sabato 29 gennaio 2011

INEDITI DI MONS. POMPEO PIVA

Ultima S. Messa celebrata da don Pompeo a Casaloldo, in occasione della festa di S. Antonio abate, il 18/01/2009.
CRISTIANI ED EMERGENZA MORALE
Di fronte all'emergenza morale dei nostri tempi, a tutti i livelli della società, sopratutto in Italia, vi propongo la lettura di un inedito di Mons. Pompeo Piva, che i frequentatori del blog ormai conoscono, e di cui Domenica prossima, 6 Febbraio, celebrerò il II anniversario della morte insieme alla Comunità parrocchiale di Casaloldo (MN), nella S. Messa delle ore 10.
Don Pompeo si chiedeva: Dove va la morale dei cristiani? Non è un testo immediato, nè tantomeno di facile lettura. Ma senza fatica, anche quella culturale, non c'è ricerca, non c'è sviluppo e progresso, non c'è elevazione. Buona Lettura! dM.
Pompeo Piva

Dove va la morale dei cristiani?

1.    La consistenza dell’esperienza morale
Parecchi moralisti cattolici sono preoccupati di fondare la solidità dell'etica a partire da una lettura costruita sulle capacità dell’uomo ragionante, postulando un fondo comune: la natura umana. Da qui la possibilità (pensano) di costruire un’etica universale sia in senso sincronico sia in senso diacronico. È un'etica che riprende, anche sotto diverse forme, la metafisica classica a scapito delle potenzialità dell'annuncio contenuto nel Prologo del Vangelo di Giovanni, che all'inizio non pone la natura o l'essere ma la Parola, che crea l'uomo e la donna ad immagine e somiglianza di Dio, aperti quindi all’incontro con Lui[1]. La concezione onto-teologica: Dio ente supremo, causa prima di tutte cose, creatore del mondo ex nihilo, impone di cercare nell’ordine della natura, soprattutto umana, l'espressione della normatività primaria cui l'uomo deve attenersi, pur nella differenza dalle cose create. Tale differenza è istituita dalla natura stessa, che esprime l'ordine della creazione. G. E. Moore coniò la nozione di “fallacia naturalistica” per denunciare il carattere erroneo delle inferenze che, assumendo come premessa le proprietà dei fatti della natura, pretendevano di giungere a definire il bene e il giusto sotto l’aspetto etico[2]. In senso opposto si esprime una recente e discussa proposta di J. Habermas, che prevede

“una nuova moralizzazione della natura umana da cui dipende la possibilità di continuare a intenderci come autori indivisi della nostra storia di vita, nonché di continuare a riconoscerci mutuamente come persone che agiscono in maniera autonoma”[3]. L’Autore, inoltre, afferma la necessità che la “persona riconduca la propria origine (ed anche l’origine delle proprie azioni) a un cominciamento indisponibile, ossia a un cominciamento che non pregiudica la sua libertà solo in quanto sottratto al potere di disposizione di altre persone, dal momento che un indisponibile destino di natura sembra essere elemento essenziale alla coscienza della nostra libertà”[4].

Il presupposto di tale concezione riposa sulla convinzione che l’uomo possiede una natura inscritta nell’ordine del creato, il quale, a sua volta, riflette il piano divino. Si deve accogliere allora l’idea che l’uomo è deciso e progettato. Operari sequitur esse. Assistiamo alla trasformazione del Dio della rivelazione e della parola nel Dio dell'essere. La verità di Dio è prima di tutto il suo essere, dotato di tutti gli attributi naturalistici di cui la metafisica greca arricchì i propri dèi. Su questo principio si fonda prima un ordine etico razionale, che si vuole coerente nel rapporto tra autonomia e teonomia del soggetto, e solo in seguito si aggiunge la condizione mistica cristiana[5]. Penso sia necessario andare oltre la condizione sia del Giudeo sia del Greco per accedere alla novità cristiana. Paolo, nella Prima Lettera ai Corinzi, nel momento in cui presenta l’evento della salvezza, rifiuta ogni forma di comprensione dell’uomo, della sua storia, della sua esistenza concreta fuori dell’evento Cristo.

“Anch’io, o fratelli, quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunziarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di sapienza. Io ritenni di non sapere A(a)ltro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questo crocifisso. Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione; e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio (...). L’uomo naturale non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito. L’uomo spirituale invece giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno”[6].

