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Natale, amore libero
40 anni di divorzio in Italia.
Sono passati quarant’anni dall’introduzione del divorzio anche in Italia. Era il 1 Dicembre 1970 quando il Parlamento approvava in via definitiva la cosiddetta legge Fortuna-Baslini, dal nome dei due parlamentari che la promossero. Un anniversario stranamente passato quasi completamente sotto silenzio, se si pensa alle polemiche infuocate di quei giorni e soprattutto a quelle che accompagnarono il tentativo di abrogazione referendaria di quella legge. Le statistiche aggiornate al 2008 parlano di un aumento dei divorzi: 54.000 rispetto ai 27.000 del ‘95, e delle separazioni salite nello stesso periodo da 52.000 a 94.000. In percentuale il tasso di divorzio è cresciuto da 79 a 179 x mille matrimoni, e le separazioni da 158 a 285.
Oggi il divorzio è ormai considerato un’acquisizione giuridica e sociale fuori discussione. Esso ha rappresentato un vero e proprio spartiacque culturale, che ha messo in crisi la centralità della famiglia, a favore del singolo e delle sue libertà individuali, con le conseguenze che tutti conosciamo. Del resto, quando due persone non vanno d’accordo, la cosa più logica è che ciascuno prenda la propria strada. Se poi all’incompatibilità temperamentale si aggiungono abusi, violenze e figli costretti a crescere in mezzo a tensioni e conflitti, la separazione è fuori discussione.
Qualche tempo fa, in una sera di mezza estate, mentre passeggiavo su un incantevole lungomare calabrese, l’amico che mi accompagnava, da molto tempo divorziato e da altrettanto più o meno felicemente convivente, mi confidava che quando nel ’74 si votò per il referendum abrogativo del divorzio, aveva deciso per il suo mantenimento, convinto che fosse la soluzione alle difficoltà del matrimonio. Riflettendo a posteriori sulla sua esperienza personale e su quella di molti altri casi, si era reso conto che invece alla fine il danno era peggiore del rimedio. La post-separazione non è mai come la si era immaginata. Le nuove unioni si rivelano spesso più problematiche del primo matrimonio. I primi a risentirne sono i figli, spesso sballottati a destra e sinistra come pacchi. A questo si aggiunga che separazioni e divorzi hanno aumentato il numero dei nuovi poveri, cioè di coloro che non ce la fanno ad arrivare a fine mese. Ma il vero problema, che non è ancora stato messo a fuoco in tutta la sua gravità e che sta alla base dei fallimenti matrimoniali, è la fragilità morale dei singoli, diventati incapaci di affrontare le inevitabili difficoltà coniugali, per risolverle e rilanciare la loro unione. Era il 1964, tempi non sospetti, quando Piero Ottone, non certo un bigotto, sul ‘Corriere della Sera’ scriveva: “l’istituto del divorzio, anche se ha il vantaggio di sanare di tanto in tanto le situazioni insostenibili, ha il gravissimo difetto di indebolire la fibra morale dei cittadini. Esso fa di loro, uomini e donne, persone che fuggono davanti alle difficoltà, e non persone che le affrontano con coraggio. Il danno si ripercuote su tutta la vita sociale. L’indebolimento, inoltre, si ripete a ogni successivo matrimonio di chi si sia già divorziato. L’esperienza dei paesi col divorzio conferma quanto sa benissimo ogni studioso di psicologia. Le difficoltà del primo matrimonio risorgono quasi immutate nel secondo, perché la loro causa fondamentale non risiede nel partner, cioè nell’altro coniuge, bensì in noi stessi.”. C’è di che riflettere.
Don Marco Belladelli.
Febbraio 2011
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I SEGNI DEI TEMPI
E’ ormai un’abitudine per Joseph Ratzinger rilasciare periodicamente lunghe interviste ad un giornalista a lui vicino, che poi si trasformano in un bestseller mondiale, per il grande interesse che il suo pensiero desta, sia all’interno della Chiesa, sia sull’opinione pubblica in genere. Nel giro di poco più di un quarto di secolo lo ha già fatto quattro volte. Ha iniziato nel 1984 con “Rapporto sulla fede”, assieme a Vittorio Messori. Sono seguiti nel 1996 “Il sale della terra” e nel 2000 “Dio e il Mondo”, scritti invece con il giornalista bavarese Peter Seewald. Lo stesso con cui si è intrattenuto a Castel Gandolfo per circa sei ore di colloquio nell’ultima settimana del Luglio scorso, preferito ad altri candidati per l’opportunità di poter parlare liberamente nella madre lingua. Il risultato finale di queste conversazioni estive sono le 284 pagine del libro “Luce del Mondo”, pubblicato alla fine del Novembre scorso, nel quale il Papa risponde a più di 90 domande, distinte in tre ambiti, come indicato dal sottotitolo, “Il Papa, la Chiesa e i segni dei tempi”.
Il libro-intervista a Benedetto XVI, comincia con un’attenta analisi dei “Segni dei tempi”. Espressione, usata per la prima volta dal beato Giovanni XXIII nella sua enciclica Pacem in terris, passata poi nella costituzione pastorale “Gaudium et Spes” del Concilio Vaticano II, con la quale si vogliono indicare quei particolari avvenimenti storici, nei quali chi crede riconosce la presenza e l’azione stessa di Dio, che giuda la storia umana verso il bene e la salvezza.
Incalzato dal suo interlocutore, il Papa non si sottrae dal confrontarsi con la problematicità del presente. Risponde a viso aperto e senza tatticismi da difesa ad oltranza a tutte le questioni che gli vengono sottoposte. Così, ancora una volta lo sentiamo parlare del grave scandalo della pedofilia, di quanto lui stesso ne sia rimasto profondamente sconvolto, di tutto quello che è stato fatto per rimediare e per restituire credibilità al grande dono del sacerdozio. Lo sguardo poi si apre sul mondo intero e alla catastrofe incombente che sembra sovrastarlo, come se si fosse innescato un processo di terrore e di morte, che nessuno riesce più a controllare e tanto meno a fermare. Il riferimento è prima di tutto all’illusione che il progresso potesse sempre e comunque essere positivo, quando invece si è dovuto prendere atto del contrario, soprattutto per i gravi rischi ambientali che ha comportato e ancora oggi comporta. Affronta poi il tema della crisi finanziaria scoppiata alla fine del 2008, per la pretesa di pochi di vivere al di sopra delle loro possibilità. Toccherà alle generazioni future pagare il prezzo salatissimo di un dissesto economico che non ha precedenti. Alla radice di tutti questi problemi c’è la dittatura del relativismo, con i suoi egoismi individuali e di gruppo, per la quale l’uomo, in balia di una ragione senza bussola e di una libertà senza limiti, diventa incapace di cercare ed accogliere la verità, come pure di orientarsi al bene. Per la Chiesa, e per ciascun cristiano, tutto questo rappresenta una sfida, per dimostrare che l’infinito di cui l’uomo ha bisogno viene soltanto da Dio: “Dio è la nostra prima necessità per poter far fronte alle tribolazioni di questo tempo”. Bisogna riuscire a imporre immagini di umanità vere, contro quelle false, per spezzare la ininterrotta spirale di male che oggi sembra soffocarci. Buon 2011! (Gennaio 2011).
----------------Natale, amore libero
“Sono stata cresciuta nell’amore. Un amore che ho ricevuto senza chiedere, senza aspettare. A cominciare dal latte di mia madre. Una creatura aveva iniziato a vivere in me, attraverso di me. Non mi feci tante domande. Fu straordinario, ma semplice e naturale” Con queste parole inizia il film di Guido Chiesa, Io sono con te, presentato il mese scorso al Festival del cinema di Roma con il sottotitolo: “Storia della ragazza che ha cambiato il mondo”. E sullo schermo si vede una anziana donna mediorientale d’altri tempi che, dentro a una grotta, racconta la sua storia a un non ben identificato interlocutore (l’evangelista Luca ?). Poi il film apre sulla più bella storia del mondo, quella di Maria e di Gesù.
La trama interpreta liberamente il racconto del cosiddetto Vangelo dell’Infanzia di san Luca ai capitoli 1 e 2, integrati con san Matteo per la visita dei Re Magi e con elementi tratti dai vangeli apocrifi per il san Giuseppe vedovo, con figli. Dell’annunciazione, rappresentata nelle primissime scene del film, quasi non ci si accorge. La visita a santa Elisabetta diventa una provocazione alla disobbedienza contro la legge della circoncisione. Alla nascita di Gesù non si accompagnano eventi straordinari, né in cielo, né in terra. A mala pena c’è posto per Giuseppe. I Re Magi poi, più che dei sapienti orientali come siamo abituati a considerarli, sembrano un comitato per l’assegnazione di borse di studio, alla ricerca del bimbo prodigio di turno. Così pure il Gesù preadolescente che si smarrisce tra i dottori nel tempio, assomiglia più a un capriccioso e presuntuoso saputello, e non al Figlio di Dio, che per la prima volta prende coscienza della sua futura missione. L’aver volutamente escluso ogni possibile riferimento al divino e al soprannaturale a favore di un umano, a volte un po’ troppo umano, tanto apprezzato dalla critica, personalmente, forse per deformazione professionale, l’ho trovato invece goffo e in alcuni particolari anche un po’ ridicolo.
Nonostante tutto, anche per la forza intrinseca ai fatti narrati, il film non perde il suo orientamento a quell’Amore liberante, di cui si è parlato all’inizio, come a un dono che ha invaso la vita di Maria da quando è nata e ancor più dal momento in cui è rimasta misteriosamente incita del Figlio di Dio. Dall’inizio alla fine, la narrazione rimane impregnata di quel qualcosa di semplice e di naturale che, secondo quanto hanno dichiarato la moglie del regista, Nicoletta Micheli, e lo stesso Guido Chiesa, un bel giorno del 2005 ha sorpreso entrambi con tutta la sua forza sconvolgente, e cioè l’incontro con l’Amore di Maria, nella sua pienezza di amore umano e insieme divino.
Il film chiude ancora con la figura di Maria anziana, che di fronte alle perplessità di san Luca di includere nel racconto del Vangelo anche gli episodi dell’infanzia di Gesù, risponde: “Per comprendere una vita, bisogna conoscere l'inizio”. Insieme con le frasi iniziali, mi pare che queste parole rappresentino le vere chiave interpretative del film. Come ha scritto il regista nel suo sito: “Solo un corpo che ha conosciuto amore nei momenti decisivi della sua crescita è libero. E solo chi è libero può dare amore incondizionato”. Insomma, un modo originale e bello per dire che il mistero di Dio fatto uomo è ancora oggi la fonte di quell’Amore libero, di cui abbiamo assoluto bisogno, come dell’aria che respiriamo. Buon Natale 2010.
Don Marco Belladelli
Dicembre 2010.
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MADRE TERESA DI CALCUTTA COMPIE 100 ANNI
MADRE TERESA DI CALCUTTA COMPIE 100 ANNI
Il 26 Agosto scorso sono iniziate in tutto il mondo le celebrazioni per il centenario della nascita di Madre Teresa di Calcutta. Una donna tanto minuta e fragile, ma con una forza e un coraggio assolutamente fuori dal comune. Come il Buon Samaritano del XX secolo, ad una umanità sempre più egoista, edonista, cinica e frenetica ha insegnato a fermarsi e chinarsi per un gesto di compassione davanti a chi non soltanto è disprezzato, ma addirittura calpestato, cioè davanti agli ultimi di questo nostro mondo, espropriati di ogni diritto e dignità, anche nel momento della loro morte, quando avviene nell’anonimato, su di un marciapiede delle nostre metropoli.
“Sono albanese di sangue, indiana di cittadinanza. Per quel che attiene alla mia fede, sono una suora cattolica. Secondo la mia vocazione, appartengo al mondo. Ma per quanto riguarda il mio cuore, appartengo interamente al Cuore di Gesù”. Così abitualmente si presentava la piccola Suora , che tutto il mondo ha conosciuto ed ammirato, avvolta nel suo sari bianco. Nata a Skopje, in Macedonia, da una famiglia cattolica e praticante, Anjeza Gonxha Bojaxhiu, così si chiamava, a 18 anni lascia la sua casa per Dublino dove si consacra nell’Istituto delle Suore di Loreto e nel gennaio del 1929 viene mandata in India come insegnante. E’ il Settembre del 1946, quando durante un viaggio da Calcutta a Darjeeling per un ritiro spirituale, Madre Teresa ricevette la “chiamata nella chiamata”. Non raccontò mai i particolari con cui Gesù le si rivelò nel momento del suo grido sulla croce: “Ho sete!” (Gv 19,28). Grido di sofferenza per l’incuria verso i poveri, di dolore perché non lo conoscono e di ardente desiderio di essere da loro amato. Gesù la pregò: ”Vieni, sii la mia luce. Non posso andare da solo” e le chiese di fondare una comunità religiosa, le Missionarie della Carità, dedite al servizio dei più poveri tra i poveri. Dopo due anni di travagliato discernimento, il 17 Agosto del 1948 Madre Teresa lascia il suo amato convento con le sue sicurezze, per entrare nel mondo dei poveri con indosso soltanto il suo sari bianco bordato di azzurro. Il resto è stato un fuoco d’amore che ha incendiato ogni angolo della terra, dovunque ci fossero miserie umane di cui nessuno volesse farsi carico. In questa sua missione non ha avuto paura di niente e di nessuno, affrontando e superando ostacoli di qualsiasi natura.
E’ indelebile nella mia mente il ricordo del suo funerale, quando tutti i potenti della terra, e con loro tutto il mondo, si prostrarono davanti a quell’esile figura per rendergli l’omaggio dell’intera umanità, riconoscendo così il valore universale della sua missione, quella di vivere soltanto del potere e della potenza della carità cristianamente intesa, l’unica capace di superare barriere e divisioni e di riunire gli uomini in una sola famiglia. A tredici anni della sua morte, avvenuta il 5 Settembre 1997, con Giovanni Paolo II, altro gigante del nostro tempo a cui la legava una profonda amicizia e che nel 2003 voleva dichiararla subito Santa, saltando il gradino della beatificazione, rendiamo lode a questa piccola donna innamorata di Dio, umile messaggera del Vangelo e infaticabile benefattrice dell’umanità. Onoriamo in lei una delle personalità più rilevanti della nostra epoca e di tutti i tempi. Accogliamone il messaggio e seguiamone l’esempio.
Don Marco Belladelli
Novembre 2010.
Il Beato John Henry Newman
Contrariamente a quanto da lui stesso stabilito, Domenica 19 Settembre Benedetto XVI ha presieduto a Birmingham la beatificazione del cardinale inglese John Henry Newman. Ai più sconosciuto, il cardinal Newman è uno degli intellettuali più importanti del XIX secolo. Con la beatificazione, la Chiesa lo indica ai fedeli e al mondo intero anche come esempio di vita cristiana.
Nato a Londra nel 1801 da un banchiere inglese e da una donna di origine francese, dopo il fallimento della banca presso cui lavorava il padre, nel 1815, Henry vive quella che lui stesso ha chiamato la sua conversione. Si avvicina alla religione, diventando un convinto protestante anglicano. Il 29 Maggio del 1825 viene ordinato sacerdote, con l’incarico prima di tutor degli studenti e poi di parroco dell’università di St Mary, dove fino al 1843 svolge una intensa attività pastorale, riscuotendo consensi, soprattutto per la predicazione.
Negli anni trenta, aderisce all'Oxford Movement, che si proponeva di combattere il liberalismo teologico di chi intendeva privilegiare la ragione, a scapito della fede. Sono i primi passi di un progressivo cammino di avvicinamento al cattolicesimo, che si compirà il 9 Ottobre del 1845, assieme con altri compagni di strada. Nel 1846 l’arcivescovo di Westminster, Nicholas Wiseman, conosciuto nel suo viaggio in Italia del 1832, lo manda a Roma per approfondire la sua conoscenza del cattolicesimo. Qui, nel 1847, viene ordinato sacerdote cattolico. Tornato in patria, nel 1948, incoraggiato da Papa Pio IX, fonda in varie città inglesi l’Oratorio di San Filippo Neri. Nel 1854 invece si adopera per la nascita dell'Università Cattolica di Dublino. Per Newman, questo è un periodo di grandi difficoltà. Tutte le sue iniziative falliscono. La sua conversione ha suscitato sospetti e diffidenze tra anglicani e cattolici. L’attacco a cui è sottoposto lo confermano sulla bontà della sua scelta, tanto da giustificarsi con una ricca produzione di scritti, che alla fine gli varranno l’ammirazione dei suoi stessi avversari. E’ di questo periodo la sua “Apologia pro vita sua”.
Nel 1870, pur obiettando circa l’opportunità, difende la definizione dogmatica sull’infallibilità del Papa, guadagnandosi il plauso dei cattolici inglesi e romani. Vengono così a cadere i dubbi e le perplessità sorti attorno alla sua riflessione filosofica e teologica, tanto che nel 1879, Papa Leone XIII lo eleva alla dignità cardinalizia, soprattutto per i suoi meriti di studioso. Muore a Edgbaston l'11 agosto 1890 e sulla sua tomba fa scrivere: “Ex umbris et imaginibus in veritatem”, cioè, Dall’ombra e dalle immagini, alla Verità.
Nel panorama culturale attuale, dominato dal relativismo e dal soggettivismo più esasperati, Newman rimane un faro luminoso nella sincera ricerca della Verità. Il suo pensiero ancor oggi si distingue per lo straordinario equilibrio tra fede e ragione, dove l’una non è mai mortificata a favore dell’altra e viceversa. Fu prima di tutto un cristiano convinto e poi un grande educatore, che ha saputo coniugare insieme la formazione intellettuale dell’uomo con la disciplina morale e l’impegno religioso. Il suo punto di forza è sempre stata la sua grande umiltà, da cui non si è mai separato, sia nei momenti della prova, come negli onori degli ultimi anni di vita.
Don Marco Belladelli
Ottobre 2010.
Un padre (e una madre) nella tempesta
Uscito nelle librerie il 14 Luglio scorso, ai primi di Agosto era già alla sesta edizione. Sto parlando di “Caterina, diario di un padre nella tempesta.”, il libro edito da Rizzoli e scritto da Antonio Socci , noto giornalista e polemista cattolico, in cui si racconta il dramma che l’autore e la sua famiglia vivono da circa un anno a questa parte. La sera del 12 Settembre 2009, la figlia maggiore, Caterina, ventiquattrenne, prossima alla laurea in architettura, cade per terra per quello che sembra un inspiegabile arresto cardiaco (alla verifica dei fatti si accerterà trattarsi di una fibrillazione cardiaca). Soccorsa dai compagni di appartamento e portata al pronto soccorso, viene rianimata per più di un’ora. Quando ormai sembrava non esserci più nessuna speranza, improvvisamente il cuore riprende a battere. Il momentaneo sollievo, viene però subito oscurato dalle drammatiche prospettive per i danni cerebrali, dovuti alla prolungata mancanza di ossigenazione, che possono aver gravemente compromesso il futuro recupero di Caterina.
A tutt’oggi Caterina è ancora ricoverata in una cinica specializzata nel risveglio e nella riabilitazione di persone passate attraverso stati comatosi più o meno profondi e di varia durata.
Parallelamente racconta il suo risveglio a tutto ciò che dava per scontato, riscoperto in tutta la sua fondamentale importanza proprio nel momento in cui stai per perderlo. A cominciare dalla presenza e dalla conoscenza della figlia, da cui forse un po’ troppo frettolosamente si è staccato per rispetto verso la giovane donna, sempre più libera e autonoma.
