domenica 3 novembre 2013

Il Vangelo della salute del 02/11/2013

Cimitero di Cadè (Roncoferraro - MN)
2 Novembre. Commemorazione di tutti i Defunti.
Chi crede nel Figlio ha la vita eterna
e io lo risusciterò nell'ultimo giorno.
 Dal vangelo secondo Giovanni (6,37-40).
In quel tempo, Gesù disse alla folla:
«Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.
E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno.
Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno».
Parola del Signore.
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Era una Domenica mattina d’inizio primavera, quando il sole e l’aria frizzante di Roma sanno regalarti una giornata così tersa, che tutta la realtà ne sembra contagiata. Perfino nell’anima ti senti più luminoso e definito, come se per incanto si fossero dissolti per sempre dubbi, incertezze e tutte quelle indeterminatezze che fanno apparire la vita sfuocata, confusa. Suona il telefono. Una chiamata. Scendo in reparto, dove incontro una signora matura, che assiste la mamma molto anziana, in coma, ricoverata nella notte. La diagnosi parla di emorragia cerebrale senza molte speranze di recupero. La saluto e mi presento. Mi parla della madre, della sua religiosità e mi chiede di celebrare per lei i Sacramenti. La invito ad unirsi a me nella preghiera. Accetta, con malcelato disagio. Al termine, commossa si avvicina e mi ringrazia, dicendo: “Avevo tanta paura di questo momento! Lei mi è stato molto d’aiuto. Nessuno c’insegna più a vivere la morte dei nostri cari e la nostra morte”.
Alla morte bisogna prepararsi. E c’è tutta una vita per farlo. Non è necessario tenere un teschio sul comodino, o frequentare quotidianamente il cimitero. E’ sufficiente non fuggirla tutte le volte che incrocia la nostra strada, più o meno direttamente. Altrimenti succede quello che ho sentito ad alcuni funerali a cui ho partecipato. Il celebrante ha iniziato l’omelia dicendo: “La Chiesa non celebra la morte!”, quando davanti a sé aveva la bara di una giovane donna morta di cancro e lì accanto il marito e i figli, poco più che adolescenti, affranti dal dolore. Un’altra volta il defunto era un giovane di neanche trent’anni e il prete, sceso dal presbiterio fin davanti al banco dei familiari per esprimere vicinanza, ha poi di fatto subito contraddetto questo suo atteggiamento invitandoli ad immaginare di trovarsi in montagna, davanti ad un bellissimo tramonto, … 
Al di là della retorica d’occasione più o meno opportuna, certe affermazioni rivelano inequivocabilmente il disagio di trovarsi di fronte alla morte.  In entrambi i casi si è trattato di un tentativo maldestro di esorcizzare la paura della morte che avevano quei preti, fuggendo da essa. Non è poi così raro incontrare sacerdoti, anche  alti prelati, a disagio davanti a questo evento. Con la morte non si scherza e non si può improvvisare.
La perdita delle persone care crea un vuoto incolmabile che non di rado rimane tale per tutta la vita. Penso per esempio all’esperienza innaturale di genitori che perdono un figlio, oppure viceversa, un figlio che rimane orfano in tenera età. Ma nella morte è difficile fare delle graduatorie. Anche la perdita di un ultraottuagenario può trasformare tutta la vita in una tragedia.
Il dramma della morte ci coinvolge oltre ogni speranza, fin quasi a trascinarci dentro l'abisso della perdizione. L’incontro-scontro con la morte mette in discussione tutta la nostra vita tutta. Diventa un banco di prova per tutto ciò in cui crediamo, fede compresa. Da qui la domanda: perché  tutto questo? che interpella inevitabilmente la dimensione religiosa della nostra vita, con l’insorgere del risentimento e della ribellione nei confronti di Dio, in quanto primo e ultimo responsabile impassibile di questo evento.
Del resto questa drammaticità angosciante non è altro che l’altra faccia della medaglia del nostro peccato, la sua conseguenza. Lo dice chiaramente San Paolo nella lettera ai Romani “a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte” (5,12). Nel dramma della morte noi sperimentiamo quello che Dio ha provato e prova davanti al nostro peccato. Ecco perché Dio si è immerso dentro la morte, attraverso la croce di suo Figlio, Gesù. Con nostra grande sorpresa, dentro questo abisso che sembra annullarci, incontreremo Colui che mai avremmo pensato di trovare in quel “non-luogo”, il nostro Creatore e Redentore. Il paradosso per eccellenza della fede cristiana. Superato il risentimento per la perdita dei nostri cari, sarà importante fermarsi davanti a crocefisso e chiedersi perché Dio ha voluto morire in croce per salvarci?
Per la nostra società, impregnata e inebriata dal falso mito dell’eterna giovinezza, in sostituzione della Speranza eterna, la morte e il morire rimangono sempre e comunque un tragico dramma da rimuovere e allontanare il più possibile. Paradossalmente anche la crescente domanda di eutanasia è una conseguenza di questo modo di pensare. Nel tentativo di risolvere questo dramma, assolutamente inconciliabile con il resto della vita, si è fatta strada una concezione della morte come evento naturale, in sintonia con un certo diffuso naturalismo neopagano, secondo cui tutto ciò che è "natu­rale" è buono. Come se la vita di un uomo avesse lo stesso valore di una foglia che ingiallisce e cade per terra. Un tentativo poco riuscito di riconciliarsi con la morte e di renderla più accettabile, o co­munque di soffrirla di meno.  
Gesù parla ripetutamente ai discepoli della propria morte, preparando se stesso e loro a questo evento. A un certo punto della sua vita decide di affrontarla senza tentennamenti, allo stesso modo come si affrontano le scelte, le decisioni e tutti gli altri avvenimenti im­portanti della propria esistenza: " Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme" (Lc 9,5 1). Come per Gesù, per noi cristiani la morte è un evento storico. Rientra nel numero di tutti quegli eventi attraver­so i quali ciascuno di noi, di volta in volta, si auto definisce. Nella morte ciascuno determina se stesso in modo definitivo, come in nessun altro evento della propria vita. Soprattutto nel proprio rapporto e incontro con Dio. Ecco perché va vissuta il più possibile nella piena consapevolez­za, preparandosi con responsabilità, come il momento più importante e deci­sivo della nostra stessa vita.
Forti di quella Speranza che non delude (Rm 5,5), affronteremo la “nera signora” senza paura. Essa diventerà, come la chiama San Francesco nel Cantico delle creature, la “nostra sorella morte corporale”, perché soltanto attraverso di essa superiamo definitivamente la precarietà della nostra condizione umana ed entriamo in possesso totalmente della nostra dimensione divina ed eterna.  
don Marco Belladelli

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