E quando parla della legge e della libertà nella Lettera ai Romani, fa risplendere l’insufficienza della pre-comprensione razionale della libertà dell'uomo di fronte alla proposta della fede.

“Ora indipendentemente dalla legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla legge e dai profeti; giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. E non c’è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia, dopo la tolleranza usata verso i peccati passati, nel tempo della divina pazienza. Egli manifesta la sua giustizia nel tempo presente, per essere giusto e giustificare chi ha fede in Gesù. Dove sta dunque il vanto? Esso è stato escluso! Da quale legge? Da quella delle opere? No, ma dalla legge della fede. Noi riteniamo, infatti, che l’uomo è giustificato per la fede a prescindere dalle opere della legge”[7].

È necessario arrischiare lo stesso rovesciamento di prospettiva anche nella questione etica a partire dalla riflessione personale ed ecclesiale sul vissuto dei cristiani, come si è delineato e consolidato nel corso delle vicende storiche. In questo modo si compie una seria riflessione sulla santità, cioè sul vissuto concreto della vita del singolo e delle chiese. Siate santi, non è solo un indicativo, ma è prima di tutto un imperativo! Credo che la vita santa non si addizioni simpliciter alla vita etica. Ne è la verità. La fonda. L'etica è radicata nella fede; per questo è privata della pretesa di ogni forma di auto-sufficienza. La fede in Cristo è l'istanza ultima di verifica dell'esperienza umana, che esclude qualunque fissazione dell’agire. Paradossalmente F. Nietzsche, il moralista, si affianca a Paolo, lo spirituale.

Il primo scrive: “Siccome ritenevano di possedere già la coscienza, gli uomini non si sono affaticati per acquistarla (…). L'immoralità estrema sta nella pretesa di avere già raggiunto la moralità”[8].

Paolo annuncia: “Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti. Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo”[9].

Alle sorgenti della vita morale c'è, perciò, il dinamismo della fede in Cristo. Siamo chiamati, attirati verso la libertà dei figli di Dio, verso la santità. Tecle Vetrali commentando la Lettera agli Efesini 1, 3-14 scrive:

“Prima di tutto è da notare che santità non ha nulla che la possa qualificare come un premio conquistato o una tappa raggiunta, ma è inserita all'interno del piano salvifico di Dio, interpretato come una benedizione nei nostri confronti. Questa benedizione divina è articolata in tre momenti: l'elezione di Dio e la predestinazione (vv. 46a), concessione di grazia o remissione dei peccati (vv. 6-7b), l’iniziazione al mistero (vv. 810). Da questo grande contesto la santità acquista tutta la sua dinamica: essa ha origine nella elezione in Cristo, nella predeterminazione, nell’amore e nel beneplacito di Dio. Essa, poi, non è fine a se stessa: finalità ultima è lo stesso Gesù Cristo risorto, nel quale solo è possibile accedere alla benedizione. Questo processo non è visto nella prospettiva di una realizzazione umana, bensì a lode e gloria della sua grazia. La santità, quindi, fa parte di un processo che ha la sua origine e la sua finalità all’interno del disegno e dell'azione di Dio. Già all'origine emerge il protagonismo dell'iniziativa divina e colloca nei giusti ranghi ogni prestazione umana. La santità è tutta avvolta e quasi nascosta nell'iniziativa gratuita di Dio. I cristiani vivono su questa terra la realtà celeste operata dal mistero pasquale. Questa collocazione nei cieli cambia l'orizzonte alla vita cristiana, che non può più confrontarsi solo con la realtà terrestre. Così il dinamismo della santità cristiana parte da Dio e ritorna a Dio: non dinamismo umano che raggiunge la sfera divina, ma un dinamismo divino che coinvolge l'uomo”[10].

