prendere coscienza di quanto il nostro spirito sia
intasato da un individualismo soffocante.
Molto
spesso nel dialogo spirituale della confessione o della direzione spirituale
capita di incontrare persone che sono sinceramente alla ricerca di Dio, ma
incapaci di raggiungerlo, per quel circolo vizioso che li porta continuamente,
nel bene e nel male, a ritenere se stessi la misura del mondo. La realtà della
Pasqua, cioè la risurrezione di Cristo con la sua prospettiva del “Rimanete
in me e io in voi”, è la possibilità
concreta per trascendere il nostro “io” e portare frutto secondo il
comandamento dell’ “amore più grande”
(cfr. Gv 15,13). Accogliendo in noi la grazia di Dio attraverso la preghiera
personale, l’ascolto della Parola, la vita sacramentale e comunione fraterna diventiamo
capaci di quelle opere che indicano la presenza del Regno di Dio in mezzo a
noi: “Beati i poveri in spirito, perché
di essi è il regno dei cieli. Beati gli afflitti, perché saranno consolati.
Beati i miti, perché erediteranno la terra …”. E se quando ci raccogliamo in preghiera il
nostro animo è segnato dalla sofferenza o provato dalla conflittualità della
vita, ricordiamoci di iniziare sempre e comunque il nostro incontro con Dio con
la lode della sua grandezza, la benedizione per le opere meravigliose da lui
compiute, il ringraziamento per tutti i doni ricevuti, un atteggiamento che ci
dispone ad entrare immediatamente in sintonia con Gesù. Allora, la promessa del
“Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto” diventerà realtà.
Buona Domenica!
DON MARCO BELLADELLI.
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