Hendrick van Balen, Santissima Trinità, anni 20 del XVII sec., Sint-Jacobskerk, Anversa |
Solennità della SS. Trinità “A”
Dio
ha mandato il Figlio suo perché il mondo si salvi per mezzo di lui.
DAL VANGELO SECONDO GIOVANNI,
( 3, 16-18).
In
quel tempo, disse Gesù a Nicodèmo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il
Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la
vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.
Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio». Parola del Signore.
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Dopo aver celebrato gli eventi fondamentali della missione terrena di
Gesù, la sua incarnazione, morte e risurrezione e il dono dello Spirito Santo,
la Chiesa oggi contempla il mistero principale della nostra fede: l’unità e la
trinità di Dio. Mistero naturalmente non nel senso di realtà oscura e astrusa,
ma a noi superiore, che ci coinvolge fino ad esserne “compresi”, contrariamente
a quanto avviene per ogni altro processo conoscitivo, dove qualsiasi altro
oggetto è da noi “compreso”. Nel percorso di conoscenza allora è la fede a
guidare la ragione, per aiutarla a riflettere sull’esperienza dell’incontro,
del rapporto e della comunione con Dio, e quindi sul suo mistero. Per non
smarrirci in astruse elucubrazioni, partiamo dal brano evangelico che oggi la
liturgia ci propone. Siamo al terzo capitolo di Giovanni, dove nella prima parte si racconta l’incontro notturno di Gesù con Nicodemo, un fariseo membro del Sinedrio, il quale manifesta al Maestro la sua stima personale e le perplessità sul suo messaggio. Gesù risponde che tutto ciò che lo riguarda viene dall’alto, viene dallo Spirito ed è opera di Dio (Gv3,3.5). Lo può comprendere soltanto chi è disposto a rinascere “dall’alto” (Gv 3,7). Segue l’esempio di Mosè che innalzò il serpente nel deserto, figura della crocifissione di Gesù, per mezzo della quale chi crede avrà la vita eterna.
Arriviamo così al nostro brano composto di tre affermazioni. Nella prima Gesù rivela il piano di salvezza di Dio, che “ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito” (Gv 3,16) perché chi crede non vada perduto, ma abbia la vita eterna. La seconda affermazione riformula lo stesso concetto al negativo, secondo una figura retorica tipicamente semitica detta del parallelismo sinonimico. Nella terza affermazione si traggono le conseguenze di questo modo di essere e di agire di Dio, e cioè: condanna e salvezza non sono conseguenze della discrezionalità divina, ma dipendono dal rifiuto o dall’accoglienza dell’ “unigenito Figlio di Dio”.
La nostra attenzione si concentra sulla rivelazione di Dio come amore infinito, fino a dare il suo Figlio unigenito: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”. Il Dio che “ha tanto amato il mondo” si è manifestato a noi nel ‘Figlio unigenito’ che per amore del Padre si è reso disponibile a farsi uomo fino alla morte di croce (cfr Fil 2,6-8), perché chi crede abbia la vita eterna. L’atto di amore del Padre che offre “il Figlio unigenito” fa riferimento al “bisogna che il Figlio dell'uomo sia innalzato”, sull’esempio di Mosè che aveva innalzato il serpente nel deserto, richiamato poco sopra. Questo significa che in Gesù crocifisso abbiamo la rivelazione di Dio che è ‘Amore’.
Amore traduce il termine greco “agape”, il cui contenuto non si risolve nell’affetto o nell’amicizia e tantomeno nell’eros. L’agape consiste nel dono totale di sé all’altro, senza nessuna contropartita, di nessun genere. Come ha detto bene Benedetto XVI nella sua enciclica Deus caritas est, l’agape è amore che “cerca il bene dell'amato: diventa rinuncia, è pronto al sacrificio, anzi lo cerca.”(n. 6).
Siamo davanti ad una realtà umanamente inimmaginabile ed assolutamente sorprendente in cui si sostanzia e si riassume l’essenza stessa di Dio, il mistero a cui ho fatto riferimento all’inizio di questa mia riflessione a proposito dell’unità della natura e della trinità delle persone. E’ ancora Benedetto XVI a ricordarci quanto scriveva S. Agostino: “Se vedi la carità, vedi la Trinità”.
Nel nostro brano non c’è nessun riferimento allo Spirito Santo, evocato invece nella prima parte del dialogo con Nicodemo, là dove Gesù ricorda che è come il vento, del quale senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va (cfr Gv 3,5-8). Lo Spirito divino, nella sua libertà simile a quella del vento, è colui che ha reso possibile la realizzazione del disegno salvifico di Dio a favore di tutta l’umanità.
Il mistero della Santissima Trinità è la novità cristiana che ha cambiato la storia del mondo. La vita cristiana è sostanzialmente partecipazione al mistero del Dio-Amore. La Chiesa e soprattutto il sacramento dell’Eucaristia sono i luoghi nei quali fare l’esperienza di questo mistero, perché ogni cristiano faccia della propria vita un dono d’amore nel quale si compie per grazia il disegno salvifico di Dio. Questo è il senso della vita e la via per la sua realizzazione, o per dirla in modo psicologico per raggiungere la felicità.
Oggi viviamo in un mondo in cui Dio è di fatto assente, in tutto o in parte, dalla coscienza e dall’esistenza umana. Chi appartiene al mondo fa di tutto per impedire l’esperienza del mistero di Dio. Questo è il nostro grande problema di oggi: o riusciamo ancora a rendere accessibile a chiunque questo mistero, oppure non ci resta che la condanna: “chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio”. Buona festa della Ss. Trinità!
don Marco Belladelli.
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