Egli racconta anche la sua conversione. Un cristiano come lui, tutto d’un pezzo, a rischio dell’accusa d’integralismo, come può aver bisogno di convertirsi? Attraverso il travaglio del dolore, la sua fede va in cerca di approdi non di comodo o di circostanza, ma del vero Volto di quel Dio di Misericordia, che per amore ha sacrificato il suo unico Figlio. E allora, paradossalmente, il letto di Caterina diventa il centro del mondo, attorno a cui tutto gira, si trasforma e si purifica.
Sorprende come la narrazione si mantenga straordinariamente in equilibrio tra un realismo che non tradisce i fatti, il pudore dei sentimenti, senza mai scadere nella commiserazione, e il rispetto di sé e di tutti coloro che sono più o meno direttamente chiamati in causa, in primis la figlia Caterina. Anche chi si accosta con un pizzico di morbosa curiosità viene ricondotto alla cristiana compassione che si respira in ogni pagina, soprattutto attraverso la devozione a Maria, costantemente invocata non soltanto come potente dispensatrice di grazie, ma, per dirla con il grande Poeta:
“In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s’aduna
quantunque in creatura è di bontate”.
Don Marco Belladelli
Settembre 2010.
L’Europa è ormai terra di missione.
La sera del 28 Giugno 2010, durante l’omelia dei primi vespri per la festa dei Santi Apostoli, Pietro e Paolo, nella basilica di San Paolo fuori le mura, Benedetto XVI ha annunciato la costituzione di un nuovo Organismo della Curia romana “con il compito precipuo di promuovere una rinnovata evangelizzazione nei Paesi dove è già risuonato il primo annuncio della fede e sono presenti Chiese di antica fondazione, ma che stanno vivendo una progressiva secolarizzazione della società e una sorta di "eclissi del senso di Dio", che costituiscono una sfida a trovare mezzi adeguati per riproporre la perenne verità del Vangelo di Cristo”: il Pontifico Consiglio per la ri-evangelizzazione dell’Europa.
Prendendo spunto dal carisma di San Paolo, l’Apostolo delle genti, Benedetto XVI ha incentrato la sua riflessione sulla vocazione missionaria della Chiesa, elemento tanto fondamentale, che se venisse meno, sarebbe compromessa la sua stessa natura: “Guai a me se non annuncio il Vangelo! (1Cor 9,16)”. Ha poi ricordato la spiccata sensibilità missionaria dei suoi predecessori, Paolo VI e Giovanni Paolo II, i Papi che hanno ripreso l’antica tradizione dei viaggi apostolici, per sottolineare che il compito della Chiesa di portare il Vangelo a tutti gli uomini del mondo è tutt’altro che compiuto. Del resto, una delle ragioni che ha indotto Giovanni XXIII a convocare il Concilio Vaticano II era di interrogarsi su come annunciare il Vangelo nel mondo contemporaneo.
Anche se il Cristianesimo è la religione più diffusa, la maggioranza dei sei miliardi di donne e uomini che abitano il pianeta o non conoscono il Cristo o non l’hanno ancora accolto. In molti di coloro che l’hanno accolto manca convinzione e profondità di esperienza (i cosiddetti cristiani anagrafici). E soprattutto nei Paesi di antica tradizione cristiana da alcuni secoli è in atto un processo di secolarizzazione che ha prodotto una grave crisi di fede e di appartenenza alla Chiesa. Questo ultimo problema preoccupa particolarmente Benedetto XVI. Una sfida per la quale il Papa indica ai Cristiani europei la strada maestra della nuova evangelizzazione. “Nuova” non nei contenuti, ma nello slancio interiore, "nuova" nella ricerca di modalità che corrispondano alla forza dello Spirito Santo e siano adeguate ai tempi e alle situazioni; "nuova" perché necessaria anche in Paesi che hanno già ricevuto l’annuncio del Vangelo”.
Dopo oltre trent’anni di proclami sull’evangelizzazione è arrivato il momento di passare dalle parole ai fatti. Basta guardare ciò che succede nelle nostre parrocchie, dove nonostante l’evidenza che l’orizzonte sociale e culturale di cristianità condivisa nei valori e nei comportamenti sia una realtà del passato, ci si continua a comportare come se niente fosse successo, scendendo a volte a forme di compromessi al limite della decenza, pur di non creare rotture, conflitti e polemiche. Le resistenze vengono da coloro che in linea di principio si dicono d’accordo con la nuova evangelizzazione, ma nei fatti continuano a pensare e ad agire in un modo che di missionario non ha proprio nulla, perché, purtroppo loro malgrado, sono diventati più sensibili alle categorie sociologiche della democrazia, che non al genuino spirito evangelico. Allora avanti con la nuova evangelizzazione della vecchia Europa.
Don Marco Belladelli.
Agosto 2010
Nuovi Martiri: un Vescovo assassinato in Turchia
Giorni fa un amico si diceva stupito del fatto che la Santa Sede , per l’assassinio di Mons. Luigi Padovese, Vicario Apostolico per l’Anatolia e Presidente della Conferenza Episcopale turca, avesse accettato in prima battuta la versione della polizia locale, che ha addossato la responsabilità al giovane autista e ai suoi problemi psichici. Giovedì 3/06, verso le 13 ore locali, lo ha letteralmente sgozzato con un coltello nella sua casa di Iskanderun (l’antica Alessandretta), prima che mons. Padovese potesse raggiungere Cipro per partecipare alla visita del Papa. Pare che abbia agito per impulso di una “ispirazione” che gli diceva di uccidere il Vescovo. Agenzie di stampa indipendenti parlano invece di una vera e propria esecuzione, secondo il rituale del fondamentalismo islamico, che prevede la decapitazione dell’infedele. Dopo l’orrendo delitto, l’assassino sarebbe salito sul tetto per gridare la sua vendetta contro il grande satana. Pare anche che Mons. Padovese, consapevole del rischio che stava correndo, all’insaputa di tutti abbia addirittura annullato il viaggio a Cipro, per non mettere in pericolo la vita stessa del Santo Padre, a cui forse mirava il suo stesso attentatore.
Mons. Padovese, era biblista e teologo, specializzato in patristica. Anche se perfettamente conscio della distanza incolmabile che separa cristiani e mussulmani, negli anni del suo ministero in Anatolia aveva dedicato molto impegno al dialogo tra le due religioni, rivendicando pure, in nome del principio di reciprocità, la libertà di culto, ancor oggi negata. Mentre infatti nella costituzione si proclama l’uguaglianza di tutti i cittadini, di fatto non si riconoscono i diritti delle minoranze, in particolare dei cristiani, che sono costretti a vivere in una condizione di tollerata clandestinità, tanto che da una presenza di oltre due milioni prima del 1927, oggi se ne contano poche migliaia. L’ho costatato personalmente lo scorso anno durante un pellegrinaggio per i duemila anni della nascita di San Paolo. Chiese ridotte a museo e le piccole comunità religiose presenti, le più di origine italiana, impedite a fare qualsiasi azione di annuncio, anche verso chi si accostasse alla Chiesa liberamente, pena l’arresto e la detenzione. Per l’Islam infatti non c’è libertà di coscienza. I mussulmani la rivendicano per sé in Occidente, mentre dove loro sono maggioranza non la concederanno mai, perché significherebbe contraddire l’unicità del loro dio.
Tornato da Cipro il Papa nell’udienza del 9/06, ricordando con dolore la morte di Mons. Padovese, non ha più fatto riferimento alla versione dei fatti in un primo tempo accettata soltanto per evitare strumentalizzazioni della sua visita a Cipro, il suo fallimento e soprattutto scongiurare un bagno di sangue, evocato da Benedetto XVI stesso come una sciagura inevitabile, se in Medio Oriente non si raggiungerà al più presto un durevole accordo di pace.
Il nome di Mons. Luigi Padovese va ad aggiungersi a quello di don Andrea Santoro e a tutti gli altri Martiri che in questi ultimi anni in terra turca hanno pagato con il sangue la loro fedeltà a Cristo. Se per l’Occidente non è più il tempo delle crociate, non si può nemmeno tollerare la quiescenza colpevole, che alla lunga metterà in crisi i fondamenti stessi della nostra convivenza civile.
Don Marco Belladelli
Luglio 2010
Benedetto XVI a Fatima
Fatima non è Lourdes. Per la Chiesa sono entrambi luoghi di apparizioni mariane ufficialmente riconosciute. Se però la cittadina francese è diventata da centocinquanta anni a questa parte un centro spirituale di consolazione e di speranza per milioni di uomini e di donne, di tutte le nazioni e i continenti, soprattutto per le persone malate, Fatima, con i suoi tre famosi segreti, ha assunto una rilevanza intrigante ed inquietante non soltanto dal punto di vista religioso, ma anche da quello politico. Sì, perché la Madonna a Fatima, quando ha parlato di guerre che finivano, di altre ancor più terribili che sarebbero seguite, di nazioni da consacrare al suo Cuore Immacolato, per rimediare ai danni che avrebbero causato all’umanità intera, e del martirio di un Papa in un contesto mondiale di distruzione e di morte, come si usa dire oggi, significa che è scesa in campo in prima persona per dire la sua su come vanno e su come dovrebbero andare le cose nel mondo.
Benedetto XVI è il terzo Papa che si reca a Fatima in pellegrinaggio e che si confronta con queste realtà soprannaturali. Prima di tutto le ha definite come un “impulso” datoci direttamente dal cielo per accogliere e vivere meglio quanto il Signore Gesù ci ha già insegnato nel Vangelo. E a chi gli chiedeva in particolare del significato e dell’interpretazione del famoso terzo segreto, reso pubblico nel 2000, in occasione del Grande Giubileo e della beatificazione di due pastorelli veggenti, Giacinta e Francesco, ha risposto che la visione della grande sofferenza del Papa, riconosciuta in prima istanza già realizzatasi ed esaurita nell’attentato a Giovanni Paolo II, riguarda invece tutto il futuro della Chiesa. Ma quello che ancor più colpisce è quando afferma che queste sofferenze, prima ancora che dall’esterno, vengono dall’interno della Chiesa stessa: “Anche questo si è sempre saputo, ma oggi lo vediamo in modo realmente terrificante: che la più grande persecuzione della Chiesa non viene dai nemici fuori, ma nasce dal peccato nella Chiesa e che la Chiesa quindi ha profondo bisogno di ri-imparare la penitenza, di accettare la purificazione, di imparare da una parte il perdono, ma anche la necessità della giustizia”.
Tre sono le cose che mi sembra importante sottolineare. Prima di tutto che il famoso terzo segreto non si è ancora pienamente realizzato, ma che il suo compimento riguarda sia il nostro presente che il futuro. Secondo punto: per la Chiesa si preannunciano tempi di sofferenza. Una sofferenza che non sarà soltanto sua, ma che naturalmente interesserà tutta l’umanità nel suo insieme. Il terzo aspetto ancor più sorprendente è sentire un Papa indicare nel peccato stesso della Chiesa la causa prima di questa sofferenza e il nemico principale da sconfiggere, attraverso un cammino di penitenza, di purificazione, di perdono e anche di giustizia. Alla fine ciò che più preoccupa il Papa non sono tanto le cose più o meno drammatiche che devono accadere, quanto piuttosto la difficoltà dell’uomo di oggi, specialmente di coloro che si dicono credenti e praticanti, a cominciare da frati, suore, preti e vescovi, ad accettare questo “profondo bisogno” e a sottomettersi ad un regime, non formale, ma sostanziale di giustizia, di perdono, di purificazione e di penitenza. Senza l’aiuto di Maria Santissima, saremmo davvero perduti.
Don Marco Belladelli
Giugno 2010
I primi cinque anni di Benedetto XVI
Nel quinto anniversario dell’elezione di Benedetto XVI, molti lo hanno esaltato, qualcuno ancora avanza riserve. Lasciando perdere chi non gli perdona di essere tedesco, è paradossale che le critiche aumentino quando ha ragione. Dà fastidio la franchezza con cui fin dall’inizio del suo pontificato ha additato i danni del relativismo e del soggettivismo culturale ed etico dei nostri tempi. E’ il caso, per esempio, della lobby gay, che lo vede come uno dei principali nemici alle loro battaglie di emancipazione. Le multinazionali considerano la sua autorità morale, universalmente riconosciuta, un ostacolo all’espansione della loro egemonia economica sovranazionale. I cosiddetti intellettuali laici di destra e di sinistra, a corto di argomenti, gli rimproverano invece di non essere come Giovanni Paolo II. Purtroppo molti hanno dimenticato le tante critiche mosse a Papa Woityla negli anni ottanta. Basta ricordare l’irriguardoso Woitylaccio del futuro premio Oscar, Roberto Benigni, e Il Pap’Occhio di Renzo Arbore, film parodia, dove Giovanni Paolo II ne esce come un fanatico, malato di narcisismo.
Nonostante la malizia con cui lo si paragona al suo predecessore per sminuirne carisma e personalità, a cinque anni dalla sua elezione, Benedetto XVI continua ad avere un seguito senza precedenti. Decine di migliaia di persone ogni settimana vanno a Roma per ascoltarlo alle udienze del Mercoledì, all’ Angelus della Domenica, o in occasione delle sue comparse pubbliche. Il suo libro, “Gesù di Nazareth” è diventato un best seller in tutto il mondo. Le sue encicliche sono andate a ruba. Per non parlare di tante altre pubblicazioni minori, come discorsi di viaggi e non, omelie e catechesi. All’interno della Chiesa suo primo impegno è dare compimento al processo di rinnovamento iniziato negli anni sessanta con il Concilio Vaticano II, per rimediare a quelli che egli stesso ha definito “fraintendimenti”, diventati nel tempo causa di abusi, a volte addirittura veri e propri scandali, tra coloro che hanno interpretato questo avvenimento non nel segno della continuità, ma della rottura. Un altro aspetto di vita della Chiesa a cui si è dedicato con altrettanto fervore è l’ecumenismo, per riportare quanto prima tutte le Chiese sparse nel mondo, soprattutto quelle Orientali, all’unità dei primi mille anni di storia del Cristianesimo. Parallelamente al dialogo ecumenico, si sono intensificati anche gli incontri con i rappresentati delle altre religioni, in particolare con gli Ebrei e i Mussulmani. Il dialogo interreligioso è un importante strumento per rafforzare nella comunità internazionale le ragioni della pace, sempre troppo deboli, rispetto agli interessi che innescano i numerosi conflitti armati, presenti oggi nel mondo. Ratzinger verrà anche certamente ricordato come il Papa della “ragione”. Per ovviare alla confusione causata dalle ideologie e dalle mode di pensiero debole, ha posto al centro del dibattito culturale il problema della razionalità, come misura del vero umanesimo, su cui costruire le basi di speranza per il futuro dell’umanità.
Se qualcuno non se ne fosse ancora accorto, stiamo vivendo una altra grande pagina di storia che va ad integrarsi perfettamente con quella, certamente straordinaria, che si è appena conclusa con Giovanni Paolo II.
Don Marco Belladelli
Maggio 2010
La Sindone, uno degli ‘oggetti’ più misteriosi della storia umana, non finisce mai di stupire. La storica viterbese e pure ufficiale dell’archivio segreto vaticano, Barbara Frale, nel suo ultimo volume, La Sindone di Gesù Nazareno, pubblicato qualche mese fa da Il Mulino di Bologna, uno studio dedicato interamente al sacro lino, rivela l’ennesima sensazionale scoperta. Con l’aiuto delle moderne tecnologie dice di essere riuscita ad interpretare le scritte presenti sul lenzuolo funebre, note già dal 1978. Sarebbero una specie di certificato di morte, redatto secondo le usanze del primo secolo dell’era cristiana. Un’ulteriore prova a favore della sua autenticità, contro tutti i detrattori che continuano a ritenerla un falso (vedi il recente, maldestro tentativo dell’UAAR e del CICAP di ricostruirne una copia in laboratorio).
A definirla “una sfida per la scienza” e “per i credenti un grande segno della passione di Cristo” era stato Giovanni Paolo II durante il suo pellegrinaggio a Torino in occasione dell’ostensione del 1998. A dieci anni di distanza da quella straordinaria del grande giubileo del 2000, la prossima ostensione si svolgerà dal 10 Aprile fino al 23 Maggio di quest’anno. Chi ancora non l’ha vista, né venerata, avrà modo almeno una volta in vita di confrontarsi direttamente con questo vero e proprio mistero, da qualsiasi punto di vista lo si guardi.
A considerare la Sindone un problema per la scienza si è cominciato tutto sommato molto recentemente. Precisamente da quando, poco più di un secolo fa, l’allora re d’Italia, Umberto I, si convinse a farla fotografare. Era il 1898 e l’incaricato, l’avvocato Secondo Pia, esperto anche di fotografia, superate le non poche difficoltà tecniche, quali per esempio i problemi delle dimensioni e dell’illuminazione, allo sviluppo delle lastre con suo grande stupore costatò l’apparire di un’immagine perfettamente positiva. Insomma, era accaduto esattamente il contrario di quello che succede abitualmente, quando si scatta una foto. Dopo quella foto, la scienza ha recuperato il tempo perduto, interessandosi alla Sindone con una quantità smisurata di studi ed esperimenti di varia natura, tanto da dare origine ad una nuova, vera e propria branca del sapere, che va sotto il nome di sindonologia, in cui si raccolgono tutti vari contributi con i quali si cerca di svelare i suoi innumerevoli e fino ad oggi insolubili enigmi.
La Sindone è una stoffa di lino, alta 1,10 e lunga 4,35 metri , tessuta a mano, a spina di pesce, un articolo ricercato e costoso per il tempo a cui la si fa risalire. Su di essa appaiono molto evidenti due linee parallele scure. Sono le tracce delle bruciature e dei vistosi rattoppi a forma triangolare o romboide, risalenti al 1534 ed opera delle clarisse incaricate di riparare i danni causati dall’incendio della cappella di Chambéry di due anni prima, dove era custodita. In mezzo a queste due linee sono visibile due impronte di una figura umana, una frontale e l’altra dorsale. Si tratta di un uomo, con capelli lunghi, barba, baffi e le mani raccolte sul pube, postura che lascia pensare ad una composizione funeraria. Il colore generale è assimilabile ad un giallo-ocra di varia intensità, come se si trattasse di un immagine in rilievo, tridimensionale. Ciò che ancor più stupisce è l’illuminazione, che non è né frontale, né laterale, né in trasparenza. Le chiazze più scure sono macchie di sangue: sulla fronte, sul petto a destra, sul polso sinistro e sul collo del piede destro, e molte altre meno evidenti su tutto il corpo. Tutti i particolari nel loro insieme sono riconducibili alla morte violenta di un condannato alla crocifissione, in tutto e per tutto simile a quella che ha subito Gesù, così come viene descritta nei vangeli.