Suggerisco una formula di riferimento carica di anni, forse vecchia, del mio balbettare teologico. L'etica ha il suo fondamento nel fatto previo del dono della salvezza. Mi pare che il contenuto dell’espressione fatto previo sia: l’autocomunicazione di Dio Padre per mezzo di Gesù Cristo, morto e risorto, nella potenza dello Spirito Santo, effuso sui singoli e sulle chiese. È la santità della vita. Non è sufficiente affermare che Dio esiste; non è sufficiente credere che Dio Padre ha mandato il suo Figlio per la nostra redenzione e che lo Spirito Santo è stato donato per suggerire ai discepoli i magnalia Dei. È necessario il dono della fede personale ed ecclesiale perché il cristiano si spinga oltre se stesso, verso il futuro escatologico del Regno di Dio[11]. L'unico fondamento dell’etica è, dunque, la realtà storica e concreta della persona cristiana, considerata nella completezza del suo vissuto santo, personale e comunitario. Nasce una tensione nel cristiano tra es­sere dato santo e dover essere santo, mediante l'esperienza del contrasto. La comprensione del fatto etico del cristiano ha due riferimenti, molto spesso opposti. La leg­ge con le sue determinazioni (legge divina, legge naturale, legge di Mosé, legge umana) e il vissuto storico del cristiano e delle chiese. Sembra raggiunto un accordo tra le chiese nell’affermare che la legge non può avere il significato di mediazione unica fra l'essere e il dover essere. Il consenso non sembra essere certo quando si afferma che la mediazione è realizzata dalla persona cristiana nella sua piena responsabilità. Il credente realizza la pro­pria dignità secondo un orizzonte assiologico costituito dal Regno di Dio che viene, accettato per fede ma che di continuo la supera. La coscienza perciò non è mai un dato ma un compito; non è una realtà chiusa ma una finestra aperta; non un cerchio completo ma un vettore aperto ad una realtà mai del tutto rag­giunta. L’etica si inscrive in questo spaccato che si identica con la santità. L’asserzione vale per i singoli e per le chiese[12].

2.    L’annuncio della volontà di Dio nel tempo finale della sal­vezza, ora iniziato, muove il singolo e le chiese alla decisione
Il pri­mo dovere del cristiano e delle chiese, dunque, è dato dal discernimento della chiamata di Dio qui ed ora alla santità. La scoperta che si compie per mezzo della fede e per nessuna altra strada.

“La forma mentis morale di Gesù si rifà estesamente ai testi dello Antico Testamento: la volontà di Dio è la norma morale suprema dell’agire (...). Neppure gli esigenti precetti del Discorso della mon­tagna, considerati solo dal punto di vista del loro con­tenuto materiale, superano i confini dell’etica veterotestamentaria (...). L’etica di Gesù si presenta nella sua singolarità solo come messaggio escatologico, tipico del mandato messianico. Esso è l’annuncio della volontà di Dio, nel tempo finale della sal­vezza, ora iniziato, che muove alla decisione (...)”[13].

La consistenza del messaggio che dona all’etica di Gesù un volto preciso e singolare è l’annuncio che la sovranità di Dio davvero è vicina. L’intervento salvifico sta per tradursi in realtà; è già realtà. Ciò che suscita interesse negli uditori di Gesù è l’affermazione che il Padre ha deciso d’intervenire per la salvezza del suo popolo. La predicazione morale di Gesù trova qui la sua ra­gion d’essere, la sua spiegazione ultima ed anche la fonte dei suoi contenuti[14]. La notificazione dell’Evento veicola le esigenze della ri­sposta umana: proclamazione ed invito, notificazione ed esigenza, indi­cativo ed imperativo, vangelo e comandamento si trovano strettamente uniti all’inizio della predicazione di Gesù, quale ci è riferita dall’evangelista Marco, quando scrive:

“Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò in Galilea predicando il vangelo di Dio e diceva: Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo”[15].

La Buona Novella assume forma di comandamento perché Dio ha notificato la situazione in e per mezzo di Cristo[16]. All’uomo è data la possibilità di vivere in una condizione nuova. Il comandamento fonda­mentale dell’etica può essere così formulato: Dal momen­to che tu vivi nel tempo in cui ha avuto inizio l’intervento gtatuito e defi­nitivo di Dio in Cristo nella potenza dello Spirito Santo per la salvezza dell’uomo (il fatto previo), deciditi qui e adesso ad accettare la sovranità di Dio (la santitàdono). Rimani fermo, per grazia, nella tua decisione per non essere escluso dal Regno (l’eticarisposta dell’uomo). Il tu di Dio per Cristo nello Spirito santo fonda ogni forma di etica personale ed ecclesiale. Come l’uomo fa proprio l’Evento di salvezza? La risposta della Parola di Dio è chia­rissima: per mezzo della fede nella morte e risurrezione di Gesù; in nessun A(a)ltro modo. L’affermazione è posta in con­trasto con l’affermazione della salvezza per mezzo delle opere, come recita un testo della Lettera ai Romani.

“E non c’è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia”[17].

