sabato 2 novembre 2019

Il Vangelo della salute del 02/11/2019

La morte e il morire
Commemorazione di tutti i Defunti
Chi crede nel Figlio ha la vita eterna; 
io lo risusciterò nell'ultimo giorno.
Dal vangelo secondo Giovanni (6,37-40).
In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me; 
colui che viene a me, non lo respingerò, perché sono disceso dal cielo non per fare 
la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che 
mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell'ultimo giorno. 
Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui 
abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell'ultimo giorno». 
Parola del Signore.
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La liturgia del 2 Novembre prevede tre schemi di letture, perché secondo tradizione oggi ogni 
sacerdote può celebrare tre S. Messe. Fanno parte del più ampio lezionario del rituale delle 
esequie. I tre brani evangelici sono uno di Giovanni, quello che ho riportato qui sopra, e due 
di Matteo, il testo delle Beatitudini, che abbiamo ascoltato ieri nella festa di Ognissanti, e 
la parabola del giudizio finale al cap. 25. 
La “nera signora” che tanto ci spaventa, per San Francesco diventa “nostra sorella morte corporale”. 
Nella nostra cultura la morte rappresenta una realtà drammatica, assolutamente inconciliabile 
con il sentire comune, che considera come unico ideale da perseguire quello di una vita 
più lunga possibile e sempre prestante. A questo si aggiunga la quasi totale impreparazione 
dei pastori davanti a questa realtà, molto spesso impacciati e timidi nell’annuncio della Speranza 
cristiana e molto più propensi verso una consolazione umana, quando non si rivelano del tutto 
indifferenti al dolore di chi hanno davanti. 
Durante un funerale il celebrante iniziò l’omelia dicendo: “La Chiesa non celebra la morte!”, 
quando davanti a sé aveva la bara di una giovane donna, morta di cancro, e lì accanto il marito e 
i figli, poco più che adolescenti, affranti dal dolore. In un’altra occasione, il defunto era un giovane 
di neanche trent’anni, il presidente, portandosi direttamente davanti ai familiari, si è rivolto a loro 
invitandoli ad immaginare di trovarsi in montagna, davanti ad un bellissimo tramonto, …  
Molto più recentemente invece, nel tentativo di colpire l’assemblea, chi teneva l’omelia si è lanciato 
in una disquisizione filosofica-esistenziale, più adatta per una lectio magistralis, che per un’omelia esequiale … 
Al di là dell’opportunità o meno di certi espedienti retorici, sono soltanto alcuni esempi del disagio 
dei pastori di fronte alla morte. Molto spesso chi partecipa ad un funerale è costretto 
ad ascoltare maldestre trovate, nel tentativo di esorcizzare la paura della morte. 
Con la morte non si scherza e non si può improvvisare. E allora ci si rifugia nei soliti luoghi 
comuni, come per esempio il riproporre sempre lo stesso testo del libro della Sapienza: 
“Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, nessun tormento le toccherà … ” (3,1ss). 
Era una Domenica mattina d’inizio primavera, quando il sole e l’aria frizzante di Roma sanno 
regalarti una giornata così tersa, che tutta la realtà ne sembra contagiata. Perfino nell’anima 
ti senti più luminoso e determinato, come se per incanto si fossero dissolti per sempre dubbi, 
incertezze e tutte quelle indeterminatezze che fanno apparire la vita sfuocata, confusa e pure caotica. 
Suona il telefono. Una chiamata. Scendo in reparto, dove incontro una signora matura, 
che assiste la mamma molto anziana, in coma, ricoverata nella notte. La diagnosi parla di emorragia 
cerebrale senza molte speranze di recupero. La saluto e mi presento. Mi parla della madre, 
della sua religiosità e mi chiede di celebrare per lei i Sacramenti. La invito ad unirsi a me 
nella preghiera. Accetta, con malcelato disagio. Al termine, commossa si avvicina e mi ringrazia, 
dicendo: “Avevo tanta paura di questo momento! Lei mi è stato molto d’aiuto. Nessuno c’insegna 
più a vivere la morte dei nostri cari e la nostra morte”. 
Alla morte bisogna prepararsi. E c’è tutta una vita per farlo. Non è necessario tenere un teschio 