Custodita nel duomo di Torino dal 1578, è stata proprietà dei Savoia fino al 1983, quando alla sua morte il re, Umberto II, la donò al Santo Padre. Per conservarla adeguatamente i Savoia fecero costruire dal Guarini una cappella che collegasse il palazzo reale con il duomo. Ne erano entrati in possesso nel 1453, comprandola da Margherita di Charny, la cui famiglia ne era proprietaria da circa un secolo. Andando sempre indietro nel tempo, per un secolo e mezzo se ne perdono le tracce. Molto probabilmente il suo percorso ha incrociato quello altrettanto travagliato dei Templari, religiosi guerrieri che si diceva venerassero una misteriosa icona di Cristo, non fatta da mano d’uomo, visibile soltanto da parte di pochi eletti. Probabilmente essi ne vennero in possesso nel 1202, durante la quarta crociata quando, insieme ai Veneziani, misero a ferro e fuoco Costantinopoli e sottrassero la preziosa reliquia all’imperatore. Con certezza sappiamo che era arrivata a Costantinopoli nel 943, quando l’imperatore Romano I la fece prelevare da Edessa. Per gli altri novecento anni di storia che ci ricollegano agli eventi evangelici, dobbiamo accontentarci soltanto di qualche indizio letterario, o poco più. Notizie di tutt’altra natura ce le offre la beata Anna Katharina Emmerick. Nelle sue visioni della passione del Signore Gesù, racconta che il terzo anno dopo l’ascensione, il lenzuolo con impresso l’immagine del corpo del Signore Gesù fu portato dalla Veronica a Roma, fin davanti all’imperatore Tiberio gravemente malato, il quale alla sua vista guarì immediatamente. In seguito, per sfuggire alle persecuzioni contro i cristiani scoppiate a Gerusalemme, l’apostolo Taddeo portò la preziosa reliquia ad Edessa, dove, si dice, si verificassero per mezzo suo numerosi miracoli.
Il suo valore e il suo significato rimane comunque prioritariamente religioso, come è stato fin dalla sua origine. Pur non essendoci ancora la prova provata che in quel lenzuolo sia stato avvolto il cadavere di Gesù, per il cristiano quelle inspiegabili impronte continuano a narrare inequivocabilmente la passione del Signore in tutta la sua drammaticità umana e potenza salvifica. Una sofferenza ancora oggi viva, presente e capace di toccare in profondità il cuore dell’uomo, fino a muoverlo a conversione. Buona Pasqua!
Aprile 2010
La Quaresima, il profeta Giona
e la conversione di Ninive.
Indipendentemente dalla data della Pasqua, che sappiamo essere mobile, perché calcolata secondo il calendario lunare e non quello solare, Marzo è sempre il mese quaresimale per eccellenza. E Quaresima nell’immaginario collettivo è sinonimo di penitenza e conversione. Essa inizia con il segno austero delle ceneri, che vengono a smorzare gli schiamazzi carnevaleschi. Dura quaranta giorni, lo stesso tempo passato da Gesù nel deserto, dove con preghiere e digiuni si è preparato ad affrontare la sua salvifica missione tra gli uomini, e dove alla fine è stato pure tentato da satana. Si conclude con la settimana santa, quando si celebrano i giorni della passione, morte e risurrezione del Signore Gesù.
Penitenza, digiuno, tentazioni, sofferenza. Sono tutte esperienze umane fortemente dissonanti con il contesto culturale del nostro tempo, più preoccupato ad emancipare l’uomo da quelle realtà che, secondo un certo modo di sentire odierno, umiliano e mortificano la sua dignità e la libertà individuale, prima fra tutte la religione. Insomma anche nella Quaresima si riassume e si esprime quel contrasto irriducibile esistente tra la cosiddetta modernità e il cristianesimo, contrasto che oggi ha raggiunto, soprattutto sul piano culturale, forme di asprezza mai conosciuti nei precedenti duemila anni di storia.
Nella varietà delle esperienze umane raccolte nella Bibbia, c’è un piccolo libro, il libro di Giona, ai più forse poco noto, nel quale sotto forma di parabola si racconta del rapporto di due mondi altrettanto inconciliabili tra loro: da una parte il religioso Israele, rappresentato appunto dal profeta Giona, e dall’altra il paganesimo assoluto di Ninive, la città simbolo del peccato umano, capitale dell’impero assiro, il più sanguinario che la storia antica abbia conosciuto. Scritto quasi certamente negli anni successivi all’esilio babilonese del popolo ebraico, cioè dopo il 530 a .C., racconta di una improbabile, quanto sorprendente missione divina del profeta a Ninive, per invitarne gli abitanti alla conversione, pena, entro quaranta giorni, la distruzione della città stessa. Parliamo di una missione sorprendente ed improbabile, perché raro esempio biblico di un profeta inviato ad un popolo pagano. Tant’è che Giona elude il comando divino e invece di dirigersi ad est, verso Ninive, s’imbarca e fugge nella direzione opposta. Nella resistenza di Giona è rappresentata la presunzione d’Israele. Nella sua qualità di popolo eletto si sente l’unico ed esclusivo interlocutore del vero Dio tra gli uomini e chi vuole salvarsi deve seguire la via della legge mosaica.
Alla fine gli eventi, divinamente orientati, costringono Giona ad andare a Ninive, che con sua grande sorpresa e disappunto accoglie l’invito alla conversione: “I cittadini di Ninive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, dal più grande al più piccolo. Giunta la notizia fino al re di Ninive, egli si alzò dal trono, si tolse il manto, si coprì di sacco e si mise a sedere sulla cenere. Poi fu proclamato in Ninive questo decreto, per ordine del re e dei suoi grandi: “Uomini e animali, grandi e piccoli, non gustino nulla, non pascolino, non bevano acqua. Uomini e bestie si coprano di sacco e si invochi Dio con tutte le forze; ognuno si converta dalla sua condotta malvagia e dalla violenza che è nelle sue mani. Chi sa che Dio non cambi, si impietosisca, deponga il suo ardente sdegno sì che noi non moriamo? ”. Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si impietosì riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece.” (3,5-10). Invece di rallegrarsi per il suo successo, per la conversione dei Niniviti, Giona è fortemente contrariato e se la prende con Dio per la sua misericordia: “Signore, non era forse questo che dicevo quand’ero nel mio paese? Per ciò mi affrettai a fuggire a Tarsis; perché so che tu sei un Dio misericordioso e clemente, longanime, di grande amore e che ti lasci impietosire riguardo al male minacciato. Or dunque, Signore, toglimi la vita, perché meglio è per me morire che vivere! .” (4,2-3).
Il messaggio centrale del libro di Giona è l’annuncio profetico della salvezza dei pagani ad un Israele incredulo. Anzi, come dice Gesù nel Vangelo (cfr Mt 8,11ss), essi li precederanno nella fede nell’unico Dio. Quello che invece mi interessava sottolineare è il verificarsi di ciò che si credeva impossibile, l’incontro cioè di due realtà apparentemente distanti e dal punto di vista umano assolutamente inconciliabili, come è stata la fede nel Dio d’Israele dei paganissimi Niniviti. E, ritornando ai pensieri iniziali, è proprio su questo “improbabile” incontro tra due realtà tanto diverse, che vorrei fare le mie ultime riflessioni.
Di fronte all’emarginazione di Dio dall’orizzonte della vita umana a livello personale, culturale e sociale, soprattutto in Europa e nell’Occidente in genere (fenomeno che non ha ancora raggiunto il suo apice nella nostra Italia, ritenuta l’ultimo e l’estremo baluardo da conquistare), come Giona, che avrebbe preferito la distruzione di Ninive alla sua conversione, c’è chi oggi sarebbe tentato d’invocare il castigo divino per gli oppositori di Dio, piuttosto che la loro conversione. D’altra parte non possiamo permetterci che il principio dell’universalità della misericordia divina si trasformi in un messaggio superficiale, tanto da diventare il pretesto per un relativismo e un’indifferenza morali diffusi. Tocca a Dio allora prendere l’iniziativa per toglierci da questo imbarazzo, perché sarà il suo modo di agire per amore dell’uomo a sorprenderci, come ha sorpreso prima il profeta Giona, e con lui tutto Israele, e poi i Niniviti, che alla fine si convertirono dall’infamia del loro peccato. La serietà con cui si vive la Quaresima, nella penitenza per un sincero pentimento, sarà il segno di ciò che è necessario e di ciò che stiamo attendendo per la salvezza di tutti.
Marzo 2010
E’ una questione di vita o di morte!
Un anno fa, esattamente il 9 Febbraio 2009, moriva nella clinica Città di Udine Eluana Englaro, dopo essere stata forzatamente privata della nutrizione e dell’idratazione artificiale, per volontà del padre, autorizzato dalle competenti autorità giudiziarie. Il caso, che ha diviso l’Italia in una polemica aspra e lacerante, ha avuto come protagonista unico ed irriducibile il signor Beppino Englaro, il quale dopo l’incidente stradale del 18 Gennaio 1992, causa dello stato vegetativo persistente di Eluana, ha condotto una estenuante battaglia legale perché si lasciasse morire la figlia, motivata da una presunta, e mai dimostrata, volontà espressa da Eluana stessa. Ricordiamo tutti la provocatoria raccolta di bottiglie d’acqua sul sagrato del Duomo di Milano, promossa da Giuliano Ferrara e dal suo quotidiano “Il Foglio”, come pure lo scontro istituzionale tra Presidenza della Repubblica e Governo a proposito del decreto d’urgenza emanato dal Consiglio dei Ministri per salvare la vita di Eluana e mai entrato in vigore, perché il Presidente Napolitano rifiutò la controfirma.
Dopo queste travagliate vicende, il Parlamento ha deciso di porre mano ad una legge sul fine vita, dal titolo: “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento”. Questa legge, più comunemente conosciuta come del testamento biologico o di vita, dopo un primo passaggio molto burrascoso al Senato, arriverà nei prossimi mesi alla Camera dei Deputati, dove il dibattito si preannuncia fin da ora ancor più focoso. Nonostante il tentativo del legislatore di mescolare le carte, allargando l’orizzonte a vari temi, come l’alleanza terapeutica e il consenso informato, due rimangono i punti davvero centrali della questione: 1. le dichiarazioni anticipate di trattamento, 2. come regolarsi nel caso di un soggetto incosciente, lo si lascia morire o lo si cura perché continui a vivere, eventualmente anche contro o a prescindere da una volontà precedentemente manifestata. Questo secondo aspetto riguarda esclusivamente il medico, in quanto s’intende regolarne il comportamento, quando si trova di fronte ad un paziente in grave pericolo di vita e incapace in alcun modo di esprimersi. Infatti all’art. 1 lettera f) la legge “garantisce” che “in caso di pazienti in stato di fine vita o in condizione di morte prevista come imminente, il medico debba astenersi da trattamenti sanitari straordinari, non proporzionati, non efficaci o non tecnicamente adeguati rispetto alle condizioni cliniche del paziente od agli obiettivi di cura.” Come si evince dal testo, non si parla più di accanimento terapeutico, ma, con la “garanzia” legalmente tutelata, si fa assoluto divieto al medico di praticare un qualsiasi tipo di intervento finalizzato a mantenere in vita questi soggetti. Di fatto si stanno creando i presupposti per introdurre in modo tacito e strisciante l’eutanasia passiva, per tutti quei casi dove fino ad oggi ci si è comportati esattamente al contrario, senza che qualcuno abbia mai neanche lontanamente pensato all’accanimento terapeutico.
A questo proposito vi racconto un episodio vissuto in prima persona nella mia esperienza ospedaliera. Una donna di quarant’anni, madre di due figli, sottoposta ad intervento chirurgico d’urgenza, dal quale era uscita in condizioni disperate, tanto che il marito era già pronto a firmare il consenso per la donazione degli organi e il fratello, tra l’altro lui pure medico, nella sala d’attesa della rianimazione inveiva contro l’accanimento terapeutico, a suo dire, praticato dai colleghi che avevano in cura la sorella. Il rianimatore di turno non volle sentire ragione e si piazzò per 24 ore ininterrottamente accanto al letto della paziente. Ad distanza di oltre dieci anni da quei fatti, la signora oggi gira ancora per Roma e gode di ottima salute. Se ci si fosse attenuti alle “garanzie” della legge in discussione in Parlamento, il medico avrebbe dovuto soltanto prepararsi a firmare il certificato di morte.
Per quanto riguarda invece le Dichiarazioni Anticipate di Trattamento (le DAT), cioè il tanto reclamato “Testamento di vita”, il punto fondamentale si cui si sta discutendo è quello di non creare le condizione per una “disponibilità” della vita equivalente ad un suicido assistito o addirittura a vere e proprie pratiche di eutanasia attiva. Tanto per rifarci ai recenti casi mediatici, manipolati ad arte per suscitare nell’opinione pubblica quell’emotività incontrollata che ben conosciamo, a scapito della doverosa razionalità, necessaria in materia, ci si chiede: è giusto staccare il respiratore, come è successo per Giorgio Welby? È giusto interrompere l’idratazione e la nutrizione, come è stato autorizzato per Eluana? L’altro problema legato alle DAT è: com’è possibile informare in modo completo ed esauriente una persona sana, che vuole stilare il proprio testamento biologico, di tutto quello che gli può capitare, perché decida ora che cosa eventualmente accettare o rifiutare delle possibili cure a cui sarà sottoposta? E’ vero che la legge prevede la possibilità di modificare o ritirare del tutto le proprie disposizioni. Ma come si fa a vivere pensando continuamente a come vorremmo morire? Chi ci garantisce poi che in caso di malattia grave, invece di essere curati, non verremo immediatamente inclusi tra coloro da lasciar morire, prima ancora di tentare tutto il possibile per salvarli? Anche perché il legislatore ha previsto la figura del “fiduciario”, cioè colui che deve tutelare il paziente incosciente, perché non si agisca in contrasto con quanto egli ha disposto. Insomma una specie di cane da guardia, da sguinzagliare contro i medici.
Quanto è stato fin qui detto, credo basti a suscitare quella benedetta inquietudine, capace di smuovere la nostra inerzia ad interessarsi accuratamente di quanto vogliono propinarci i nostri politici. Per un ulteriore approfondimento sul tema, vi invito a visitare il sito del Comitato Verità e Vita (www.comitatoveritaevita.it). Perché questa volta è davvero una questione di vita o di morte.
Febbraio 2010
Anno nuovo, vita nuova!
“Anno nuovo, vita nuova!”. Non lo dico per coloro che con gesto scaramantico, allo scoccare della mezzanotte del 31 Dicembre hanno buttato dalla finestra piatti, bicchieri e quant’altro per propiziarsi il futuro prossimo, ma per introdurre la storia di personaggi più o meno famosi che in tempi recenti hanno vissuto nella propria vita un cambiamento tanto radicale quanto improvviso, insomma una vera e propria conversione, ritrovando quella fede in Dio, per anni trascurata, fino a smarrirla nei meandri delle umane vicende.
Cominciamo da Nicola Legrottaglie, calciatore trentatreenne della Juventus. In questi ultimi mesi spesso le telecamere si sono fermate sulla maglietta esibita nel cosiddetto terzo tempo, al termine delle partite, quando spesso i giocatori si tolgono le casacche societarie. Sulla sua c’era scritto: “Io appartengo a Gesù”. In un libro edito da PIEMME, curato dal giornalista Matteo Orsucci e uscito in libreria la primavera scorsa racconta la sua storia. Nei traguardi e nei successi raggiunti, prima dei sacrifici e delle sue abilità sportive, vede la mano di Gesù, che lo ha sempre accompagnato. “Lui, la sua parte l’ha fatta, ora tocca a me”, dice Nicola, riferendosi all’impegno di testimonianza di cui si sente debitore verso Dio per tutto il bene che ha ricevuto.
Era il 2 Febbraio 2009, quando un SMS dell’amico Mika di Medjugorie, mi chiede se conosco Paolo Brosio. E aggiunge: “E’ tutto il giorno che sono con lui e non fa che piangere”. Qualche giorno dopo la storia della conversione di Brosio, il giornalista diventato famoso ai tempi di Mani pulite per le angherie subite da Emilio Fede, sta su tutti i giornali. Che cosa è successo? “Stavo sull’abisso e Dio mi ha tirato fuori. Mio padre era morto dopo 50 giorni d’agonia, mi avevano bruciato il locale, mia moglie era incinta di un altro, uno che conoscevo, che vedevo tutti i giorni sulla spiaggia. Sulla mia spiaggia, … ero disperato. E la disperazione porta ad atti scellerati: potevo prendere un bastone e spaccare la testa a quello là, e invece ho preferito fare male a me stesso”. Sesso, alcool e coca fino allo stordimento più totale, quando nel più bello sente dentro di sé una voce che gli dice: “Prega, dì un’Ave Maria” e poi tutto cambia. Anche Paolo Brosio ha deciso di raccontare la sua storia in un libro uscito a Novembre sempre per PIEMME, “A un passo dal baratro - Perché Medjugorje ha cambiato la mia vita”.
Daniela Rosati, per chi non la ricordasse, era la moglie di Adriano Galliani, il vice-Presidente del Milan. Dopo due divorzi, si reinventa conduttrice televisiva di “Tutto benessere” su Rai 1. Da tempo aveva abbandonato la fede cristiana per il buddismo, quando cinque anni fa per lavoro visita il monastero delle Brigidine a Roma, in piazza Farnese. In un’intervista racconta: “Quando sono arrivata nella stanza di santa Brigida … ho visto che c'era una reliquia della santa … Mi faceva anche un po' impressione. Arrivato il mio turno ho toccato con il palmo della mano l'asse (su cui è morta la santa) e in quel momento sono caduta in ginocchio, senza che lo volessi, con le braccia raccolte. Subito ho temuto di essermi rotta le ginocchia perché ho sentito un grande rumore provocato dalla caduta. Però non avevo male. … Un istante dopo ho visto arrivare da un angolo della stanza una grande luce che mi è entrata nella testa e in mezzo a questo cono di luce c'era la scritta: ‘Castità’… Ho subito capito che si trattava della ‘chiamata’, che stavo ricevendo un dono incredibile e che avrei dovuto ubbidire a quella luce”.
Per allargare gli orizzonti oltre i confini nazionali, qualche mese fa il giornalista veronese, Lorenzo Fazzini, ha pubblicato un libro dal titolo “Nuovi cristiani d’Europa” edito da Lindau, nel quale si racconta di dieci intellettuali europei convertitisi al cristianesimo, in controtendenza con quell’ideologia dominante, che nel 2004 ha rifiutato di menzionare le radici cristiane nel preambolo della nuova costituzione europea, e che recentemente ha ingiunto all’Italia di togliere i crocifissi dalle aule scolastiche. Gli intervistati sono lo scrittore Éric-Emmanuel Schmitt, il filosofo Fabrice Hadjadj, il critico Joseph Pearce, il cantautore rock Giovanni Lindo Ferretti, la sociologa Gabriele Kuby , lo scrittore Jean-Claude Guillebaud, la diplomatica norvegese Janne Haaland Matlary, l’accademico prestato alla politica, Marcello Pera, e i giornalisti John Waters e Marco Tosatti. Ciascuno ha fatto un suo proprio percorso. C’è chi è arrivato alla fede dopo un lungo cammino di ricerca, altri invece sono rimasti, come dire, folgorati o, se si preferisce, sedotti da Cristo.
A questo punto mi corre l’obbligo di ricordare il battesimo del giornalista, oggi parlamentare europeo, l’egiziano Magdi Cristiano Allam. Battesimo celebrato solennemente dal Papa stesso nella basilica di S. Pietro nella Pasqua 2008, per evidenziare un fenomeno che non trova riscontro sui mezzi di informazione, ma non per questo meno reale. Mi riferisco all’abbandono dell’Islam per il Cristianesimo. Si parla di 667 islamici all’ora, 16mila al giorno, 6 milioni all’anno che si fanno cristiani. Le autorità musulmane, allarmate dai grandi numeri, tendono ad inasprire la repressione, che per gli apostati già prevede la condanna a morte, senza riuscire a frenare l’esodo verso la Chiesa.
Dio è da sempre l’unica vera e grande novità della storia e per la vita di ciascuno. Incontrarlo o ritrovarlo in un modo così diretto e personale, come nei casi raccontati, ha dei risvolti molto più ampi del semplice orizzonte individuale. Se, come dice il Vangelo, basta un pizzico di lievito per far fermentare tutta la pasta (cfr Matteo 13,33), questi ritorni alla fede sono certamente di buon auspicio per tutti. Buon 2010 a tutti!