La fede è un atteggiamento complesso, multiforme ed unitario insieme. Coinvolge tutta la persona, al punto che questa rinuncia in modo definitivo ad appoggiarsi su se stessa per edificarsi solo sull’amore di Dio. Nella sua giustizia, Dio rende noto qualcosa di più di una semplice pazienza che lascia il peccato impunito: la santità che è al tempo stesso giudizio e grazia. E proprio per questo conduce il peccatore alla fede, che è ravvedimento, autocondanna e conversione vera[18]. Il testo della Commssione Fede e Costituzione, Battesimo, Eucarestia, Ministero (Lima 1982) si pone sulla stessa linea proprio riguardo alla vita morale, radicata nella santità. Il testo afferma:

“(I cristiani) riconoscono che il battesimo, in quanto battesimo nella morte di Cristo, ha delle implicazioni etiche, che non solo richiedono la santificazione personale, ma altresì spronano a lottare perché si realizzi la volontà di Dio in tutti i settori della vita( Rm 6,9ss; Gal 3,26-28; 1Pt 2,21-4,6)”[19].

Di grande rilievo è il documento dal titolo Implicazioni ecclesiologiche ed ecumeniche di un battesimo comune. Riferisco soltanto alcune parti del testo.

“La vita cristiana, basata sulla fede e alimentata dalla fede, deve diventare sempre più ciò che Dio promette e crea nel battesimo (...). Per tutti i battezzati la crescita in Cristo implica la chiamata e la capacità di tendere alla santtità realizzata dallo Spiorito: Voi sarete santi, perché io sono santo (…). La credita in Cristo significa crescita nella santità, che comporta l’abbandono del peccato e la pratica della nuova vita dello Spirito. Il fatto che il battesimo, come ingfesso nella chiesa, incammini l’individuo su questa strada (…), attira l’attenzione su questa implicanza ecclesiologica. La comunità cristiana è una comunità morale di discepoli, costituita da membri che cercano, con la forza della grazia di Dio, di vivere santamente secondo il modello offerto dallo stesso Gesù, che li ha chiamati ad essere santi come è santo il loro Padre celeste, e ha mandato lo Spirito Santo per aiuitarli a percorre fino in fondo questa strada. Ogni comunità cristiana dovrebbe essere una scuola di pregfhiera e di addestramento morale e di crescita personale”[20].

Che la preghiera di Cristo rivolta al Padre, che tutti siano uno, riguardi l'unità nella fede, non è oggetto di discussione da parte delle chiese, almeno credo[21]. In realtà le Chiese, a volte, non sembrano credere che ci siano ragioni di verità più forti di quelle consacrate alla difesa di una propria identità immutabile di ciò che si è costituito come loro tradizione. Ma neppure la tradizione rappresenta un dato di fatto fisso; diventa tale in forza di decisioni interpretative sincroniche e diacroniche. La tradizione può esprimere la forza vitale della istituzione, ma nello stesso tempo può cadere nel rischio di una sclerosi; si conserva non ripetendola ma ripensandola e re-interpretandola, come risposta alle domande che ogni volta la sottopongono a una prova di verità. La tradizione non può costituire un surrogato che rassicura una verità che si nasconde di continuo. Questa, infatti, se è tale, non è mai del tutto a disposizione né di un singolo né delle chiese. Sarebbe una specie di naturalizzazione dell'intelligenza immaginare parole immutabili, fuori di ogni tempo, perché se Dio ha parlato e continua a parlare agli uomini, lo fa affidando al tempo le sue parole. Sempre per la fede, Dio è conosciuto non solo per ciò che ha detto, ma anche per quello che ha da dire.

Ricorda il vangelo di Giovanni che Gesù ha ancora “molte cose da dire”[22] e promette per i suoi discepoli sostegno, conforto e intelligenza del mistero di Dio, quando verrà lo Spirito di verità che “io manderò a voi”. Egli li mette sulla strada di ogni verità. Gesù dichiara, in questi termini, l'incompiutezza della rivelazione e il suo necessario compimento da parte di una potenza, di cui Lui solo dispone e che opera senza sosta: lo Spirito santo. Uno Spirito che insegna la verità proclamata da Gesù, e che si rivela bisognosa non tanto di definizioni teoretiche risolutive quanto della partecipazione a una vicenda che si svolge e si decide nella dimensione misteriosa dello Spirito di verità che proviene dal Padre[23].

