Divorzio: quando il rimedio è peggio del male
La notizia viene dall’avanzatissima Inghilterra, per molti ritenuta un modello sociale a cui ispirarsi. Pare che il governo del conservatore David Cameron stia pensando ad una tassa sul divorzio, con un duplice obiettivo: reperire fondi per il mantenimento e l’assistenza dei figli dei divorziati, un capitolo di spesa particolarmente oneroso per le casse dell’erario; scoraggiare la troppa facilità con cui oggi si rompono i matrimoni. Alle ultime elezioni politiche del 2010, uno dei punti ura della broken society (la società rotta) inglese, il cui punto debole è stato individuato proprio nella famiglia. Prima ancora che economica, si tratta di una fragilità morale e a pagarne le conseguenze sono soprattutto le giovani generazioni. In Inghilterra il 15% dei bambini cresce senza un padre, il 70% della criminalità giovanile ha alle spalle situazioni familiari problematiche. A questo si devono aggiungere i 20 miliardi di sterline necessari ogni anno per far fronte ai problemi sociali derivanti dalle separazioni. Pare che un provvedimento analogo sia già stato introdotto in Norvegia con ottimi risultati.
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E da noi le cose come vanno, a quarant’anni esatti dall’introduzione del divorzio? Era il 1 Dicembre del 1970, quando veniva approvata la legge Fortuna /Balslini, dal nome dei due parlamentari promotori. Un anniversario stranamente passato quasi completamente sotto silenzio, se si pensa alle polemiche infuocate di allora, soprattutto quelle relative al tentativo di abrogazione referendaria di quella legge. Le statistiche aggiornate al 2008 parlano di un aumento dei divorzi: 54.000 rispetto ai 27.000 del ‘95, e delle separazioni salite nello stesso periodo da 52.000 a 94.000. In percentuale il tasso di divorzio è cresciuto da 79 a 179 x mille matrimoni, e le separazioni da 158 a 285. Oggi il divorzio è ormai considerato un’acquisizione giuridica e sociale fuori discussione. Esso ha rappresentato un vero e proprio spartiacque culturale, che ha messo in crisi la centralità umana e sociale della famiglia, a favore del singolo e delle sue libertà individuali, con le conseguenze che tutti conosciamo. Del resto, quando due persone non vanno d’accordo, la cosa più logica è: ciascuno per la propria strada. Se poi all’incompatibilità temperamentale si aggiungono abusi, violenze e figli costretti a crescere in mezzo a tensioni e conflitti, la separazione è fuori discussione.
Qualche tempo fa, in una sera di mezza estate, mentre passeggiavo su un incantevole lungomare calabrese, l’amico che mi accompagnava, da molto tempo divorziato e da altrettanto più o meno felicemente convivente, mi confidava che quando nel ’74 si votò per il referendum abrogativo del divorzio, aveva deciso per il suo mantenimento, convinto che fosse la vera soluzione alle difficoltà matrimoniali. Riflettendo a posteriori sulla sua esperienza personale e su quella di molti altri, si era reso conto che invece alla fine il danno era peggiore del rimedio. Il post-separazione non è mai come lo si era immaginato. Le nuove unione si rivelano spesso più problematiche del primo matrimonio. I primi a risentirne sono i figli, spesso sballottati a destra e sinistra come pacchi. A questo si aggiunga, come ha evidenziato soprattutto la recente crisi economica, che separazioni e divorzi hanno aumentato il numero dei nuovi poveri, cioè di coloro che non ce la fanno ad arrivare a fine mese. Ma il vero problema, che forse non abbiamo ancora messo a fuoco in tutta la sua gravità, come sta facendo il governo inglese, è la fragilità morale dei singoli, incapaci di assumersi la benché minima responsabilità. Era il 1964, tempi non sospetti, quando Piero Ottone, non certo un bigotto, sul ‘Corriere della Sera’ scriveva: “l’istituto del divorzio, anche se ha il vantaggio di sanare di tanto in tanto le situazioni insostenibili, ha il gravissimo difetto di indebolire la fibra morale dei cittadini. Esso fa di loro, uomini e donne, persone che fuggono davanti alle difficoltà, e non persone che le affrontano con coraggio. Il danno si ripercuote su tutta la vita sociale. L’indebolimento, inoltre, si ripete a ogni successivo matrimonio di chi si sia già divorziato. L’esperienza dei paesi col divorzio conferma quanto sa benissimo ogni studioso di psicologia. Le difficoltà del primo matrimonio risorgono quasi immutate nel secondo, perché la loro causa fondamentale non risiede nel partner, cioè nell’altro coniuge, bensì in noi stessi.”. C’è di che riflettere.
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