Gennaio 2010.
Il recente vertice della FAO sull’alimentazione, svoltosi a Roma dal 16 al 18 Novembre scorso, conclusosi a giudizio di molti con un nulla di fatto, ha comunque riportato di nuovo all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, e anche nostra, il grave problema della FAME NEL MONDO. Bastano pochi dati per constatarne la drammaticità. Parliamo di più di un miliardo di persone malnutrite. Di questa sesta parte della popolazione mondiale, ogni anno ne muoiono più di cinquanta milioni, una persona, soprattutto bambini, ogni cinque secondi. Negli ultimi anni, per varie ragioni, tra cui anche l’attuale crisi economica, la situazione si è sempre più deteriorata.
Gli organi di stampa nazionali ed internazionali hanno parlato di fallimento ancora prima di iniziare, per la prevista assenza dei grandi del mondo, a cominciare da Obama. E’ vero che in prima battuta tocca a loro farsi carico del problema, ma senza di loro non si può far proprio nulla? In risposta alle critiche hanno detto di aver già fatto il loro dovere, affrontando il problema a L’Aquila, durante gli incontri del G8 di Luglio, dove sono stati stanziati 20 miliardi di dollari per il prossimo triennio. Ad attirare l’attenzione dei mass media ci ha pensato allora l’ormai immarcescibile direttore generale della FAO, Jacques Diouf, con il suo annunciato sciopero della fame di 24 ore alla vigilia del vertice. Un gesto tanto inutile, quanto inopportuno. Avrebbe certamente riscosso molto più consenso, se avesse devoluto alla nobile causa della fame nel mondo uno giorno di lavoro del suo favoloso stipendio e sollecitato tutti i super pagati funzionari e dipendenti della FAO a fare altrettanto. Chissà perché non ci ha pensato? Alla fine, anche la sua principale richiesta di 44 miliardi di dollari necessari, a suo dire, per risolvere il problema, scopo fondamentale del vertice, è rimasta lettera morta. Le trovate di Jacques Diouf non sono bastate per distrarre i giornalisti dall’inseguire le varie delegazioni in giro per Roma tra piazza di Spagna e via Condotti, occupatissime nello shopping milionario nei più costosi negozi della capitale. A completare l’opera, del distogliere l’attenzione del mass media dal vertice FAO, ci ha pensato il dittatore libico, Gheddafi, con le sue sceneggiate. Sembra abbia ormai eletto Roma a suo set privato. Questo è quello che è avvenuto fuori.
Per fortuna dentro il palazzo della FAO, qualcuno che si è occupato seriamente della fame del mondo c’è stato, a cominciare dal Segretario Generale dell’ONU, Ban Ki-moon, il quale ha collegato il problema della malnutrizione con quello del clima, affermando che “Non può esserci sicurezza alimentare senza sicurezza climatica”, introducendo così un altro tema delicatissimo, che verrà affrontato prossimamente in un summit a Copenaghen. Il contributo più importante è stato senza dubbio quello di Papa Benedetto XVI. La sua presenza ha richiamato tutti a fare del problema della fame una priorità assoluta, rispetto a qualsiasi altra urgenza umana e sociale. Citando ripetutamente la sua ultima enciclica “Caritas in Veritate” sullo sviluppo umano integrale, con il suo intervento a voluto scuotere le coscienze di fronte allo scandalo non più tollerabile di oltre un miliardo di persone che non hanno il necessario per nutrirsi, e indurre istituzioni e singoli cittadini a quelle scelte concrete ed immediate, dalle quali dipende la soluzione del problema. Prima di tutto ha affermato con chiarezza che nonostante la crisi economica, oggi, come ieri, “la terra può sufficientemente nutrire tutti i suoi abitanti.”. Ha coraggiosamente detto Basta! con una solidarietà, funzionale soltanto a colui che mette a disposizione le risorse; e che non può essere la cooperazione internazionale a risolvere il problema della disuguaglianza, perché esso va risolto a livello di principio, riconoscendo al povero la stessa dignità che si riconosce al ricco. Ha poi aggiunto che è necessario “capire le necessità del mondo rurale”, rispettarne le esigenze e favorirne lo sviluppo, e che l’alimentazione e l’accesso all’acqua sono diritti fondamentali della persona. Se è vero che per favorire lo sviluppo agricolo è necessario tutelare l’ambiente, il Papa ha ancora una volta ricordato lo stretto e diretto rapporto esistente tra natura e cultura: “il degrado della natura è… strettamente connesso alla cultura che modella la convivenza umana: quando l'«ecologia umana» è rispettata dentro la società, anche l'ecologia ambientale ne trae beneficio”. Ha poi concluso con un duro monito contro lo scandalo dello spreco, che grida vendetta agli occhi di Dio: “La fame è il segno più crudele e concreto della povertà. Non è possibile continuare ad accettare opulenza e spreco, quando il dramma della fame assume dimensioni sempre maggiori”.
Sono più di quarant’anni che si parla di fame nel mondo. Ricordo ancora le immagini delle vacche sacre che indisturbate si aggiravano tra la popolazione affamata dell’India, come pure le foto sui manifesti di sensibilizzazione dei bambini del Biafra, con le loro pance gonfie di vermi. E come mai, nonostante tutto quello che i potenti della terra dicono di aver fatto in tutto questo tempo, ci sono ancora più di un miliardo di persone sottoalimentate? In un dibattito televisivo a margine del summit di Roma, Padre Piero Gheddo, grande missionario italiano, che ha speso tutta la sua vita su questo fronte, faceva notare che laddove, accanto alle sovvenzioni internazionali, si è seminato anche cultura, insegnando ai contadini come sfruttare al meglio la terra su cui vivevano, oggi nessuno muore più di fame.
Quando Gesù, rispondendo a Giuda, disse: “I poveri li avrete sempre con voi” (Gv 12,8), voleva ricordarci che con la carità che lui ci ha insegnato si potrà rimediare a tutte le povertà di questo mondo.
Per questo: Buon Natale e Felice 2010 a tutti!
Don Marco Belladelli
Dicembre 2009.
Don Carlo Gnocchi
“Prima ti dicevo: ciao don Carlo. Adesso ti dico: ciao, san Carlo”. Sono le parole profetiche con cui un mutilatino ha salutato don Gnocchi il 1 Marzo 1956, alla conclusione dei suoi funerali, celebrati dall’allora arcivescovo di Milano, il cardinal Montini, a cui parteciparono 100.000 persone. Nel giorno in cui avrebbe compiuto 107 anni, queste parole sono diventate una realtà. Domenica 25 Ottobre 2009, davanti a decine di migliaia di persone, in piazza Duomo, sempre a Milano, don Carlo Gnocchi è stato solennemente proclamato Beato.
Nato a San Colombano al Lambro, oggi provincia di Lodi, il 25 Ottobre 1902, da Enrico, operaio marmista, e Clementina Pasta, sarta di professione, a soli cinque anni resta orfano del padre, morto per la silicosi. La famiglia si trasferisce in Brianza, a Montesiro, dove in poco tempo muoiono anche i due fratelli maggiori (Mario nel 1908 e Andrea nel 1915) per tubercolosi. “Due miei figli li hai già presi, Signore. Il terzo te l'offro io, perché tu lo benedica e lo conservi sempre al tuo servizio”. E’ la preghiera con cui mamma Clementina, donna forte e dalla fede incrollabile, affida Carlo a Dio, nel giorno del funerale di Andrea. Sotto la guida e l’esempio di don Luigi Ghezzi , entra in seminario e diventa prete nel 1925. L’inizio del suo ministero sacerdotale è caratterizzato da un forte impegno per l’educazione dei giovani, prima a Cernusco sul Naviglio, poi a San Pietro in Sala a Milano e dal 1936 come direttore spirituale presso l’Istituto Gonzaga dei Fratelli delle Scuole Cristiane. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, per non abbandonare i giovani a cui era molto legato, parte volontario per il fronte con gli alpini, prima in Grecia ed Albania e dal ’42 in Russia con la Tridentina. Scampato miracolosamente alla carneficina degli oltre 70.000 morti dell’Armir, è stato per tutti i soldati italiani che lo hanno incontrato un insostituibile sostegno morale e spirituale, tanto che bastava il suo nome per ridare coraggio alle truppe sbandate, durante la disastrosa ritirata di Russia. Di questa suo impegno e carisma troviamo traccia anche nel romanzo di Eugenio Corti Il cavallo rosso (consiglio a tutti di leggerlo). Profondamente segnato dal dolore innocente delle decine di migliaia di vittime, negli anni successivi al conflitto bellico si occupa di coloro che per tutta la loro vita avrebbero portato su di sé le conseguenze della guerra. Inizia prima con gli orfani, per poi prendersi cura dei mutilatini, fino a guadagnarsi il titolo di Padre dei mutilatini. Muore il 28 febbraio del ’56 per un tumore, compiendo ancora un ultimo gesto di grande generosità e solidarietà, dona le proprie cornee per ridare la vista a due suoi ragazzi.
In una sua biografia pubblicata da Mondadori in occasione del centenario della nascita, gli autori, Giorgio Rumi ed Edoardo Bressan, lo presentano come “un grande imprenditore della carità”. Una felice sintesi per illustrare che cosa sono state la vita e le opere di questo prete milanese. Nel suo libro “Cristo con gli alpini”, riflettendo sulle drammatiche esperienze della campagna di Russia, dice: “Ho conosciuto l’uomo, l’uomo nudo, completamente spogliato…” e descrive di seguito le atrocità a cui ha assistito nella lotta fratricida per la sopravvivenza. Ma conclude dicendo: “…eppure, in tanta desertica nudità umana, ho raccolto anche qualche raro fiore di bontà”. Nonostante tutto, don Carlo ha sempre creduto fermamente nell’uomo e nella possibilità di ciascuno di diventare una persona libera. Come disse all’amico, don Giovanni Barbareschi, prima di morire: “Perché l’uomo è uomo solo se ama”. Per lui l’amore era il vertice dell’agire umano. E’ questo lo spirito che ha fatto di don Gnocchi un “imprenditore” della carità. In tempi in cui ancora non si parlava di riabilitazione, non si è semplicemente limitato ad assistere i mutilatini, garantendo loro vitto e alloggio, ma ha voluto che fossero riabilitati come persone. E’ diventato così un grande “restauratore di uomini”, prima in seno spirituale e morale, e poi anche in senso fisico, non lasciando nulla di intentato dal punto di vista scientifico, tecnico ed economico per far tornare a vivere, a sperare e a gioire anche il più sfortunato dei suoi ragazzi.
A monte della sua carità c’era la fede del cristiano. Quella fede imparata dalla madre, maturata giorno per giorno nel ministro di prete, soprattutto nella celebrazione della S. Messa. Fede che lui chiamava “la vecchietta”, rifacendosi ad una famosa poesia di Trilussa, nella quale il poeta parla di una vecchietta cieca, che però fa da guida a chiunque si trovi in difficoltà nell’intricato cammino della propria vita.
Oltre alla sua santità, ormai ufficialmente riconosciuta dalla Chiesa, don Gnocchi è grande, perché nel suo impegno di restauratore e di educatore di uomini ci ha lasciato un meraviglioso esempio di integrazione tra valori umani e valori cristiani, anticipando profeticamente quella sintesi esistenziale tra natura e grazia, tra civile ed ecclesiale, per noi oggi così difficile sia da pensare, e ancor più da realizzare. Nel suo ultimo scritto Pedagogia del dolore innocente, unanimemente ritenuto il suo testamento spirituale, dice che cosa, secondo lui, dovrebbe fare un educatore cristiano: “arricchire l’anima dei suoi figli, corrispondere alla sua vocazione di custode e valorizzatore delle loro possibilità spirituali e non defraudare la Chiesa e la società di un apporto sul quale Iddio ha fatto conto, nell’economia generale del mondo”. Compito, quello educativo, a cui si compie una tale sintesi, e che purtroppo nella nostra società molti adulti (a cominciare dai genitori) hanno abdicato, ancor prima di cimentarsi con esso. Aveva ancora ragione lui, quando spesse volte ripeteva: “O si vive come si pensa, o si finisce a pensare come si vive”. L’aridità e il vuoto dei nostri tempi stanno a significare che per noi purtroppo vale la seconda parte di questo aforisma. E questo non dovrebbe lasciarci del tutto indifferenti.
Grazie don Carlo per la tua forza spirituale e per la tua rettitudine morale. E Dio voglia che non manchino mai tra noi uomini e preti come te.
Don Marco Belladelli.
A quindici anni di distanza, dal 4 al 25 Ottobre prossimi, Benedetto XVI ha convocato in Vaticano la seconda assemblea speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi. Il tema scelto su cui si discuterà è “La Chiesa in Africa a servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace. ‘Voi siete il sale della terra … Voi siete la luce del mondo ’ (Mt 5,13.14)”.
Nel recente viaggio (17 – 23 Marzo 2009) in Camerun e in Angola, il Papa ha consegnato a tutti i Vescovi del continente l’ Instrumentum laboris, cioè il documento contenente analisi e linee giuda su cui preparare le riflessioni delle diverse Chiese locali da portare al confronto nell’assemblea sinodale. Nei vari interventi durante la stessa visita apostolica, il Santo Padre aveva evidenziato quelli che a suo parere sono alcuni dei più gravi e urgenti problemi che affliggono l’Africa, a cominciare dalla condanna delle “tante persone senza scrupoli che cercano di imporre il regno del denaro, disprezzando i più indigenti”, spesso facendo ricorso alla corruzione, con il risultato di scoraggiare l’iniziativa imprenditoriale e degli investimenti; per continuare con la denuncia dello sconvolgimento di alcuni valori tradizionali della società africana, quali la famiglia, la vita sociale rurale, il rapporto tra le generazioni, in particolare il ruolo degli anziani, e il sistema socio-economico. A questo si deve poi aggiungere la dolorosa piaga dei conflitti locali e regionali, spesso caratterizzati dal massacro di migliaia di persone innocenti, quando addirittura non si trasformano in veri e propri genocidi, come è già accaduto nel 1994 in Rwanda e come si è rischiato pure in Congo qualche anno fa.
Oggi l’Africa conta più di un miliardo di persone, a cui vanno aggiunti gli oltre 200 milioni sparsi nel mondo. Nell’ Instrumentum laboris prima di tutto si riconoscono i progressi e i miglioramenti realizzatisi negli ultimi due decenni in Africa, come per esempio alcuni timidi segni di una cultura democratica che va via, via affermandosi a livello politico e istituzionale e una crescita del PIL che in media si aggira attorno al 5% annuo, con alcuni paesi arrivati fino al 20%. Accanto a questi fermenti positivi, permangono molti aspetti problematici, quando addirittura non si ha a che fare con situazioni che invece regrediscono senza soluzione di continuità. Molto spesso però la buona volontà di chi vuole combattere povertà, miseria e miglioramento della salute delle popolazioni, si scontra con il mal funzionamento degli apparati statali. I numerosi e lucrosi (per l’Africa!) programmi di aiuto economico-sociale proposti dalle istituzioni finanziarie internazionali si sono spesso rivelati funesti. L’imposizione dall’esterno ha indebolito la fragile economia africana e contribuito invece ad aumentare il degrado sociale, con relativo aumento delle criminalità, l’allargamento del divario tra ricchi e poveri, l’esodo dalle zone rurali e la sovrappopolazioni delle città. In Africa manca ancora un mercato interno, che favorisca le produzioni locali ed eviti che i prezzi dei prodotti siano fissati dall’esterno. A tutto questo poi dobbiamo aggiungere le emergenze sanitarie, tra le quali va ricordata in primis la piaga dell’AIDS, che continua a mietere vittime sia tra la popolazione adulta che tra le giovani generazioni, e il problema delle migrazioni clandestine soprattutto verso l’Europa.
Nella seconda parte del documento si riflette su che cosa può fare la Chiesa, come “attore sociale” e portatrice di una sua specifica prassi di trasformazione. Per esempio: se è vero che tutti i mali dell’Africa trovano la loro comune radice nel “cuore ferito dell’uomo”, dal quale scaturiscono l’egoismo, da cui deriva l’appropriazione indebita che impedisce una equa distribuzione delle ricchezze a intere popolazioni, e la sete di potere che, dal disprezzo assoluto di ogni regola di buon governo e forte dell’ignoranza, fa della violenza e del sopruso l’unico mezzo per appianare i conflitti politici, etnici, tribali e religiosi; è altrettanto vero, e più che mai urgente, il bisogno di riconciliazione, senza la quale non sarà possibile risanare integralmente questa porzione di umanità. La Chiesa è sempre stata, dovunque nel mondo, promotrice di quella giustizia e di quella pace da cui soltanto può venire anche per tutto il continente africano la tanta agognata riconciliazione. Per poter influire positivamente sulle loro società, i cristiani d’Africa devono prima di tutto mettere il Vangelo al centro della loro vita. Questo è il primo e fondamentale obiettivo del secondo Sinodo per l’Africa. Soltanto preparando una folta schiera di laici seriamente impegnati a vivere il Vangelo nella loro vita quotidiana, renderà i cristiani d’Africa veri protagonisti dei loro progressi umani, sociali e spirituali.
“Prima le pietre vive e poi i mattoni”. E’ uno slogan che ha fatto successo nelle assemblee preparatorie al Sinodo con il quale si vuole ricordare soprattutto ai missionari di occuparsi prima di tutto della gente, di stare dove sta la gente e di non continuare a fare una vita da separati rispetto al resto della popolazione. Per troppo tempo si è fatto il contrario, preoccupandosi prima di tutto di costruire scuole, ospedali, chiese e missioni. Tutte opere meritorie, per le quali però si sono sottratti tempo e risorse alla edificazione della comunità cristiana. E’ ora di invertire questo metodo di azione.
Per superare poi i numerosi conflitti locali e regionali, che spesso sorgono dal forte senso di appartenenza alla propria comunità, c’è bisogno di dialogo. Avviare un dialogo aperto e costruttivo all’interno della Chiesa, tra le diverse confessioni cristiane e con coloro che professano altre religioni, significherà per tutto il continente incamminarsi sulla quella via di giustizia e di pace, che ha come meta la tanto sospirata riconciliazione.
Don Marco Belladelli.
Ottobre 2009
Caritas in Veritate 2, ovvero,
sviluppo integrale e pesticidi umani.
Nel sesto capitolo della Caritas in Veritate, l’ultima enciclica di Papa Benedetto XVI, pubblicata lo scorso 7 Luglio, ai numeri 74 e 75 si parla dei cosiddetti temi eticamente sensibili, nella prospettiva propria del documento, cioè lo sviluppo integrale dell’umanità. In sintesi si dice che non ci può essere vero sviluppo, se non si rispetta la vita umana.
L’argomentazione prende spunto dalla riflessione sul progresso tecnologico e sulle sue strabilianti applicazioni in campo biologico. Se consideriamo la tecnica come una manifestazione del primato dello spirito sulla materia, ne consegue in ogni sua applicazione il doveroso primato della necessaria responsabilità dell’uomo. Davanti alle straordinarie scoperte scientifiche di questi ultimi tempi e alle amplissime possibilità tecniche d’intervento, soprattutto nel campo delle biotecnologie vengono a scontrarsi due logiche, quella di una ragione aperta alla trascendenza e quella di una ragione chiusa nell’immanenza. Nell’ipotesi di un impiego assolutistico della tecnica, “non si possono minimizzare gli scenari inquietanti per il futuro dell'uomo e i nuovi potenti strumenti che la «cultura della morte» ha a disposizione. Alla diffusa, tragica, piaga dell'aborto si potrebbe aggiungere in futuro, ma è già surrettiziamente in nuce, una sistematica pianificazione eugenetica delle nascite. Sul versante opposto, va facendosi strada una mens eutanasica, manifestazione non meno abusiva di dominio sulla vita, che in certe condizioni viene considerata non più degna di essere vissuta” (Caritas in Veritate n. 75).