3.    L’etica teologica cristiana
La teologia cristiana, radicata nella Scrittura, ricorda che l'etica ha inizio dall'ascolto. "Ascolta Israele!". La parola viene dall'A(a)ltro e fa nascere la comprensione di noi stessi, degli altri, di Dio stesso. Una parola che spezza la chiusura narcisistica in cui è possibile trovare il proprio compiacimento. Il Vangelo è proclamazione, esige che si faccia posto all'A(a)ltro, agli altri, a tutti gli altri. La struttura della stessa Legge di Dio sottolinea il fatto che l'etica nasce dall’intervento, dall’interpellanza dell'A(a)ltro, di tutti gli altri; ed ha come effetto la liberazione dalla schiavitù del peccato e della morte. La libertà sorge, quando siamo interpellati dalla parola dell'A(a)ltro e degli altri. Essa è reale, quando ricerca le vie e i mezzi per rispettare gli altri, nei loro beni come nella loro vita, nello spirito come nel corpo. Questo significa ascoltare, imparare ad ascoltare. La Parola di Dio esige di essere, a poco a poco, compresa nel grido gioioso, nella sofferenza, nella ribellione degli uomini e delle donne, nelle loro aspirazioni od anche nella loro indifferenza, persino nella loro noia. Così testimonia la parabola del buon Samaritano.

Non è sufficiente essere esperti in questioni morali o religiose per comprendere la parola che sopraggiunge a noi dall'A(a)ltro. È necessaria la sola fede. Si può anche rifiutare di capire e giustificare la sordità dei singoli e delle chiese con eccellenti argomenti teologici provenienti dalle diverse tradizioni. Si può conoscere la Legge, le sue prescrizioni normative e passare accanto ad un ferito senza fermarsi. Che cosa è mancato al sacerdote e al levita della parabola? Hanno visto il ferito, ma non hanno capito, non hanno letto in se stessi la sua richiesta di aiuto. Non hanno lasciato parlare in loro la voce che chiamava a compassione. Hanno rispettato le prescrizioni legali, riguardanti le proibizioni legate al loro stato, ma non hanno inteso la parola dell'A(a)ltro. Ciò che invece ha capito il samaritano che per caso passava per quella strada. "Afferrato da pietà alla vista del ferito (™splagcn…sqh)" torna sui suoi passi e aiuta il malcapitato.

L'etica comincia, dunque, con l'ascolto della voce dell'A(a)ltro. Pertanto la verità della questione etica si gioca anzitutto nel profondo del cuore di ogni essere umano. Se c'è una verità che la tradizione teologica ricorda è proprio quella indicata. Essa condiziona tutto il dibattito sulla vita morale. Effettivamente, il rischio di vedere oggi la morale ridotta a mera funzione sociale, apprezzata soltanto per la sua utilità o la sua efficacia, è grandissimo. Tende sempre più ad avvicinarsi al diritto; e come il diritto, inclina a diventare l'espressione di un consenso sociale maggioritario, cercando di imporre a tutti norme legittimate per il loro valore socíale. Ma la morale, anche nei suoi aspetti più sociali, non deve mai dimenticare che essa è prima di tutto l'espressione di una responsabilità personale, in cui trova senso la libertà del soggetto. Questo è quanto di più significativo può portare la tradizione biblica, giudaica e cristiana, al dibattito moderno sull'etica. Posto questo tipo di comprensione della responsabilità etica, quattro esigenze o indicazioni (almeno mi sembra) sono formulabili in altrettante indicazioni di valore.

Prima esigenza. Essere eticamente responsabile significa prendere sul serio la realtà concreta. Gesù non si stanca mai di ricordare che il sabato è stato fatto per l'uomo e non l’uomo per il sabato. La legge orienta agli altri; ed è questo concreto A(a)ltro che occorre prendere sul serio, non la difesa dei principi. Ciò non implica la negazione dell'esistenza di norme astratte o di leggi. Secondo il richiamo della Scrittura i principi hanno senso perché ci rinviano all’A(a)ltro; esige che ognuno si lasci sconvolgere, come testimonia la parabola evangelica del Buon Samaritano[24]. Prendere in considerazione la realtà, significa accogliere il carattere drammatico dell'esistenza umana, votata alla morte, anticipando frequentemente, con la sua violenza, le sofferenze che essa infligge o subisce o il male che l'opprime senza apparente ragione. Si deve rinunciare a costruire un'etica prometeica che vuole correggere questo dramma o addirittura abolire la realtà del male, del peccato. Da tutto ciò, l'etica deve imparare a conoscere la modestia e la fragilità delle sue proposizioni; ma anche la grandezza del suo scopo: manifestare la forza della speranza e il valore della persona umana, qualunque sia la propria personale realtà. Cosa sarebbe un'etica senza speranza?