sul comodino, o frequentare quotidianamente il cimitero. E’ sufficiente non fuggirla tutte le volte 
che incrocia la nostra strada, più o meno direttamente. 
La perdita delle persone care crea un vuoto incolmabile che non di rado rimane tale per tutta la vita. 
Penso per esempio all’esperienza innaturale di genitori che perdono un figlio, oppure viceversa, 
un figlio che rimane orfano in tenera età. Ma nella morte è difficile fare delle graduatorie. Anche 
la perdita di una persona molto anziana, che dovrebbe sembrare la cosa più naturale del mondo, 
può trasformare la vita in una tragedia. 
Il dramma della morte ci coinvolge oltre ogni speranza, fin quasi a trascinarci dentro l'abisso 
della perdizione. L’incontro-scontro con la morte mette in discussione tutta la nostra vita tutta. 
Diventa un banco di prova per tutto ciò in cui crediamo, fede compresa. Da qui la domanda: 
perché  tutto questo? che interpella inevitabilmente la dimensione religiosa della nostra vita, 
con l’insorgere del risentimento e della ribellione nei confronti di Dio, in quanto primo e ultimo 
responsabile impassibile di questo evento. 
Del resto questa drammaticità angosciante non è altro che l’altra faccia della medaglia del nostro 
peccato, la sua conseguenza. Lo dice chiaramente San Paolo nella lettera ai Romani “a causa di 
un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte” (5,12). 
Nel dramma della morte noi sperimentiamo quello che Dio ha provato e prova davanti al nostro 
peccato. Ecco perché Dio si è immerso dentro la morte, attraverso la croce di suo Figlio, Gesù. 
Con nostra grande sorpresa, dentro questo abisso che sembra annullarci, incontreremo Colui che 
mai avremmo pensato di trovare in quel “non-luogo”, il nostro Creatore e Redentore. 
Il paradosso per eccellenza della fede cristiana. Superato il risentimento per la perdita dei nostri 
cari, sarà importante fermarsi davanti al crocifisso e chiedersi perché Dio ha voluto morire in croce per salvarci?
Per la nostra società, impregnata e inebriata dal falso mito dell’eterna giovinezza, in sostituzione 
della Speranza eterna, la morte e il morire rimangono sempre e comunque un tragico dramma 
da rimuovere e allontanare il più possibile. Paradossalmente anche la crescente domanda di eutanasia 
è una conseguenza di questo modo di pensare. Nel tentativo di risolvere questo dramma, 
assolutamente inconciliabile con il resto della vita, si è fatta strada una concezione della morte 
come evento naturale, in sintonia con un certo diffuso naturalismo neopagano, secondo cui tutto 
ciò che è "naturale" è buono. Come se la vita di un uomo avesse lo stesso valore di una foglia 
che ingiallisce e cade per terra. Un tentativo mal riuscito di riconciliarsi con la morte e di renderla 
più accettabile, o comunque di soffrirla di meno. 
Gesù parla ripetutamente ai discepoli della propria morte, preparando se stesso e loro a questo 
evento. A un certo punto della sua vita decide di affrontarla senza tentennamenti, allo stesso modo 
come si affrontano le scelte, le decisioni e tutti gli altri avvenimenti importanti della propria esistenza: 
" Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma 
decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme" (Lc 9,5 1). Come per Gesù, anche per noi 
cristiani la morte è un evento storico. Rientra nel numero di tutti quegli eventi attraverso i quali 
ciascuno di noi, di volta in volta, si auto definisce. Nella morte ciascuno determina se stesso in modo 
definitivo, come in nessun altro evento della propria vita. Soprattutto nel proprio rapporto e incontro 
con Dio. Ecco perché va vissuta il più possibile nella piena consapevolezza, preparandosi con 
responsabilità, come il momento più importante e decisivo della nostra stessa vita. 
Forti di quella Speranza che non delude (Rm 5,5), affronteremo la “nera signora” senza paura. 
Essa diventerà “nostra sorella”, perché attraverso di essa superiamo definitivamente la precarietà 
della nostra condizione umana, per entrare pienamente in possesso della nostra dimensione 
divina ed eterna.  
don Marco Belladelli

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