Mentre leggevo e riflettevo per la prima volta su questi pensieri del Papa, il 29 Luglio scorso l’A.I.F.A., l’Agenzia italiana per la vigilanza sul farmaco, ha dato il via libera anche in Italia, a far data dal 1° Ottobre prossimo, alla commercializzazione della RU486, comunemente conosciuta come la pillola abortiva. L’inventore di questo ordigno, perché non si può parlare di farmaco, ma di una vera e propria arma letale biologica, è un certo Etienne Emile Beaulieu, endocrinologo ricercatore francese, più incline agli affari che alle nobiltà propria dell’arte medica, noto anche alle cronache rosa come grande sciupafemmine, tanto da poter vantare tra le sue conquiste addirittura la divina Sofia Loren. In circolazione da oltre un quarto di secolo, la RU486 è stata accolta e promossa dalle varie organizzazioni abortiste come una vera e propria rivoluzione. La sua assunzione viene a sostituire l’intervento chirurgico, fino ad oggi necessario per l’aborto procurato, e quindi si risparmierebbero sofferenze inutili alla donna. Ma la ragione principale per cui questo farmaco è stato salutato addirittura come un grande progresso di civiltà sta nel fatto di rendere praticamente assoluta l’autodeterminazione della donna, eliminando definitivamente qualsiasi genere e specie di intermediazione tra lei e la sua decisione di abortire.
Giuliano Ferrara, promotore dal Dicembre 2007 di una raccolta di firme per una moratoria dell’aborto in tutto il mondo, l’ha definita il pesticida umano, perché in sostanza si tratta di un veleno liberamente ingerito per porre fine alla vita del bambino che si porta in grembo, anche a distanza di molte settimane dal concepimento. La RU486 infatti, oltre ad aggravare quella che il Papa chiama la tragica piaga dell’aborto, tragicità oggi riassumibile in un solo dato: più di 50 milioni di aborti l’anno nel mondo, viene a rendere questa pratica una questione del tutto privata, nella massima indifferenza etica ed emotiva di tutti, come se espellere il proprio figlio nella tazza del bagno di casa, al modico prezzo di soli 14 euro, fosse la cosa più naturale del mondo.
Dietro questa apparente naturalezza si nascondo grandi problemi di vario genere. La prima menzogna di cui si continua ad abusare è quella di considerare la gravidanza come una malattia, alla quale si corrisponde con una esagerata medicalizzazione, che prevede tutta una serie di interventi tra i quali è inclusa anche la soppressione del concepito. Secondariamente, tutto questo minimizzare attorno alla pillola abortiva, come se si trattasse di assumere una semplice aspirina al bisogno, nasconde brutte sorprese. In percentuali non poi così irrilevanti si sono verificate complicanze per le quale si rendono necessari lunghi periodi di ricovero in ospedale, quando addirittura non si è arrivati al rischio di vita per la donna stessa. Ma l’assurdità più vergognosa è la tanto osannata autodeterminazione femminile, fondata su una strana idea di libertà, infastidita e insofferente ad ogni legame, dipendenza e relazione, davanti alla quale diventa difficile addirittura pronunciare la parola “amore” che, con tutto il suo corollario di emozioni, sentimenti, stati d’animo e atteggiamenti, è per ogni uomo promessa di infinità e di eternità. Dietro questi slogan del femminismo ideologico più irriducibile, ormai superato e improponibile, si vuole nascondere la incontrovertibile verità, che cioè l’aborto è sempre e comunque una schifosa sconfitta per tutti: per il bambino e per la madre abortita insieme con lui, per il padre assente o escluso che sia, per il medico che lo pratica, per tutta l’umanità, che vede rifiutata la divina promessa del “crescete e moltiplicatevi” (cfr Genesi 2,28), e con essa viene meno un po’ per tutti pure il coraggio di vivere e la speranza di un futuro migliore.
Forse questi pochi cenni saranno sufficienti a far capire a chi legge di che cosa stiamo parlando. Non di guerre di religione e tanto meno ci siamo persi nei meandri di sottili disquisizioni di carattere teologico o di fede. La RU486 non è altro che un nuovo e potente strumento della “cultura della morte” che viene a minacciare l’uomo e la sua vita, il suo sviluppo e la sua salvezza.
Don Marco Belladelli.
Settembre 2009
Caritas in Veritate
Tre anni di lavoro e consultazioni con esperti di tutto il mondo. Si parla di sette diverse stesure, e alla fine si sono aggiunti anche problemi di traduzione in latino, dovuti ai neologismi e ai termini particolarmente complessi in uso oggi in sociologia e nel mondo economico-finanziario. Dopo la firma apposta Lunedì 29 Giugno scorso, Martedì 7 Luglio è stata finalmente pubblicata la tanto attesa terza enciclica di Benedetto XVI sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità, intitolata Caritas in Veritate, come da antica consuetudine, sono le prime tre parole del testo ufficiale in latino. In prima battuta l’editrice Vaticana ha stampato 530 mila copie, ma nelle prime due settimane successive alla pubblicazione, solo in Italia ne sono state vendute più di seicentocinquanta mila, senza contare quelle omaggiate dai vari periodici. Si tratta di un libretto di circa 130/140 pagine, a secondo che si tratti dell’edizione economica o di quella ufficiale. Oltre all’edizione in italiano, sono previste traduzioni in inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese e cinese.
Già il titolo è tutto un programma. Si tratta di una famosa affermazione di San Paolo nella lettera agli Efesini 4,15, commentata dal Papa stesso recentemente nell’omelia di chiusura dell’Anno Paolino, a proposito della questione sulla fede “veramente adulta”, nel senso di matura. Mentre il potere del male è la menzogna, “La verità sul mondo e su noi stessi si rende visibile quando guardiamo a Dio. E Dio si rende visibile a noi nel volto di Gesù Cristo. Guardando a Cristo riconosciamo un’ulteriore cosa: verità e carità sono inseparabili. In Dio, ambedue sono inscindibilmente una cosa sola: è proprio questa l’essenza di Dio. Per questo, per i cristiani verità e carità vanno insieme. La carità è la prova della verità. Sempre di nuovo dovremo essere misurati secondo questo criterio, che la verità diventi carità e la carità ci renda veritieri.”.
Il contenuto lo ha così sintetizzato lo stesso Ratzinger nell’Angelus di Domenica 28/06: “approfondire alcuni aspetti dello sviluppo integrale nella nostra epoca, alla luce della carità nella verità”. Sempre secondo lo stesso Pontefice, vengono ripresi temi già presenti nella 'Populorum progressio' di Paolo VI, pubblicata nel Marzo del 1967, oltre quarantadue anni fa. Per coloro che coraggiosamente vorranno affrontare direttamente il testo dell’enciclica, riassumo di seguito brevemente alcune idee guida dei sei capitoli dell’enciclica come aiuto alla lettura personale.
Nell’introduzione, dopo aver spiegato il rapporto dinamico esistente tra verità e carità, quale principio attorno a cui ruota la dottrina sociale della Chiesa, al n. 8 il Papa dice: “A oltre quarant'anni dalla pubblicazione dell'Enciclica, intendo rendere omaggio e tributare onore alla memoria del grande Pontefice Paolo VI, riprendendo i suoi insegnamenti sullo sviluppo umano integrale e collocandomi nel percorso da essi tracciato, per attualizzarli nell'ora presente.” Di fronte ad un mondo “in progressiva e pervasiva globalizzazione”, la Chiesa ha davanti a sé una grande sfida, perché oggi si corre il rischio, che “all'interdipendenza di fatto tra gli uomini e i popoli non corrisponda l'interazione etica delle coscienze e delle intelligenze, dalla quale possa emergere come risultato uno sviluppo veramente umano. Solo con la carità, illuminata dalla luce della ragione e della fede, è possibile conseguire obiettivi di sviluppo dotati di una valenza più umana e umanizzante”(n.9).
Nel primo capitolo viene ripreso l’insegnamento della Populorum progressio e si comincia con l’affermare che nella Chiesa non ci sono due tipologie di dottrina sociale, una preconciliare e una postconciliare, diverse tra loro, ma un unico insegnamento, coerente e nello stesso tempo sempre nuovo. Ci si sofferma poi ad analizzare il concetto di sviluppo, approfondendo quanto era già stato detto da Paolo VI. Nel secondo capitolo, sempre a proposito del tema dello sviluppo umano, si fa un’attenta e particolareggiata analisi della situazione odierna, mettendo in evidenza soprattutto le criticità. E’ nel terzo capitolo, intitolato Fraternità, sviluppo economico e società civile, che troviamo il contributo più originale di Benedetto XVI, là dove, affrontando il nodo cruciale del rapporto tra economia e società, oltre a sollecitare il superamento della separazione tra i due ambiti, si introduce il concetto di fraternità, al posto di quello della solidarietà, come principio di organizzazione sociale che consente agli eguali di essere diversi. Partendo dal principio che le persone sono uguali nella dignità e nei diritti fondamentali, esse possono esprimersi diversamente, sviluppando il loro piano di vita, o il loro carisma, contribuendo così alla crescita di tutti. Ecco perché “lo sviluppo economico, sociale e politico ha bisogno, se vuole essere autenticamente umano, di fare spazio al principio di gratuità (secondo la logica del dono) come espressione di fraternità” (n.34). Nel quarto capitolo si riflette sul complesso tema dello sviluppo dei popoli, tenendo presente il necessario equilibrio tra diritti e doveri, per evitare forme di arbitrio, di trasgressione, quando addirittura non si arriva a vere e proprie forme di degrado, come il reclamare il diritto al proprio vizio. Molto importanti sono anche le considerazioni sul rapporto dell’uomo con l’ambiente naturale. Il quinto capitolo affronta il problema della collaborazione della famiglia umana, perché lo sviluppo deve riguardare non soltanto tutto l’uomo nella sua integrità, ma anche tutti gli uomini. In questo contesto si parla del valore insostituibile della relazione interpersonale, proiettandolo alle sue estreme conseguenze nell’orizzonte più ampio possibile di tutta l’umanità. Nel sesto ed ultimo capitolo è la volta dello spinoso problema della tecnica, con il rischio che essa diventi la nuova ideologia per i secoli a venire, soprattutto in rapporto ai temi eticamente sensibili, come l’inizio e la fine della vita umana.
Insomma, se lo sviluppo consiste nell’accettare la sfida di uscire dal proprio limite, soltanto “Dio ci dà la forza di lottare e di soffrire per amore del bene comune, perché Egli è il nostro Tutto, la nostra speranza più grande.” (n.78).
Don Marco Belladelli.
Agosto 2009
Ritorno alla confessione.
Nella lettera di indizione dell’Anno sacerdotale, datata 16 Giugno 2009, di cui ho scritto il mese scorso, il Papa si sofferma lungamente a riflettere sul sacramento della Confessione, chiamato dopo il Concilio anche Penitenza o Riconciliazione. Il motivo è duplice. Primo l’esempio di san Giovanni Maria Vianney, il santo Curato d’Ars, patrono dei parroci, di cui quest’anno ricorre il 150° anniversario della morte. Paradossalmente, da parroco di uno sperduto paesino di campagna, che contava non più di 230 anime, pur nella sua umiltà personale e modestia umana, era diventato il punto di riferimento spirituale della Francia del suo tempo. Centinaia di persone, di ogni ceto sociale e culturale, accorrevano giornalmente al suo confessionale per sperimentare la gioia del perdono, per avere una parola di conforto, per essere consigliati nei dubbi e nelle difficoltà della vita quotidiana. Il secondo motivo è lo stretto legame di questo sacramento con il ministero sacerdotale. Si diventa preti per celebrare l’Eucaristia e per dispensare al popolo cristiano la misericordia di Dio nella confessione.
Anche il 21 Giugno scorso, nel suo pellegrinaggio a San Giovanni Rotondo, per venerare il corpo di san Pio da Pietrelcina, che per il popolo rimarrà sempre Padre Pio, Papa Ratzinger ha esaltato la dedizione e il sacrificio del Frate capuccino per il confessionale, dove tutti coloro che vi si accostavano hanno ritrovato la grazia di Dio, il conforto umano e la speranza cristiana.
La crisi di questo sacramento è uno dei segni più evidenti e delle conseguenze più gravi della secolarizzazione in atto. Si è cominciato con la perdita del senso del peccato da parte dei fedeli e si è finito con l’abbandono del confessionale da parte dei preti stessi. Ricordo che quando in parrocchia si trattava di preparare i bambini per la prima confessione, spesso mi sono trovato a fare i conti con le resistenze di certi genitori, che ritenevano questo sacramento all’origine del riprodursi dei sensi di colpa nelle coscienze delle persone e di altre situazioni psicologicamente frustranti la libertà del soggetto. Anche se nel percorso formativo catechistico si cercava di privilegiare l’approccio positivo del “facciamo festa” della parabola del Figlio prodigo (cfr Lc 15,23), rimaneva sempre forte il sospetto di realtà castrante nei confronti di questo sacramento.
Per rispondere alle tante difficoltà che oggi si oppongono alla pratica del confessionale, Benedetto XVI nella sua lettera sopra citata si sofferma ad analizzare nei particolari l‘esempio di san Giovanni Maria Vianney:
“Si diceva allora che Ars era diventata “il grande ospedale delle anime”. La grazia che egli otteneva [per la conversione dei peccatori] era sì forte che essa andava a cercarli senza lasciar loro un momento di tregua!”, dice il primo biografo. Il Santo Curato non la pensava diversamente, quando diceva: “Non è il peccatore che ritorna a Dio per domandargli perdono, ma è Dio stesso che corre dietro al peccatore e lo fa tornare a Lui”. “Questo buon Salvatore è così colmo d’amore che ci cerca dappertutto”.
Il Papa poi raccomanda che questo sacramento torni al centro delle preoccupazioni pastorali dei sacerdoti; che si ritrovi quella fiducia infinità, perché in esso, come si è appena detto, è Dio stesso che agisce per far tornare a sé i figli peccatori; e infine che ci si riappropri del metodo del “dialogo di salvezza”. Per far meglio capire che cosa s’intende per “dialogo di salvezza”, descrive le varie tipologie possibili di penitenti e il diverso atteggiamento con cui il santo Curato li accoglieva. Alla fine tutti si sentivano interiormente trasformati, “perché era riuscito a far loro percepire l’amore misericordioso del Signore”. Alla testimonianza di san Giovanni Maria Vianney, aggiungo quella di un caro amico che recentemente si è riaccostato al sacramento della confessione dopo decenni di lontananza, pur praticando con una certa assiduità la S. Messa domenicale. Mi confidava di non essersi mai sentito tanto libero e interiormente purificato, come dopo aver ricevuto l’assoluzione sacramentale. E ha aggiunto: “Ti assicuro che non si tratta di una semplice emozione, come si potrebbe credere. C’è invece qualche cosa di sostanzialmente diverso, che non ha niente a che vedere con quello che normalmente si sperimenta nelle cose umane”. Il “dialogo di salvezza” consiste allora nell’incontrare Dio personalmente, nell’iniziare con lui una relazione di “amicizia”, che si sviluppa in un cammino nel quale ci si sente sempre accompagnati, sia nel bene, sia nel male.
Quando si tratta di andare contro corrente, rispetto a quello che sembra essere l’orientamento del mondo e l’atteggiamento di resa a cui si sono abbandonati anche tanti Vescovi e preti, Benedetto XVI non si smentisce. Questa rinnovata insistenza sulla necessità di recuperare, prima da parte dei ministri e poi da parte dei fedeli, il sacramento della confessione rappresenta uno dei tanti mezzi e, nello stesso tempo anche uno dei tanti obiettivi, attraverso i quali (come si è espresso nella recente Lettera ai Vescovi per spiegare il senso della remissione della scomunica ai seguaci di Lefebvre) perseguire la priorità suprema e fondamentale della Chiesa di oggi e di sempre: “Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia ”.
Don Marco Belladelli
Luglio 2009.
Il prete oggi
Il 16 Marzo scorso durante l’udienza concessa ai Membri della Congregazione per il Clero, il Papa ha annunciato l’indizione di uno speciale Anno sacerdotale. Inizierà il 19 Giugno prossimo, solennità del Sacro Cuore, giornata di preghiera per la santificazione dei sacerdoti, e si concluderà lo stesso giorno nel 2010 con un grande raduno mondiale di preti in piazza San Pietro. Coinciderà anche con i 150 anni della morte di San Giovanni Maria Vianney, meglio conosciuto come il santo Curato d’Ars, che verrà proclamato Patrono di tutti i sacerdoti del mondo. Il tema scelto come filo conduttore delle varie manifestazioni che si svolgeranno durante tutto l’anno è Fedeltà di Cristo, fedeltà del sacerdote. Sarà anche pubblicato un Direttorio per la confessione e per la direzione spirituale, insieme ad una raccolta di testi di Benedetto XVI sulla vita e la missione del prete nella società di oggi. I Vescovi e i Superiori Maggiori dei vari Ordini e Istituti religiosi sono chiamati a promuovere iniziative spirituali, culturali e pastorali, perché tutti imparino ad apprezzare e valorizzare la persona del sacerdote e il suo ministero. Come ha spiegato il Cardinal Claudio Hummes, Prefetto della Congregazione per il Clero, in una lettera del 19/05 scorso, attraverso l’Anno sacerdotale si vuole suscitare nella Chiesa e nel mondo uno speciale sostegno pubblico a favore dei sacerdoti, dimostrando loro amore, stima e ammirazione per ciò che essi rappresentano e per l’importanza insostituibile del loro ministero a favore del popolo di Dio.
Un anno e mezzo fa, con una lettera dell’08/12/07, intitolata: “Adorazione Eucaristica per la Santificazione dei Sacerdoti e Maternità Spirituale”, la stessa Congregazione per il Clero aveva lanciato una campagna con la quale si invitavano i fedeli ad offrire preghiere, sacrifici e soprattutto ore di adorazione eucaristica a favore della vita spirituale dei preti, che molti organi di stampa hanno chiamato “Adotta un prete!”.
Tanta attenzione, tutta in una volta, da parte dei massimi vertici della Chiesa a sostegno dei preti, oltre che un atto per valorizzare il ministero ordinato, sembra quasi un grido d’allarme per una situazione delicata e problematica, forse per troppo tempo trascurata e sottovalutata nelle sue dimensioni e gravità. Vengono in mente i mea culpa pronunciati da Benedetto XVI lo scorso anno in America e in Australia per i casi di pedofilia che hanno avuto come protagonisti dei preti. Come pure il documento del Novembre 2005 della Congregazione per l’Educazione Cattolica con cui si vietava l’accoglienza tra i candidati al sacerdozio e alla vita religiosa di persone che “praticano l'omosessualità, presentano tendenze omosessuali profondamente radicate o sostengono la cosiddetta cultura gay.”.
Prima ancora di questi aspetti problematici, fortunatamente presenti tra il clero in una percentuale inferiore rispetto alle dimensioni che questi fenomeni hanno assunto nella società odierna, preoccupa molto più il calo delle vocazioni (in Europa assistiamo ad una caduta verticale), i molti abbandoni del ministero, soprattutto negli anni successivi al Concilio, e il conseguente invecchiamento dei sacerdoti. Un’indagine condotta dalla Fondazione Agnelli quattro anni fa evidenziava che l’età media del clero diocesano, cioè dei preti che troviamo nelle nostre parrocchie, oggi in Italia supera i 60 anni.