Seconda esigenza. Essere eticamente responsabile, significa infine valorizzare l'interdipendenza. Una decisione etica, anche quando è frutto di una scelta personale, si inscrive sempre in una rete di relazioni spaziali e temporali, che la nutrono, la condizionano, le conferiscono legittimità. Il fatto che ogni decisione deve tener conto del contesto, ci spinge ad una certa umiltà. Siamo infatti coscienti di essere condizionati nelle nostre scelte, sulle quali possiamo esercitare un certo controllo. Ma esiste anche ciò che ci condiziona, senza che noi ne siamo coscienti. Di conseguenza, risulta che le nostre decisioni sono sempre parziali, precarie, suscettibili di revisione.

Terza esigenza. Inoltre il riconoscere il valore della interdipendenza porta a decisioni consensuali, frutto di una deliberazione in cui sono presi in considerazione moltissimi elementi; e questo, si dovrà convenire, costituisce una grande ricchezza. Interdipendenza significa che ciascuno rappresenta per gli altri una sfida etica: il rispetto degli altri è messo così direttamente alla prova. Se la sfida è cosciente, allora l'apprendistato di un'etica comunitaria può avere inizio. Ed è proprio così che la responsabilità si esercita in modo comunitario. L'esperienza cristiana della vita ecclesiale può essere ricordata come capace di manifestare la ricchezza relazionale di una visione positiva della interdipendenza. La quale, lungi dallo sterilizzare le responsabilità personali, le affina, facendo di esse l'espressione dell'amore e, dunque, della libertà, e non della necessità. Per questo, come cristiani, noi saremo sempre contrari all'individualismo, il quale rifiuta ogni positività all'interdipendenza e cerca di evitarla il più possibile, spesso a prezzo della solidarietà, ed anche al conformismo morale, che scioglie la responsabilità in un’accettazione senza ritorno dell'opinione dominante.

Quarta esigenza. Essere eticamente responsabili, vuol dire riconoscere la necessità di un assoluto morale, che sottintende e orienta le nostre decisioni ed ha valore universale. Questo assoluto, si sostanzia nel rispetto per gli altri. Ma non si può avere rispetto per l'A(a)ltro soltanto perché questi possiede qualche qualità che lo rende rispettabile ai nostri occhi; è la nostra decisione etica che lo rende rispettabile. Rispetto è incondizionato, assoluto. Anche se la decisione ha un carattere razionale (si può in effetti ammettere che questo rispetto si sviluppa nel senso di una migliore cooperazione tra gli individui) ciò che la legittima sul piano etico è l’esperienza personale che non è un possesso privato e chiuso; deve esistere almeno un'altra persona che ne attesti il valore. Perché, al nostro desiderio occorre che risponda il desiderio di almeno un'A(a)ltro, il quale ci vuole viventi. Senza questa attestazione, non esistiamo affatto: si chiama amore, così necessario per vivere come l'aria che respiriamo. Il Vangelo non cessa mai di ricordarci che possiamo manifestare agli altri l'amore, proprio perché e prima di tutto è stato manifestato a noi. Voi potete amare perché io vi ho manifestato il mio amore, dice Dio. Perché io mi sono avvicinato a voi in Gesù Cristo, come il buon samaritano si è avvicinato al ferito, che voi potete, a vostra volta, diventare prossimo agli altri. Ciò che fonda il rispetto verso gli altri, è il rispetto per se stessi. Questo è possibile perché l'abbiamo riconosciuto presente in uno sguardo, nella parola o in un gesto di altri nei nostri confronti. Ora, nessuno, dice la Scrittura, è abbandonato da Dio, qualunque sia il suo smarrimento o la sua colpa. Uno solo in realtà ha potuto fare l'esperienza dell'abbandono radicale: Cristo sulla croce. "Mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonato?". E proprio perché Gesù Cristo ha esperimentato l'abbandono al nostro posto non c'è nessuno che sia sul punto di dover perdere ogni rispetto di sé. È possibile, allora, fondare teologicamente l'esigenza del rispetto della persona altrui: “Tu amerai il tuo prossimo, come te stesso”. Il come te stesso pone in evidenza la reciprocità del rispetto di sé e del rispetto per gli altri.

