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La Beata Kateri Tekakwitha |
IL GIGLIO DEGLI
IROCHESI
In un recente pellegrinaggio ad un famoso Santuario
mariano, meta di milioni di persone da tutto il mondo, mentre con alcuni gli
amici seguivo il cammino della Via Crucis,
davanti a me quattro pellerossa canadesi, probabilmente una famiglia,
riconoscibili dai loro costumi tradizionali, meditavano pure loro la sofferenza
di Cristo con preghiere e canti nella loro lingua nativa. Erano venuti a
ringraziare il Signore per la prossima canonizzazione della loro beata Kateri
Tekakwitha, la prima nativa nordamericana ad essere innalzata alla gloria
degli
altari. Beatificata da Giovanni Paolo II il 22 Giugno 1980, sarà canonizzata da
Benedetto XVI il prossimo 28 Ottobre 2012.
Tekakwitha, nome che significa Colei che mette le cose a posto, oppure
secondo altri Colei che cammina con le
mani avanti, nasce nel 1656 ad Osserneon, (oggi
Auriesville, nello Stato di New York), da madre Algonquina, cattolica, e da
padre Mohawk, di fede tradizionale, capo del villaggio omonimo. Rimasta orfana
a quattro anni per una epidemia di vaiolo, fu allevata dagli zii. La piccola Tekakwitha
sopravvisse ai familiari, ma rimase molto fragile nella salute. Indebolita
soprattutto nella vista, presentava evidenti cicatrici sul volto. Laboriosa e
riservata, amava cantare i vecchi inni religiosi che aveva ascoltato dalla
madre. Sentiva di essere alla ricerca di qualcosa che ancora non conosceva, ma
che percepiva vicino, soprattutto quando era immersa nella bellezza della
natura, raccolta in silenziosa meditazione. Non amava le tipiche vanità
femminili e non pensava al matrimonio. Quando gli zii con l'inganno cercarono
di darla in sposa, Tekakwitha tentò la fuga. L'immotivato
rifiuto alle nozze con il giovane guerriero a cui era stata promessa a soli
otto anni attirò su di lei false accuse di intrighi amorosi, aspre e dolorose
critiche e l'assegnazione di lavori pesanti e gravosi. Quando nel 1670 alcuni
missionari gesuiti avvicinarono queste tribù per annunciare loro il Vangelo,
Tekakwitha sentì di aver trovato ciò che da tempo cercava. Sfidando le furie
dello zio, che provava grande ostilità nei confronti dei “vestenera”, così erano chiamati i Padri gesuiti dagli indiani,
volle a tutti i costi ricevere il battesimo, che le fu amministrato il 5 Aprile
1676, aggiungendo il nome di Kateri. Da quel momento in poi la sua vita nel
villaggio divenne un vero inferno, costellata da prove e sofferenze morali e
fisiche di ogni tipo, fino a quando, aiutata dai missionari, riuscì a fuggire
per stabilirsi definitivamente nella missione di san Francesco Saverio di
Sault St. Luis. Ritrovata la pace e la
serenità, Kateri visse esemplarmente la sua vita cristiana. Nel Natale del 1677
ricevette la prima
Comunione e il 25 Marzo del 1679 pronunciò i suoi voti
privati di totale consacrazione al Signore. Dedicò gli ultimi anni della sua
vita all'assistenza degli anziani e dei malati, insegnando ai bambini canti e
preghiere. Ogni attività era sempre accompagnata da severe penitenze. La sua
salute già cagionevole non la sostenne per molto tempo. Morì il 17 aprile 1680 a soli ventiquattro
anni. Le sue ultime parole furono: "Jesos Konoronkwa" cioè "Gesù
ti amo", rivelando così a chi l'assisteva il segreto del suo
cuore. Pochi minuti dopo la morte scomparvero dal suo viso le cicatrici,
conseguenza del vaiolo che l’aveva colpita ancora bambina, e il suo volto
brillò di una luce soprannaturale. Sorprende come l’anima di questa giovane
pellerossa analfabeta, vissuta più di trecento anni fa nelle sperdute foreste
del Nord America, sia stata attratta dal Signore Gesù fino a risplendere per la
sua purezza di cuore davanti a tutto il mondo. Ancora più sorprendente è la
conservazione della sua memoria nella tradizione di quei popoli,
ininterrottamente per tutto questo tempo, in attesa della sua elevazione alla
gloria degli altari. Lo testimonia la lettera di un capo tribù indiano,
conservata negli archivi vaticani, che nel marzo del 1885 chiedeva al Papa: “Ti supplichiamo di dire: Voi indiani, figli
miei, prendete Caterina come oggetto della vostra venerazione nelle chiese,
perché lei è santa ed è in cielo”. Tekakawitha è ora un segno di speranza per
tutti noi, che viviamo in questi tempi di tenebra e di disperazione.
don Marco Belladelli.
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