Ma il vero nocciolo della questione non è tanto la quantità, quanto la qualità della vita e del ministero del sacerdote. La decisione di fare il prete rimane anche oggi una scelta di vita in controtendenza rispetto ai modelli proposti e inseguiti dalla cultura e dalla società di oggi. Sostenere quotidianamente il confronto con una realtà che continuamente contraddice e addirittura nega gli ideali e i valori in cui credi e sui quali hai fondato la tua esistenza, richiede una forza interiore e un radicamento spirituale molto più robusto di quello richiesto un paio di generazioni fa, quando tutto sommato il contesto culturale nel quale tutti si riconoscevano era ancora quello di una cristianità diffusa e fondante la comune convivenza. Per fare bene il prete oggi è necessario attrezzarsi spiritualmente e moralmente, per rispondere a questa provocazione in modo sempre coerente e positivo.
Non meno complesso è il problema dell’esercizio del ministero. Gli ormai evidentissimi mutamenti socio-culturali invocano un aggiornamento delle forme e dei modelli pastorali, per non tradire il patrimonio della fede, tramandato nei secoli, e nello stesso tempo per rispondere adeguatamente alle esigenze di oggi. Pensate per esempio alla vostra parrocchia e a tutte le varie attività che vi si svolgono. Questa istituzione, che per secoli ha saputo intercettare e coniugare i bisogni spirituali e morali del popolo di Dio, oggi ha ancora una sua validità? Ma prima delle strutture, delle forme e dei modelli, l’efficacia di un’azione pastorale dipende dal modo di essere e di fare il prete. Ecco allora le varie categorie del prete giovane o vecchio; aperto o chiuso; moderno o tradizionale; capace di relazionarsi oppure che mantiene le distanze; che persegue un modello di comunità liturgico-sacrale, oppure più popolare e sociale, e via dicendo, dimenticando che la sostanza del ministero sacerdotale è ben altro, come ha detto il Papa il 3 Maggio scorso, nell’omelia per l’ordinazione dei nuovi preti di Roma: “Diventare sacerdoti, nella Chiesa, significa entrare in questa auto-donazione di Cristo, mediante il Sacramento dell’Ordine, ed entrarvi con tutto se stessi. Gesù ha dato la vita per tutti, ma in modo particolare si è consacrato per quelli che il Padre gli aveva dato, perché fossero consacrati nella verità, cioè in Lui, e potessero parlare ed agire in nome suo, rappresentarlo, prolungare i suoi gesti salvifici: spezzare il Pane della vita e rimettere i peccati.”. Senza questa auto-donazione, stiamo parlando d’altro.
Don Marco Belladelli
Giugno 2009.
don Primo Mazzolari
Cinquant’anni fa, esattamente il 12 Aprile del 1959, all’età di 69 anni moriva a Bozzolo (MN) don Primo Mazzolari, prete cremonese, parroco dal 1932 in quello stesso paese, famoso in tutt’Italia per il suo impegno pastorale, sociale, culturale e politico. Il primo Aprile scorso lo ha ricordato anche Papa Benedetto XVI durante l’udienza generale del Mercoledì: “Il cinquantesimo anniversario della morte di don Mazzolari sia occasione opportuna per riscoprirne l'eredita' spirituale e promuovere la riflessione sull'attualità del pensiero di un così significativo protagonista del cattolicesimo italiano del Novecento. Auspico che il suo profilo sacerdotale limpido di alta umanità e di filiale fedeltà al messaggio cristiano e alla Chiesa, possa contribuire a una fervorosa celebrazione dell'Anno Sacerdotale, che avra' inizio il 19 giugno prossimo.”. Nelle parole del Pontefice sono già delineati i tratti fondamentali dell’opera e della personalità di don Primo. Prima di tutto viene l’uomo e il prete, vissuto sempre in quella tensione ispirata dal Vangelo, che ha segnato tutta la sua vita. Poi segue il protagonista del cattolicesimo italiano del Novecento, che con i suoi scritti e le sue iniziative ha anticipato i tempi, come ebbe a dire qualche anno dopo la sua morte Papa Paolo VI, il quale, quando era ancora arcivescovo di Milano, nel Novembre del 1957, lo aveva chiamato a predicare agli universitari: «Lui aveva il passo troppo lungo e noi si stentava a tenergli dietro. Così ha sofferto lui e abbiamo sofferto anche noi. Questo è il destino dei profeti».
Nel Giugno di cinque anni fa, Rai Tre mandò in onda anche una fiction su di lui, dal titolo L’uomo dell’argine, del regista Gilberto Squizzato, in cui si raccontava la vita di don Primo, soffermandosi soprattutto sugli anni del fascismo, della guerra e dell’immediato dopo guerra. Pur rimanendo nel complesso positivamente impressionato dalla rappresentazione cinematografica del prete cremonese, nella quale emergeva soprattutto il suo spiccato amore per la libertà di tutti e il suo forte impegno per la pace fra gli uomini, in tempi nei quali questi valori erano sacrificati dalla dittatura e dal nazionalismo imperante, questa interpretazione mi parve un tantino riduttiva, rispetto a ciò che ritenevo essere il vero don Primo Mazzolari. Si trattò comunque di una importante operazione di divulgazione, attraverso la quale molti hanno avuto l’opportunità di riscoprire la grandezza del parroco di Bozzolo e di accostarsi poi personalmente a quella che ritengo essere la fonte più genuina per conoscerlo più a fondo, i suoi numerosi scritti, che in occasione di questa particolare ricorrenza del 50° della morte, la Fondazione a lui intitolata si è impegnata a ripubblicare.
Nella mia giovinezza spesso ho sentito parlare di don Primo. L’avvenimento più memorabile, rimasto impresso come un mito nella memoria dei più, è senza dubbio il famoso contraddittorio con l’onorevole Montanari del partito Comunista, svoltosi in piazza Sordello a Mantova durante la campagna elettorale del 1948, alla quale don Primo partecipò molto attivamente. Più che di una scesa in campo nell’agone della politica, come oggi si potrebbe intendere quella sua posizione, tanto anomala per un prete, per lui si trattava del punto di arrivo di un percorso culturale che lo aveva visto in prima linea fin dai primi anni del Novecento come uno degli esponenti più di rilievo di quel Movimento cattolico che, superati gli ostacoli risorgimentali del non expedit, conseguenti alla presa di Roma da parte dell’esercito del Regno d’Italia, voleva contribuire concretamente alla costruzione della nuova società italiana. A conferma di quanto vado dicendo, basta leggere i numerosi articoli pubblicati sui quotidiani o sui periodici a cui don Primo ha collaborato. Non è mai stato interessato ad occupare ne’ poltrone istituzionali, né posti dirigenziali all’interno dei quadri organizzativi di qualche partito, perché in lui ha sempre chiaramente prevalso su tutto la sua fede di cristiano, che ha trovato nella vocazione sacerdotale e nell’impegno pastorale la via maestra per esprimersi. A questa particolare sensibilità si accompagnava una straordinaria capacità di calarsi con realismo e pertinenza nella concretezza dei problemi umani di ogni giorno della sua gente.
Negli anni della mia formazione sacerdotale ho avuto poi la fortuna di incontrare persone a lui vicine, diventati nel tempo autorevoli testimoni dello spirito e dell’azione del parroco di Bozzolo. Ed è soprattutto attraverso di loro che mi sono fatto un’idea più precisa di chi era don Primo Mazzolari. Papa Giovanni XXIII, quando lo ha ricevuto in udienza il 5 Febbraio del ’59, pochi mesi prima della sua morte, per rimediare in qualche modo ai numerosi provvedimenti disciplinari con cui diverse Autorità ecclesiastiche del tempo lo avevano colpito a causa dei sui scritti e delle sue prese di posizioni, troppo apertamente in dissonanza con il pensiero e l’agire pastorale comune di allora (tanto che nei primi anni ’50 si arrivò fino a proibirgli di predicare fuori dai confini della sua parrocchia), ebbe a dire di lui: “Ecco la tromba dello Spirito Santo”. Un’espressione che mi pare metta bene in evidenza il carisma specifico di cui don Primo era investito, quello cioè di saper incidere con forza sulle coscienze di chi lo incontrava o lo ascoltava, fino a smuoverle e a trasformarle in senso cristiano. Lo attestano senza ombra di dubbio soprattutto le sue opere evangelicamente ispirate, come per esempio La più bella avventura. Sulla traccia del ‘prodigo’, oppure la famosa omelia del Giovedì santo del 1958, Nostro fratello Giuda. A mio modesto parere, questo rimane il valore e la forza della sua attualità per oggi e per sempre.
Don Marco Belladelli
Maggio 2009.
le priorità della Chiesa oggi
Rispetto ai temi che inaspettatamente l’attualità ci ha fornito su un piatto d’argento come possibili argomenti da affrontare in questa rubrica (vedi: il testamento biologico, la remissione della scomunica ai Vescovi lefebvriani, il viaggio del Papa in Africa, la sessualità responsabile), la prossimità della Pasqua mi induce ad offrire a chi mi legge una riflessione che lo aiuti ad entrare più facilmente in sintonia con il mistero fondamentale della fede cristiana, che la Chiesa celebra in questi giorni, cioè la passione, morte e risurrezione di Gesù Cristo.
Sergio Romano, ex ambasciatore, oggi illustre commentatore dell’attualità politica nazionale ed internazionale sulle più importanti testate giornalistiche, durante un suo recente intervento in una trasmissione radiofonica del mattino, nella quale si fa la rassegna stampa delle principali notizie del giorno, richiesto di esprimere un suo parere su Benedetto XVI, affermava che si tratterebbe di un Papa di retroguardia, paragonandolo storicamente a Pio IX. Un esempio, tra i tanti che evidenziano come un certo mondo culturale, cosiddetto laico, abbia ancora nei confronti di Ratzinger, a quattro anni dalla sua elezione, una sorta antipatia viscerale, che in certe occasioni si trasforma in un vero e proprio attacco pregiudiziale contro tutto ciò che fa e dice. Basta vedere quello che è successo a proposito della remissione della scomunica dei quattro Vescovi lefebvriani e sulla questione dell’inefficacia dei preservativi nella prevenzione dell’AIDS. Nessuno pretende una sottomissione acritica, ma da qui ad arrivare ad una sistematica aggressione mediatica, in alcuni casi perfino furiosa, tutte le volte che apre bocca, ne passa di differenza.
A mio parere non gli si perdona quello che disse nella famosa omelia del 18/04/05, prima di entrare in conclave, quando senza mezzi termini aveva stigmatizzato tutti gli …ismi di questa cultura, configurandoli nel loro insieme come una vera e propria dittatura del relativismo più assoluto:
“Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero... La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde - gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo ad un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così via. Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice San Paolo sull’inganno degli uomini, sull’astuzia che tende a trarre nell’errore (cf Ef 4, 14). Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie.”
Nel momento in cui la Chiesa era profondamente prostrata per la perdita del suo leader maximo, Giovanni Paolo II, nessuno si aspettava una presa di posizione così forte e precisa, capace di mettere in crisi la cultura dominante nei suoi fondamenti. Qualcuno si è sentito proditoriamente attaccato a sangue freddo e non gliel’ha perdonato.
A questo graduale e doveroso scollamento della Chiesa da una certa cultura della modernità, intesa così come l’ha descritta l’allora cardinal Ratzinger e in seguito Benedetto XVI nei suoi numerosi e molto più autorevoli interventi successivi (cfr. l’enciclica Spe salvi), corrisponde una sempre più chiara affermazione di quella che anche il Papa ha definito nella sua recente lettera a tutti i Vescovi del mondo del 10/03 u. s. come la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del Successore di Pietro in questo tempo, cioè: “Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia”.
Per riuscire a ricondurre gli uomini d’oggi al Dio di Gesù Cristo, la Chiesa ha bisogno prima di tutto di ritrovare il massimo grado, storicamente possibile, di unità interna. Non nel senso democraticamente inteso de l’unione fa la forza, ma nel senso di ciò che ha detto Gesù nella sua famosa preghiera al Padre al termine dell’ultima cena: “Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17, 20-21). La credibilità del Vangelo è direttamente proporzionale al grado di unità che c’è nella Chiesa. Viceversa: più divisioni ci sono tra i Cristiani nel mondo e più resistenze ed ostacoli incontrerà l’annuncio e l’accoglienza del Vangelo. Questa unità si deve ritrovare attorno all’unica e viva Tradizione della Chiesa, attraverso la quale viene tramandato nei secoli l’immutabile deposito delle verità di fede, ricevuto direttamente da Cristo. Ecco perché il Papa con insistenza continua a ripetere che il Concilio Vaticano II va compreso dentro la Tradizione e non come un evento di discontinuità e tanto meno di rottura. Come diceva S. Paolo duemila anni fa ai Galati: “Se qualcuno vi predica un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anàtema!” (1,9).
La mia impressione è che in tante cosiddette Chiese locali (Diocesi), e a caduta in tante Parrocchie, a cui la stragrande maggioranza dei Cristiani oggi fa riferimento per vivere la propria fede, si privilegino priorità non altrettanto fondamentali come quelle indicate dal Papa recentemente. Forse per questo che in esse, come diceva quattro anni fa Ratzinger, “La piccola barca del pensiero di molti cristiani rimane ancora agitata da venti di dottrina” che non hanno niente a che vedere con il Vangelo, anche se apparentemente sembra il contrario. Buona Pasqua!
Don Marco Belladelli
Aprile 2009.
ecumenismo
Da più di cento anni, esattamente dal 1908, ininterrottamente nella settimana che va dal 18 al 25 Gennaio si celebra in tutto il mondo cristiano l’ottavario di preghiera per l’unità dei Cristiani. Fu un sacerdote episcopaliano (gli anglicani d’America), Paul James Francis Wattson, a lanciare l’iniziativa. L’anno seguente lo stesso si convertì al cattolicesimo. Lo scopo era di pregare per la santificazione di tutti battezzati e per la realizzazione dell’unità fra le Chiese, nei modi, nei tempi e con mezzi che Dio avrebbe voluto. Nel corso degli anni la settimana di preghiera per l’unità dei Cristiani è diventata l’attività ecumenica più capillarmente diffusa nel mondo, ed anche la più conosciuta e partecipata. Possiamo ben dire che attraverso di essa le ragioni dell’ecumenismo hanno raggiunto e toccato il cuore e le coscienze di milioni di cristiani e di uomini di buona volontà, fino ad assumere una importanza fondamentale nel presente e per il futuro di tutta Chiesa. Quest’anno è stato il gruppo ecumenico della Corea a scegliere il tema: “Essere riuniti nella tua mano” (Ezechiele 37,17). In questo brano biblico, tratto dalla seconda grande visione del profeta, hanno visto annunciata non soltanto l’unità della Chiesa, chiesta da Gesù nella preghiera al Padre durante l’ultima cena (cfr Gv 17), ma anche la promessa di superare la loro lacerazione di popolo diviso tra Nord e Sud, come già era stato per l’antico Israele, perché come ha sottolineato Benedetto XVI: “l’unità in Cristo è fermento di fraternità anche sul piano sociale, nei rapporti tra le nazioni e per l’intera famiglia umana” (25/01/09).
Ecumenismo deriva dal greco oikoumène, termine con il quale in antico si indicava l’orbe terracqueo conosciuto ed abitato. Nei primi secoli della Chiesa l’aggettivo ecumenico era usato per individuare i concilii universalmente riconosciuti da tutti i cristiani. All’inizio del ‘900 l’ecumenismo è diventato il movimento teologico e pastorale che si propone di riportare la Chiesa all’unità delle origini, superando quelle divisioni storiche tra i discepoli di Cristo, a causa delle quali oggi parliamo di cristiani cattolici, ortodossi, protestanti, anglicani, tanto per elencare le denominazioni più comunemente conosciute. In senso più ampio con ecumenismo s’intende quell’atteggiamento culturale di ascolto, di apertura e di disponibilità a camminare insieme con chiunque esprima una qualsiasi forma di diversità e/o alterità.
La prima grande frattura all’interno del mondo cristiano è quella che si consumò nel XI secolo tra Chiesa d’Oriente e Chiesa d’Occidente. Era il 1054 quando i legati pontifici depositarono sull’altare di santa Sofia a Costantinopoli la bolla di scomunica, punto d’arrivo di un secolare disinteresse vicendevole, gesto che di fatto darà inizio alla millenaria separazione tra le due Comunità cristiane. Dovranno passare più di novecento anni, perché il Papa Paolo VI e il Patriarca Atenagora nel Dicembre 1965 ritirassero le reciproche scomuniche e riprendessero così i rapporti fraterni tra le due Chiese. Cinquecento anni dopo (1517) seguì una seconda grande lacerazione, quando Lutero affisse le famose 95 tesi alla porta della cattedrale di Wittenberg, a cui fece seguito il movimento religioso e politico che va sotto il nome di Protestantesimo. Vent’anni più tardi fu la volta dell’Inghilterra, dove il re, Enrico VIII, per ragioni personali, nel 1539 fece approvare dal parlamento l’Atto di supremazia, con il quale sorse una Chiesa nazionale, indipendente da Roma. Nei secoli successivi, fino ai giorni nostri, seguiranno ulteriori frammentazioni, quali per esempio i Battisti e i Metodisti, tanto per citare alcuni dei raggruppamenti più significativi.
Da subito ci si rese conto che la divisione tra i Cristiani era una piaga che intaccava la sostanza stessa del Cristianesimo, tanto da rappresentare come un nuovo peccato originale, che indebolisce la forza dell’annuncio del Vangelo di Cristo e rende meno credibile la fede e la testimonianza di ciascuno. A partire da questa consapevolezza, comune a tutte le Chiese, è scaturita come conseguenza l’urgenza e la necessità di convergere insieme dentro un cammino ecumenico, attraverso il quale procedere gradualmente, ma inesorabilmente, verso l’unità perduta e la piena comunione. Tutti riconoscono che questo cammino comincia con la conversione personale e comporta due passaggi irrinunciabili. Prima di tutto la presa di coscienza del proprio peccato, unito al sincero dolore per il male commesso e al necessario pentimento di non ripetere in futuro le stesse azioni maliziose. Il passo successivo della conversione consiste nel lasciarsi conquistare da Cristo, fino al punto da dire con San Paolo: “non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me!” (Galati 2,20). Alla conversione fa seguito il dialogo teologico. La fraternità, la lealtà e il sincero anelito alla verità, nella carità, rappresenta il contesto migliore nel quale si sono compiuti e si compiono tuttora passi importanti verso l’unità.
Il frutto più straordinario e più fecondo del movimento ecumenico è stato senza dubbio il Concilio Vaticano II. Dopo secoli di indifferenza, di conflitti e di dure lotte, mai come durante questa assise i cristiani di tante denominazioni diverse si sono trovati così vicini l’un l’altro, prima di tutto scoprendo che ciò che li unisce è molto di più di ciò che li divide, e secondariamente nel costruire insieme le solide basi su cui proseguire nel dialogo teologico, che ha come unica metà la piena comunione. Come ha detto ancora Benedetto XVI: “Si tratta di un compito arduo, ma entusiasmante per i cristiani che vogliono vivere in sintonia con la preghiera del Signore: “che tutti siano uno, affinché il mondo creda” (Gv 17,21)” (25/01/09).
Don Marco Belladelli.