4.      La secondarietà dell’etica
Se ciò che sto dicendo è corretto, l'apporto della riflessione teologica all'etica consiste essenzialmente nel richiamo della secondarietà dell'etica, sempre in situazione di risposta alla domanda dell'A(a)ltro. Che cosa suscita e nutre la riflessione etica? È la preoccupazione di far emergere dei principi, di gestire degli interessi divergenti, di mantenere con il timore la ricerca nei limiti giudicati ragionevoli? In breve: mirare ad un interesse sociale prima di tutto, oppure all'ascolto della parola dell'A(a)ltro? Dalla risposta a questa prima questione, elementare ma fondamentale, scaturisce la responsabilità. Se siamo d'accordo sulle regole, appena ricordate, constatiamo che il meglio che possiamo dare come teologi, non sono i contenuti normativi o le regole del funzionamento etico, ma le motivazioni per la decisione personale. Chiamare in causa la realtà concreta, significa che il primo passo vincolante è mettersi in ascolto di ciò che dice l’A(a)ltro su un determinato problema, in una situazione concreta. Apprendistato dell'ascolto, che non è spontaneo nemmeno per i teologi. Significa anche rinunciare a negare la realtà, per es. la morte o la malattia o il male in generale, e rinunciare a proporre soluzioni che cercano più di mascherare la drammaticità della esistenza che ad assumerla. Far proprio il valore dell'interdipendenza implica la scelta di un'etica fondata sulla deliberazione contro un'etica imposta dall'esterno. Un'etica che non ha un a priori universale a-storico, ma che è nutrita dal convincimento cristiano che tutti hanno il diritto di esprimersi e di essere ascoltati.

Infine, occorre decidere per un riferimento comune, che serva da norma critica per il comportamento: un assoluto morale. Le teologie cristiane ricordano con convinzione che la norma della carità, in perfetta linea sia con il Decalogo sia con il Vangelo, non è fondata soltanto su una tradizione religiosa e culturale, ma innanzitutto sull'esperienza più essenziale radicata nel fatto previo: Gesù Cristo donato per noi. A partire da questo assoluto morale, ogni riflessione (forse) trova la sua chiarezza. Non è liberata dalla responsabilità delle decisioni concrete, spesso difficili, ma è sostenuta da questa certezza che solo il rispetto della propria persona e degli altri può tutelare la vita morale da manipolazioni ingiuste, da atteggiamenti autoritari, da fallimenti personali ed ecclesiali.

S. Agostino scrive: “Non c’è nessuno che non ami; ma quel che si domanda è che cosa ami. Non siamo esortati a non amare, ma a scegliere l’oggetto del nostro amore. Come potremo noi scegliere, se prima non siamo stati scelti noi stessi? In effetti, se non siamo stati prima amati (…). Cerca come l’uomo possa amare Dio: assolutamente non lo troverai se non nel fatto che egli ci ha amati per primo. Poiché dunque tanto grande è la fiducia che abbiamo, amiamo Dio attraverso Dio. Effettivamente, se ho potuto affermare che l’amore di Dio è diffuso nei nostri cuori attraverso l’azione dello Spirito Santo che ci è stato donato (Rm 5,5), ne segue che, essendo lo Spirito Santo Dio, noi non possiamo amare Dio se non attraverso Dio (…).Stimolati, cantate al Signore un cantico nuovo (Sal 149,2). Eccomi - tu dici - io sto cantando. Stai cantando, è vero, stai cantando: io ascolto. Ma che la tua vita non proferisca testimonianza contrastante con la tua lingua. Cantate con le voci, cantate con il cuore; cantate con le labbra, cantate con i costumi (…).  Volete sa-pere cosa occorre cantare di colui che amate? (…). La lode da cantare è lo stesso cantore. Volete innalzare lodi a Dio? Siate voi la lode che volete proferire. E sarete sua lode se vivrete bene[25].