Febbraio 2009
l’anno che verrà…
Sono passati trent’anni da quando Lucio Dalla cantava: “L’anno che sta arrivando tra un anno passerà / io mi sto preparando a questa novità”. Una canzone nella quale mette insieme fantasie, paradossi e contraddizioni dei suoi giorni. Un orecchio esperto saprebbe riconoscere nella melodia la rielaborazione del tema musicale di Avanti popolo, il famoso inno del partito comunista, divenuto nel dopo guerra la colonna sonora di quello che, a detta di alcuni, rappresentava il vero progresso sociale e culturale. Il testo invece sembra una resa incondizionata all’inarrestabile tramonto di tutte le utopie coltivate fino ad allora, a cominciare dalla tanto sospirata società socialista, per finire con quelle più recenti, nate dalla contestazione sessantottina. Insomma un lasciarsi scivolare nella disillusione per un qualsiasi cambiamento, tanto da ridursi ad accettare il tempo che passa come l’unica vera novità possibile.
Oggi, anche se non abbiamo molte più ragione di Lucio Dalla per essere entusiasti del nostro presente e tanto meno del futuro, dobbiamo comunque riconoscere che a proposito di cambiamenti, a tutti i livelli e di diversa natura, non ci stiamo certo annoiando, a cominciare dalla novità di questi ultimi mesi, la grave crisi finanziaria di cui forse non ci si riesce ancora a capacitare. Da quindici anni a questa parte le economie dei paesi ricchi sono sempre cresciute percentualmente di qualche punto, facendo da locomotiva a tutta l’economia mondiale. A trarne il maggiore vantaggio sono stati i paesi del BRIC, cioè Brasile, Russia, India e Cina, che in certi momenti hanno addirittura superato le due cifre di sviluppo annuo. Quando tutti pensavano che si sarebbe continuato così per sempre, ecco irrompere all’improvviso (si fa per dire!) lo spettro della recessione, che si prevede durerà per tutto il 2009 e forse anche oltre. Le potenti oligarchie finanziarie, che per anni con le loro regole pseudo-scientifiche hanno controllato a loro discrezione i mercati mondiali e condizionato le politiche economiche dei governi, per salvaguardarsi da eventuali legittime interferenze, di fronte alla bancarotta di grandi gruppi bancari internazionali, vengono a chiedere gli aiuti di stato. Alla fine tocca così alla stragrande maggioranza dei cittadini, a cui non sono venuti particolari vantaggi dalla cosiddetta finanza creativa, pagare il prezzo più alto della attuale crisi in termini di disoccupazione e di povertà per il minor potere d’acquisto dei salari. Oltre la grave situazione economica, ciò che più sbalordisce è il vero e proprio scacco subito dalla democrazia. Coloro infatti che avevano ricevuto il mandato popolare di controllare e regolare i meccanismi del mercato, hanno prima ceduto all’arroganza tecnocratica delle agenzie internazionali di rating e oggi, in nome di quella stessa complicità, sono pronti a correre in loro soccorso, senza chiedere come contropartita un reale cambiamento culturale e strategico in senso solidaristico, finalizzato al bene comune.
Un altro mito che in questo ultimo decennio si è retto più su promesse che su effettivi progressi è quello della globalizzazione. Attraverso un processo di razionalizzazione di tutto il sistema mondiale, che prevedeva l’ottimizzazione delle risorse e dei mezzi di produzione, si sarebbero dovuti risolvere moltissimi problemi, a cominciare da quello dell’alimentazione. Rispetto al 2000, oggi il numero di coloro che soffrono la fame è quintuplicato e nel mondo si contano più di un miliardo di persone che ogni giorno rischiano di morire per malnutrizione.
Il 10 Dicembre scorso si sono celebrati in tutto il mondo i sessant’anni della firma della Dichiarazione dei Diritti umani. Gli Stati membri delle Nazioni Unite che l’hanno sottoscritta si erano impegnati ad adeguare le loro legislazioni ai principi in essa contenuti, nell’intento di rendere il più possibile gli uomini tra di essi uguali, come recita uno dei trenta articoli: “Gli uomini nascono e muoiono uguali nei diritti”. Le solenni commemorazioni di questi giorni non hanno fatto altro che evidenziare quanto questo traguardo sia ancora lontano dall’essere raggiunto. In teoria siamo tutti pronti a riconoscere che i diritti della persona vengono prima di qualsiasi altro valore o interesse, in pratica le cose sono ben diverse. Basta guardarsi attorno per rendersi conto quanta disuguaglianza, discriminazione ed emarginazione siano ancora oggi parte del nostro presente.
Quello che preoccupa ancor di più è la crisi della coscienza e dell’anima degli uomini di oggi. L’esagerata tendenza ad apparire ha trasformato la vita in una fiera dell’esibizionismo oltre ogni limite di pudore e di decenza. Il materialismo dominante induce ad uno sfrenato consumismo e a rincorrere il potere e l’avere con ogni mezzo e ad ogni costo. L’individualismo più radicale rende incapaci di relazioni sane e durature a favore di spersonalizzanti promiscuità e di sempre più numerose e penose solitudini. Sono soltanto alcuni dei mali che oggi affliggono lo spirito di questa nostra modernità. Con tutto ciò, incurante delle conseguenze, c’è chi, attraverso dissacranti caricature da cui nulla si salva, oppure l’abile gioco del confondere il reale con il virtuale, continua ad ostacolare coloro che si adoperano per un’inversione di tendenza. Oltre alla mistificazione della realtà, si vuole risultare psicologicamente rassicuranti e rasserenanti, perché nessuno si desti dal narcotico sonno della modernità.
Sempre più mi tornano alla mente le parole di Gesù quando, evocando i tempi di Noé, dice: “Nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito, fino a quando Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e inghiottì tutti” (Mt 24,38-39). Il mio augurio è che ci si possa svegliare in tempo per evitare non il diluvio, ma qualcosa di simile. Buon anno!
Don Marco Belladelli.
Gennaio 2009
Natale, ovvero:
vivere come se dio ci fosse!
Natale si avvicina a grandi passi con tutto il suo dolce e tenero corredo fatto di luci, di colori, di suoni, di profumi, di doni, di tradizioni e di buoni sentimenti. Anche ad Oxford, città inglese famosa in tutto il mondo per la sua università, dove qualche mese fa il Consiglio comunale ha abolito la parola “Natale” (in inglese “Christmas”) per ritornare all’antico appellativo di “festa della luce invernale”, riesumando una denominazione precedente all’avvento del cristianesimo, non si vuole comunque rinunciare a questa gioiosa miscela di ingredienti, che fanno di questi giorni dell’anno, quelli più universalmente celebrati .
E così la festa cristiana più famosa al mondo, nata e diffusasi dal IV secolo in poi per celebrare il mistero del Dio fatto uomo, paradossalmente va via, via modificando i suoi contenuti e significati. Tra le molte possibili cause socio-culturali di questa trasformazione dobbiamo includere anche il progressivo affievolirsi della fede in molti cristiani, tali ormai soltanto di nome e non di fatto, la cui testimonianza di vita assomiglia sempre più alla fiamma smorta di una candela consumata. Quando mi capita di parlare con dei giovani adulti per prepararli ai sacramenti, chi della Cresima e chi del Matrimonio, per farmi un’idea di come vivono la loro fede, faccio sempre loro due domande provocatorie: se dovessi spiegare ad un amico, che ti chiede ragione del tuo credo, qual è l’aspetto fondamentale del Cristianesimo, oppure, in che cosa si differenzia dalle altre religioni, che cosa gli diresti? Subito si vede sui loro volti l’imbarazzo di chi non sa che pesci pigliare. Un imbarazzo che un po’ dipende dall’ignoranza religiosa, nel senso proprio del termine, di chi cioè non conosce nemmeno l’ ABC del Cristianesimo, conseguenza immediata della marginalità assegnata dalla cultura secolarizzata dominante a tutto ciò che riguarda la religione, e un po’ dipende dal pressappochismo con cui negli anni del post Concilio si è presentato il catechismo alle giovani generazioni. Insomma, nostro malgrado, dobbiamo prendere atto che di fatto anche nei paesi di antica tradizione cristiana ormai molti vivono come se Dio non esistesse: Etsi Deus non daretur. Una formula elaborata nel XVII secolo, per salvaguardare quei principi morali su cui si fondava la comune convivenza civile e sociale, quando la religione cristiana a causa della riforma protestante, da fattore di unità dei popoli europei si era trasformata nella prima e più irriducibile causa di conflitto e di divisione.
E se invece cominciassimo a vivere come se Dio ci fosse? E’ l’intellettuale tedesco, Robert Spaemann, a proporlo provocatoriamente, facendo eco a quanto va dicendo da oltre tre anni a questa parte Papa Benedetto XVI. Nel suo libro, pubblicato recentemente anche in Italia da Cantagalli, dal titolo La diceria immortale, in riferimento al problema dell’esistenza di Dio, questione sempre viva e controversa fin dagli albori della storia dell’umanità, il filosofo d’oltralpe raccoglie quella che secondo lui è la sfida paradossale lanciata da Ratzinger alla cultura moderna, cioè a vivere come se Dio ci fosse, sia che si creda, sia che non si creda.
Nella storia del pensiero, l’esistenza di Dio è sempre stato il presupposto per la ricerca della Verità. Anche il grande Kant ha avuto bisogno di questo postulato su cui fondare gli imperativi categorici morali della sua ragion pratica. “Il tentativo, portato all’estremo, di plasmare le cose umane facendo completamente a meno di Dio ci conduce sempre di più sull’orlo dell’abisso, verso l’accantonamento totale dell’uomo.” dice Spaemann. E continua : “Dovremmo allora capovolgere l’assioma degli illuministi e dire: anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita 'veluti si Deus daretur', come se Dio ci fosse. Questo è il consiglio che già Pascal dava agli amici non credenti; è il consiglio che vorremmo dare anche oggi ai nostri amici che non credono. Così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgentemente bisogno".
Proviamo allora a chiederci in che cosa e come cambierebbe la nostra vita se accettassimo questo consiglio? Coltivare e sviluppare in noi la dimensione trascendente e spirituale, propria della religione, renderebbe la nostra vita di uomini e di donne del terzo millennio migliore o peggiore di quanto lo sia oggi, in rapporto a noi stessi, agli altri e al mondo che ci circonda? Certamente si tratterebbe di andare nella direzione esattamente opposta a quella che si è deciso di seguire ad Oxford, dove si sono adeguati alle vecchie logiche dell’etsi Deus non daretur, secondo cui Dio, con tutto quello che lo riguarda, è ritenuto ancora oggi un impiccio.
Per non rischiare di perderci nei meandri dei ragionamenti filosofici e aiutarvi a pensare il più concretamente possibile che cosa significa vivere come se Dio esistesse, provate a fare queste riflessioni davanti all’umile semplicità di un presepe. Avete presente quell’atmosfera di assoluta armonia tra cielo e terra, dove nessuno è escluso e tutti sono felici e contenti di ciò che hanno e di stare al loro posto? Il solo fatto di riuscire ad immaginare (tanto da rappresentarla!) che questa condizione paradisiaca possa sostituirsi alla nostra tribolata esistenza terrena, vuol dire che questa cosa non è irreale, ma possibile. Natale infatti è il paradiso che sboccia sulla terra. Il Dio che si è fatto uomo non viene per dividerci, ma per unirci. Egli non vuole limitare nessuno nella sua libertà, ma anzi vuole potenziare il nostro cuore per renderlo capace di desiderare, inseguire e costruire una vera realtà di pace, di giustizia e di bene per tutti. Per il prossimo Natale vi auguro allora di imparare a vivere come se Dio esistesse.
Buon Natale e felice 2009 a tutti!
Don Marco Belladelli.
Dicembre 2008
PIO XII, PAPA PACELLI.
Il 9 Ottobre 1958 nel palazzo apostolico di Castel Gandolfo moriva il Papa Pio XII, al secolo Eugenio Maria Giuseppe Pacelli. A cinquant’anni dalla scomparsa Benedetto XVI, commemorando solennemente il suo predecessore insieme con tutti i Vescovi, presenti a Roma per la XII Assemblea ordinaria del Sinodo, ha sottolineato come “Purtroppo il dibattito storico sulla figura del Servo di Dio Pio XII, non sempre sereno, ha tralasciato di porre in luce tutti gli aspetti del suo poliedrico pontificato”. Dunque, è lo stesso Ratzinger a riconoscere, suo malgrado, i problemi di interpretazione sorti attorno alla persona e all’operato di Papa Pacelli, sul quale ancora oggi sono aperte aspre polemiche tra chi lo vuole santo, esaltandone doti e virtù, e chi invece tende a ridimensionarne l’importanza storica e lo spessore umano ed ecclesiale. La sua imperdonabile colpa sarebbe stata quella di aver usato troppa indulgenza verso il nazismo. Egli è infatti il Papa della seconda guerra mondiale e degli anni non meno travagliati della ricostruzione e della guerra fredda. Salito al soglio di Pietro nella primavera del 1939, dopo pochi mesi dalla sua elezione si trova ad affrontare il drammatico problema di un conflitto bellico senza precedenti che, come un fulmine a ciel sereno, nel giro di poco tempo infiamma tutta l’Europa e il mondo intero.
Eugenio Pacelli, discendente di una famiglia della cosiddetta nobiltà nera, cioè della Roma papalina, è l’ultimo Papa “romano” in senso stretto. Nasce nel 1876, pochi anni dopo la presa di Roma da parte dei Savoia. Divenuto sacerdote nel 1899, vive il suo ministero sempre a servizio della Sede Apostolica, occupandosi anche di questioni rilevanti, come la redazione del nuovo codice di Diritto canonico. Divenuto Vescovo, fu mandato come nunzio apostolico prima in Baviera e poi a Berlino. Creato Cardinale nel ’29, l’anno seguente viene richiamato a Roma e nominato Segretario di Stato, divenendo così il primo e il più stretto collaboratore di Pio XI e, alla morte di questi, il successore.
Oggi si guarda sempre più a Pio XII come a colui che ha anticipato il Concilio Vaticano II. La centralità di Cristo nella vita della Chiesa e del cristiano, l’importanza fondamentale della Parola di Dio e della liturgia sono i temi teologici e pastorali presenti nelle sue encicliche Mystici Corporis, Divino affilante Spiritu e Mediator Dei e divenuti in seguito i punti di partenza della riflessione conciliare. Dietro la ieraticità con cui si presentava in pubblico, c’era un uomo favorevolmente interessato e ben disposto verso il progresso e la modernità, che in quegli anni cominciava a irrompere dentro la cultura e la società. Ciò che però ha caratterizzato più intensamente il suo pontificato sono le grandi sofferenze dell’umanità del suo tempo, di fronte alle quali non si sottrasse al doveroso e compassionevole compito di consolare sfollati e perseguitati, asciugare lacrime di dolore e piangere le innumerevoli vittime della guerra (Benedetto XVI). A riprova di ciò basta ricordare le parole pronunciate nel radiomessaggio natalizio del 1942, quando con voce rotta dalla commozione condannò apertamente la situazione di: "centinaia di migliaia di persone, le quali, senza veruna colpa propria, talora solo per ragione di nazionalità o di stirpe, sono destinate alla morte o ad un progressivo deperimento" (AAS, XXXV, 1943, p. 23), con evidente riferimento al dramma della Shoà in atto.
Al termine della guerra furono numerose le attestazioni di riconoscenza per tutto quello che aveva fatto a favore di chi soffriva e degli Ebrei in particolare. Golda Meir, futuro Primo ministro dello stato d’Israele, alla sua morte dichiarò: “Quando il martirio più spaventoso ha colpito il nostro popolo, durante i dieci anni del terrore nazista, la voce del Pontefice si è levata a favore delle vittime … Noi piangiamo la perdita di un grande servitore della pace". Isaac Herzog, Gran Rabbino di Gerusalemme prima e dopo l’ultimo conflitto mondiale, disse: “La morte di Pio XII è una grave perdita per tutto il mondo libero. I cattolici non sono i soli a deplorarne il decesso”. Israel Zolli, Rabbino capo di Roma dal ’39 al ‘44, quando nel Febbraio del ’45 si fece battezzare, scelse il nome di Eugenio, in segno di gratitudine verso quel Pontefice che tanto aveva fatto per gli Ebrei durante il periodo bellico. Di molte di quelle gesta lui fu in prima persona testimone e nella sua autobiografia (Eugenio Zolli, Prima dell’alba. Autobiografia autorizzata. Ed. San Paolo, 2004 MI ) ha parole di grande ammirazione e affetto verso Pio XII.
Anche in un recente convegno, svoltosi a Roma nel settembre scorso, organizzato dalla fondazione “Pave the Way”, presieduta dall’ebreo americano Gary Krupp, si è per l’ennesima volta rivelata priva di fondamento la tesi di un Papa antisemita e amico di Hitler.
All’origine dell’accusa c’è piuttosto il lavoro del KGB sovietico, che negli anni della guerra fredda non ha perso occasione per produrre dossier falsi contro Poi XII. A questo si è poi aggiunta anche l’opera teatrale Il Vicario, scritta da Rolf Hochhuth e messa in scena per la prima volta a Berlino nel ’63 da Erwin Piscator, nella quale si presenta un Pacelli omertoso davanti all’Olocausto e connivente con il nazismo. Questa etichetta è rimasta incollata addosso a Pio XII, forte più del furore cristianofobico di chi l’ha architettata, che non di una verità storicamente documentata.
La complessità dell’intreccio creatosi tra realtà dei fatti ed ideologia, mi fa preferire la prudenza e la pazienza di Papa Ratzinger, rispetto alla fretta di coloro che vorrebbero vedere il Pacelli quanto prima innalzato alla gloria degli altari. Con la prima si eviterà il rischio di cadere nell’eccesso uguale e contrario di chi sostiene acriticamente tesi infondate; con la seconda si è certi di arrivare, anche se in tempi più lunghi, a quella evidenza che si impone per se stessa, senza bisogno di ricorrere a mistificazioni o manipolazioni.
Don Marco Belladelli.
Novembre 2008
parola di dio!
“Parola di Dio!” è l’esclamazione con cui nella liturgia cristiana il lettore conclude la proclamazione del brano bibico. Della Parola di Dio si occuperà la XII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, rappresentativa delle Conferenze Episcopali di tutto il mondo, che si aprirà a Roma Domenica 5 Ottobre. A dar risalto all’evento contribuirà pure La Bibbia giorno e notte, cioè la lettura integrale, continuata e senza commento di tutti i 73 libri che compongono la Bibbia, organizzata dalla Rai e dal Vaticano nella settimana dal 5 all’11 ottobre e trasmessa in diretta su Rai Educational due. Il primo dei quasi duemila lettori che si alterneranno sarà il Santo Padre, Benedetto XVI, a cui doveva seguire il Rabbino capo della Comunità Ebraica di Roma, Riccardo Di Segni, che invece ai primi di Settembre ha ritirato la propria adesione, a detta degli organi di stampa, per motivi di opportunità. Un’iniziativa simile si è svolta anche a Mantova nel Marzo del 2007. Rispetto all’edizione mantovana, gli organizzatori romani hanno optato per una più chiara impostazione religiosa, nella quale sia ben evidenziata la sacralità e la centralità della Parola di Dio per l’uomo di ieri, di oggi e di sempre, e sia affermato il valore della Bibbia come libro ispirato da Dio.