[1]       Secondo la narrazione delle origini di Genesi 1-2.
[2]       G. E. MOORE, Principia ethica, Oxford 1946. Traduzione italiana, I Principi dell'Etica, Milano 1985, pp. 58s.
[3]       J. HABERMASS, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, Torino 2002, p. 28. Per comprendere l’evoluzione  del pensiero di J. HABERMAS, cfr altre opere significative, quali: Morale, Diritto, Politica, Torino 2007; La condizione intersoggetiva, Bari 2007; Tra scienza e fede, Bari 2006; Il pensiero post-metafisico, Bari 2006; Ragione e fede in dialogo. Habermas Jürgen, Ratzinger Josphef, Roma 2005.
[4]       ID, Il futuro della natura umana, o. c. pp. 59s.
[5]       Per questa problematica si deve riflettere sul pensiero di GIOVANNI PAOLO II nell’enciclica Veritatis Splendor (1983), soprattutto il capitolo secondo, parte I: La libertà e la legge, nn. 35-53.
[6]       1 Cor 2,1-15.
[7]       Rm 2, 21-30.
[8]       F. NIETZSCHE, Genealogia della morale, Torino 1998, p. 67.
[9]       Fil 3, 7-12. Il Vangelo di Giovanni afferma: “Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via. Gli disse Tommaso: Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via? Gli disse Gesù: Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se conoscete me, conoscerete anche il Padre: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto”(Gv 14, 17s.).
[10]      T. VETRALI, Il Santo e l’esperienza di Dio, Milano 2000, p. 192.
[11]      Cfr W. PANNENBERG, La teologia e il Regno di Dio, Brescia 19982, pp. 133s.
[12]      Consiglio la lettura di un ottimo articolo di P. M. FERRARI, Della non autosufficienza ecclesiale. Abbozzo fenomenologico, St Ec 2 (2007) 147163.  A prima vista può sembrare che la citazione sia impropria. In realtà si tratta della descrizione di un substrato culturale e teologico che costituisce il fondo delle mie argomentazioni. Una più ampia e completa documentazione vedi presso lo stesso AUTORE, Sfide del postmoderno e risposta “ecumenica”, L’Autore Libri Firenze, Firenze 2008. Saggio che consiglio vivamente per la profndità argomentativa e la chiarezza espositiva.
[13]      R. SCHNACKENBURG, Sacramentum mundi. Enciclopedia Teologica, vol. 1, ed. it. a cura di A. BELLINI, Brescia 1997, pp. 66s.
[14]      Sul tema della fondazione dell'etica di Gesù nella realtà del Regno di Dio, da tempo l’accordo tra i biblisti è abbastanza largo, a partire da F.  MONTAGNINI,  Messaggio del Regno e appello morale nel Nuovo Te­stamento, Brescia 20003, particolarmente il capitolo III, fino alle opere fondamentali opere di  R. SCHNACKENBURG, di cui cito soltanto il volume dal titolo La Chiesa nel Nuovo Testamento, Il messaggio morale del Nuovo Trestamento, Parte seconda: La Chiesa primitiva di fronte alle esigenze morali di Gesù, Brescia 20062, pp. 199-358. Ho citato due etremi; in mezzo si dà una notevole letteratura esegetica e teologica.
[15]      Mc 1,14-15. Il testo greco: Met¦ d tÕ paradoqÁnai tÕn 'Iw£nnhn Ãlqen Ð 'Ihsoàj e„j t¾n Galila…an khrÚsswn tÕ eÙaggšlion toà qeoà kaˆ lšgwn Óti  Pepl»rwtai Ð kairÕj kaˆ ½ggiken ¹ basile…a toà qeoà: metanoe‹te kaˆ pisteÚete ™n tù eÙaggel…J.
[16]      Cfr Lc 4,18-20; 7,22-30; 11,14-21; Mt 12,28s.
[17]      Rm, 3,23-25. Ecco il testo greco: Ön prošqeto Ð qeÕj ƒlast»rion di¦ [tÁj] p…stewj ™n tù aÙtoà a†mati, e„j œndeixin tÁj dikaiosÚnhj aÙtoà di¦ t¾n p£resin tîn progegonÒtwn ¡marthm£twn.
[18]      Vedi HERMANN, …last»rion, in GLNT, vol. IV, Brescia 1968, coll. 9981011.
[19]      Commissione Fede e Costituzione, Battesimo Eucarestia Ministero, Lima 1982. Edizione italiana a cura di P. RICCA e L. SARTORI, Torino 1982, p. 18.
[20]      Appendice C all’Ottavo Rapporto, Creta 2004, in EO 7, 1289-1402. Il documento merita uno studio attento.
[21]      Cfr Gv 17, 20-26.
[22]      Gv 3, 17.
[23]      Gv 16, 12-15.
[24]      Vedi Lc 10, 29-37.
[25]    AGOSTINO, Disc 34, 1-6, passim. Nuova Biblioteca Agostiniana, Opere di S. Agostino, Discorsi, vol. XXIX, Roma 1979.


Nessun commento:

Posta un commento