Alla riscoperta della centralità della Parola di Dio per la vita e la missione della Chiesa e del singolo fedele ha contribuito in modo decisivo il concilio Vaticano II. Uno dei documenti più importanti e innovativi di quell’assise fu certamente la costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione, comunemente nota come Dei Verbum, nel quale fu definito il valore fondamentale della Parola di Dio per l’origine e lo sviluppo della fede. Fu il punto d’arrivo di un percorso iniziato molto tempo prima. Oltre un secolo fa muoveva i suoi primi passi il cosiddetto “movimento biblico”, al quale si deve lo straordinario impulso degli studi biblici nella prima metà del novecento e la nascita di importanti centri di diffusione sia delle conoscenze, sia di un metodo per accostarsi correttamente alla Sacra Scrittura. Uno dei più famosi al mondo è ancora oggi l’ Ecole biblique et archeologique francaise di Gerusalemme, fondato e diretto dai Padri Domenicani.
Negli anni immediatamente successivi al Concilio nelle Comunità cristiane, animate da pastori formati ad una più assidua e competente frequentazione dei testi sacri, questa nuova sensibilità biblica è cresciuta anche tra i fedeli comuni. Il cambiamento lo si è percepito soprattutto nella predicazione e nella catechesi, meno moralistiche e più ispirate ai testi sacri. In quasi tutte le parrocchie sono sorti gruppi che periodicamente s’incontrano per leggere, conoscere, approfondire la Parola di Dio e riflettere su di essa. In molti casi è stata ripresa l’antica pratica della lectio divina, mantenutasi viva nei secoli quasi esclusivamente nei monasteri, come un tesoro gelosamente custodito, oggi invece di nuovo più capillarmente diffuso tra il Popolo di Dio. La Parola di Dio è tornata così ad essere la prima mensa a cui ogni cristiano deve sedersi, per poi passare a nutrirsi con maggior giovamento del pane eucaristico.
Accanto a questo rinnovato interesse per la Parola di Dio, non mancano però i problemi e le difficoltà. Per evidenziarli con più oggettività è stata condotta a livello mondiale una indagine: “La lettura delle Scritture”, i cui risultati saranno offerti ai Padri sinodali per arricchire la loro riflessione. Il 28 Aprile scorso nella sala stampa della Santa Sede sono stati presentati i primi dati, dai quali emergono luci ed ombre. Sorprende, per esempio, che la secolarizzazione imperante in occidente non abbia spento le attese di speranza che gli uomini e le donne del nostro tempo hanno verso la Parola di Dio. Nell’ultimo hanno tre americani su quattro hanno letto una pagina della Bibbia. Il rapporto scende ad uno su quattro nella laicissima Spagna di Zapatero. Questa differenza tra gli Stati Uniti, e mondo anglosassone in genere, rispetto all’ Europa centro-occidentale è giudicato dai ricercatori più un effetto della secolarizzazione che non una causa. Lo testimonia la felice eccezione dell’Italia. Secondo loro, là dove, nonostante le difficoltà culturali e sociali, ci si impegna a valorizzare l’esperienza religiosa, essa continua ad essere una risorsa importante nella vita delle persone, anche in contesti di apparente scristianizzazione.
Resta comunque la difficoltà della comprensione, sia per una generalizzata ignoranza tipica dei nostri giorni su tutto ciò che è religione, sia per una oggettiva difficoltà di interpretazione dei testi sacri. Siamo infatti di fronte ad una letteratura prima tramandatasi oralmente, messa per iscritto soltanto in seguito, nell’arco di tempo di oltre un millennio che va dal mille avanti Cristo, fino al primo secolo dopo Cristo. Dobbiamo poi tener conto dell’intervento redazionale di diverse mani e di almeno altri duemila anni di trasmissione, mille e cinquecento dei quali attraverso l’opera di pazienti amanuensi. L’indagine infatti evidenzia che il Popolo di Dio ha bisogno non di essere convinto del valore della Sacra Scrittura, ma di essere aiutato a coglierne il significato e soprattutto il significato per la vita propria e per la vita comune. Lo strumento più efficace per una introduzione alla lettura della Parola di Dio rimangono ancora i gruppi biblici, variamente strutturati e finalizzati. Queste esperienze comunitarie sono pure il migliore antidoto contro il rischio di una comprensione fondamentalista, dove si va alla ricerca di risposte alle proprie insicurezze umane e sociali, o di un approccio di tipo individualistico e psicologizzante, in cui vengono invertiti i ruoli nel dialogo: l’io umano diventa il soggetto narrante e Dio colui che ascolta i miei problemi.
Ci auguriamo che il prossimo Sinodo abbia lo stesso effetto che ha avuto il Concilio Vaticano II più di quaranta anni fa, che cioè riesca a suscitare un nuovo entusiasmo da parte di tutti i cristiani per la Parola di Dio. Più si legge la Bibbia e più ci sarà pace per tutti nel mondo.
Don Marco Belladelli.
Ottobre 2008
GANDHI E MARTIN LUTHER KING
Sessant’anni fa, esattamente il 30 Gennaio 1948 fu assassinato per mano di un fanatico indù Mohandas Karamchard Gandhi, detto il Mahatma (la Grande Anima ), colui che guidò all’indipendenza dal colonialismo britannico tutto il subcontinente indiano, senza eserciti, armi e attentati, ma unicamente attraverso metodi e strategie del tutto non violente. Nato nel 1869, a ventiquattro anni, già laureato in giurisprudenza, si trasferì in Sudafrica, dove sperimentò personalmente la dura segregazione razziale praticata dalle autorità inglesi nei confronti della numerosa minoranza indiana. L’umiliazione e l’indignazione si trasformarono ben presto in impegno sociale e politico a favore dei suoi connazionali. Escluso come un assurdo lo scontro armato, egli scelse di sensibilizzare e di coinvolgere gruppi sempre più numerosi di persone in forme di resistenza passiva e di non collaborazione, come per esempio ribellioni civili e marce di protesta rigorosamente non violente, che alla fine si rivelarono efficacissimi strumenti di pressione contro il governo, tanto da ottenere notevoli risultati in termini di riforme, abrogazione di leggi discriminatorie e riconoscimento di diritti civili.
Nel 1915 tornò in patria e si unì ai movimenti indipendentisti, divenendo in breve tempo il leader del Partito del Congresso. Potendo ora contare sulla maggioranza della popolazione, cioè su centinaia di milioni di persone, le sue compagne non violente di disobbedienza civile provocarono il collasso del ferreo sistema coloniale inglese. Si cominciò nel 1919 con il boicottaggio di tutte le merci inglesi, per poi continuare con il rifiuto di pagare imposte ingiuste. Famosa è rimasta la marcia del sale contro l’omonima tassa, quando una marea sconfinata di Indiani sull’esempio del Mahatma si recarono sulle rive dell’Oceano per procurarselo direttamente. Più volte arrestato, egli rispose con scioperi della fame, attirando così ancor più l’attenzione di tutta l’India sulla sua persona, fino alla completa paralisi del paese. Il 15 Agosto del 1947 India e Pakistan furono finalmente indipendenti.
Un altro straordinario testimone della non violenza è stato Martin Luther King. Con lui ci spostiamo nei civilissimi Stati Uniti d’America, dove ancora negli anni ’50 e ’60, soprattutto negli stati del sud, era in vigore un ostinato sistema di segregazione razziale nei confronti dei negri. Nato ad Atlanta nel 1929, seguì le orme del padre, divenendo lui pure pastore della Chiesa Battista. E’ il 1 Dicembre del ’55, quando Rosa Parks viene arrestata perché in autobus si era rifiutata di cedere il posto a un bianco. Il reverendo King riuscì a convincere tutti i negri di Atlanta ad andare a piedi. Per più di cinquanta giorni gli autobus viaggiarono vuoti e la compagnia che li gestiva rischiò il fallimento. Siamo soltanto all’inizio della lotta non violenta che, nonostante le intimidazioni e le prepotenze si propagò per tutta l’America. Nel 1961 fu eletto presidente John Kennedy e il 1963 era l’anno centenario della liberazione degli schiavi da parte di Abramo Lincoln. Da allora in poi Martin Luther King decise di dedicarsi completamente alla causa. La città di Birmingham diventò il centro della protesta. Ad Aprile il ghetto venne chiuso con delle barricate. King guidò la marcia di migliaia di negri che pregando e cantando avanzarono pacificamente per rimuoverle. Furono picchiati senza opporre resistenza. Addirittura si offrirono spontaneamente per essere arrestati, tanto da riempire anche le carceri delle città vicine. Dopo poche ore furono tutti liberati, eccetto il Reverendo. Tenuto nel più completo isolamento e liberato quattro giorni dopo per il diretto intervento del Presidente, in questa occasione scrisse e pubblicò la famosa Lettera dal carcere di Birmingham, uno dei documenti più toccanti sul tema della lotta dell’uomo per la propria libertà. In Maggio ripresero le manifestazioni e la repressione si fece ancor più dura. Questa volta però gli atti di violenza della polizia locale si compirono sotto gli occhi di migliaia di giornalisti e quelle vergognose immagini fecero il giro del mondo, tanto che il Presidente in persona intervenne in televisione per denunciare davanti a tutto il Paese la gravità della situazione. Il 28 Agosto a sostegno dell’iniziativa presidenziale, che aveva presentato al Congresso la legge per la parità dei diritti civili tra bianchi e neri, a Washington si svolse la marcia dei 250.000, durante la quale Martin Luther King, circondato da un religioso silenzio pronunciò il famoso discorso: “Io ho ancora un sogno …”. La reazione dei razzisti irriducibili fu ancora più dura, tanto che quel 1963 si concluse con l’omicidio di John Kennedy a Dallas. Nel 1964 il Pastore battista venne insignito del premio Nobel per la pace, un riconoscimento che lo consacrò per sempre quale apostolo della non violenza contro qualsiasi forma di discriminazione e di ingiustizia. Negli anni successivi il movimento da lui guidato procedette tra fasi alterne. Alle sue iniziative si contrapposero continue repressioni e rivolte in tutto l’America. Il 4 Aprile del 1968 venne assassinato a Memphis. Durante i suoi funerali, celebrati dal vecchio padre, furono diffuse queste sue parole:
“Se qualcuno di voi sarà qui nel giorno della mia morte, sappia che non voglio un grande funerale. E se incaricherete qualcuno di pronunciare un'orazione funebre, raccomandategli che non sia troppo lunga. Ditegli di non parlare del mio Premio Nobel, perché non ha importanza; e neppure dei diplomi, delle onorificenze, delle lauree, perché non ha importanza. Dica che fui una voce che gridò nel silenzio per la giustizia. Dica che tentai di spendere la mia vita per vestire gli ignudi, nutrire gli affamati, che tentai di amare e di servire l'umanità.”.
E’ fin troppo evidente l’origine evangelica di questi pensieri, così come di ogni parola e di ogni iniziativa di Martin Luther King, messaggio, quello evangelico, per il quale anche Gandhi ha avuto la massima ammirazione e venerazione.
A sessanta e quarant’anni dalla loro morte, tutto ciò che hanno detto e fatto lo si sente quanto mai vivo ed attuale. In un mondo come il nostro, dove violenza e razzismo rappresentano ancora piaghe aperte e sanguinanti, ci è fatto obbligo di accogliere la loro coraggiosa testimonianza, suggellata dal sacrificio della vita, come una preziosa eredità, che attende ancora di essere trasformata in moneta corrente del nostro vivere sociale.
Don Marco Belladelli.
Settembre 2008
da colonia, a sydney, a Madrid.
Esattamente tre anni fa inauguravo questa rubrica, “RADICI CRISTIANE”, su MANTOVACHIAMGARDA con un articolo riguardante la Giornata mondiale della Gioventù, che si sarebbe svolta di lì a pochi giorni a Colonia, in Germania. Era la prima uscita internazionale di Papa Ratzinger, eletto al soglio pontificio da poco più di tre mesi, e gli occhi indiscreti dei mass media erano tutti puntati su di lui, pronti naturalmente, come delle comari pettegole, a fare il confronto con il grande Giovanni Paolo II che, soprattutto nell’incontro con i giovani di tutto il mondo, aveva manifestato la straordinaria forza carismatica della sua persona.
Senza mai contrapporsi a Papa Woityla, Benedetto XVI con la sua mitezza unita alla ferma determinazione di servire Cristo e il suo Vangelo, ha saputo imprimere a questi appuntamenti una sua specifica impronta. Con la forza della sua parola sa lasciare un segno profondo nei suoi interlocutori, per quella chiarezza di messaggio, che riesce ad incidere in modo significativo sul pensiero e sulla vita delle persone che incontra. Egli persegue un disegno ben preciso, che sta via, via realizzando nelle diverse occasioni che gli sono offerte dal suo ministero. Il suo obiettivo è di far uscire la Chiesa e l’umanità dalle sabbie mobili della modernità, in cui sono cadute a causa dei mutamenti socio-culturali verificatisi soprattutto negli ultimi decenni, e in cui rischiano di soffocare. Vuole indurle a riprendere il loro cammino nella storia con Dio, in Dio e verso Dio, senza il quale non c’è futuro per nessuno.
Cerchiamo allora di capire che cosa è successo il mese scorso a Sydney. L’Australia si trova rispetto a noi letteralmente nella parte opposta del mondo, un paese grandissimo, tanto quanto un continente, abitato da circa 21 milioni di persone, concentrati soprattutto attorno ai grandi centri urbani, distanti migliaia di km l’uno dall’altro. I cattolici sono poco più del 25% di tutta la popolazione. Per la distanza dall’Europa e per il contesto socio-culturale molto diverso da quelli della Roma del grande giubileo del duemila, non c’erano le folle oceaniche che abbiamo visto a Tor Vergata otto anni fa. Però alla fine la XXIII Giornata mondiale della gioventù ha raggiunto comunque la considerevole cifra di 400 mila presenze. Benedetto XVI ha parlato ai giovani quattro volte: giovedì 17/07, in occasione della festa di accoglienza, venerdì 18/07, in un incontro con un gruppo di giovani disadattati, sabato 19/07, durante la veglia notturna, e domenica 20/07, nella solenne S. Messa di conclusione. Al centro di questi interventi c’era un unico grande tema: “Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni. (At 1,8)”, cioè il richiamo alla presenza e all’opera dello Spirito Santo nel mondo, quale Protagonista e Artefice, ieri come oggi, della vita della Chiesa. Agli inizi la fede in Cristo risorto ha saputo rigenerare lo spirito dell’uomo, erede della cultura greco-romana, oggi invece ha davanti a sé la sfida dell’avido cinismo contemporaneo del tutto facile e del tutto dovuto, che soprattutto per molti giovani si risolve nell’obnubilamento dello sballo più totale. Di fronte a questa situazione disordinata e disarmonica, il Papa insieme ai giovani s’interroga: “Qual è la nostra risposta, come testimoni cristiani, a un mondo diviso e frammentato? Come possiamo offrire la speranza di pace, di guarigione e di armonia a quelle "stazioni" di conflitto, di sofferenza e di tensione attraverso le quali voi avete scelto di passare con questa Croce della Giornata Mondiale della Gioventù?”. La risposta sta in ciò che siamo e nel Dono di cui Dio ci ha abbondantemente riempito. Voi, dice il Santo Padre, siete nuove creature e lo Spirito è la vostra forza: “Carissimi giovani, abbiamo visto che è lo Spirito Santo a realizzare la meravigliosa comunione dei credenti in Cristo Gesù. Fedele alla sua natura di datore e insieme di dono, egli è ora all’opera mediante voi. … Fate sì che l’amore unificante sia la vostra misura; l’amore durevole sia la vostra sfida; l’amore che si dona la vostra missione!”
Dopo che tre anni fa a Colonia, soffermandosi sulla testimonianza di grandi santi, cioè di quegli uomini e di quelle donne che con coraggio hanno affrontato le grandi sciagure della storia, quali il nazismo, il comunismo o altre piaghe del loro tempo, aveva presentato ai giovani il Cristianesimo come l’unica vera rivoluzione sempre in atto, ora a Sydney ha addirittura annunciato l’inizio prossimo di una nuova era: “Rafforzata dallo Spirito e attingendo ad una ricca visione di fede, una nuova generazione di cristiani è chiamata a contribuire all’edificazione di un mondo in cui la vita sia accolta, rispettata e curata amorevolmente, non respinta o temuta come una minaccia e perciò distrutta. Una nuova era in cui l’amore non sia avido ed egoista, ma puro, fedele e sinceramente libero, aperto agli altri, rispettoso della loro dignità, un amore che promuova il loro bene e irradi gioia e bellezza. Una nuova era nella quale la speranza ci liberi dalla superficialità, dall’apatia e dall’egoismo che mortificano le nostre anime e avvelenano i rapporti umani. Cari giovani amici, il Signore vi sta chiedendo di essere profeti di questa nuova era, messaggeri del suo amore, capaci di attrarre la gente verso il Padre e di costruire un futuro di speranza per tutta l’umanità.”.
Si poteva dare un messaggio più forte e coraggioso, quale è stato l’annuncio di una prossima “nuova era” per l’umanità? Una realtà tanto vicina quanto la nuova generazione di cristiani, cioè i figli di coloro che erano presenti a Sydney. Una realtà tanto nuova quanto lo è un amore puro, fedele, libero rispettoso e aperto; o quanto lo può essere una speranza che ci libera dalla superficialità, dall’apatia e dall’egoismo. L’arrivederci a Madrid fra tre anni, non è allora una pura formalità. Esso è pieno di quella stessa forza di beatitudine con cui gli Apostoli, dopo la Pentecoste, hanno infiammato il mondo con la loro fede, la loro speranza e il dono dell’amore di Dio per tutti.
Don Marco Belladelli.
Agosto 2008
L’anno Paolino
Sabato 28 Giugno scorso, nella Basilica romana di San Paolo fuori le mura, Papa Benedetto XVI ha solennemente inaugurato l’ANNO PAOLINO, da lui stesso annunciato esattamente un anno fa nello stesso luogo. Si tratta di uno speciale anno giubilare in onore dell’apostolo Paolo, indetto in occasione del secondo millennio della sua nascita, databile storicamente fra gli anni 7 e 10 dopo Cristo.
San Paolo è uno dei personaggi più importanti della Chiesa delle origini e di tutti i tempi. A testimoniarlo ci sono i suoi viaggi missionari, per mezzo dei quali ha portato il Vangelo prima alla ristretta cerchia delle comunità giudaiche sparse nell’area mediorientale, e poi alla grande famiglia dei popoli pagani, cioè a tutti gli uomini, e le sue lettere, indirizzate alle comunità cristiane da lui fondate, o visitate, diventate, insieme ai quattro vangeli e agli altri scritti apostolici, il fondamento della fede cristiana. Il suo vero nome era Saul, o Saulo, come il primo re d’Israele. Tutti però lo conoscevano come Paolo, come lui stesso sempre si presenta all’inizio di ognuna delle sue tredici lettere. Era un ebreo originario di Tarso, città dell’Asia minore meridionale (oggi Turchia), vicina al confine siriano, divenuta al tempo della dominazione romana capitale della regione della Cilicia. Lui stesso si definisce un fariseo, formatosi alla scuola di Gamaliele, colui che invita il Sinedrio a desistere nella persecuzione contro gli apostoli, per non trovarsi a combattere contro Dio (cfr At 5,35ss). Sempre nel libro degli Atti degli Apostoli, Luca prima ci parla di Paolo come di un implacabile persecutore dei Cristiani, dopo la chiamata, ricevuta direttamente da Gesù, apparsogli sulla via di Damasco, lo descrive come il più appassionato degli apostoli nella predicazione del Vangelo, soprattutto ai pagani, cioè a coloro che non facevano parte del popolo eletto, l’antico Israele. Per questo verrà chiamato l’Apostolo delle genti. Comincia la sua missione insieme con Barnaba, poi la continua sostenuto da altri fratelli e discepoli, portando il Vangelo in tutto il mondo allora conosciuto, da Gerusalemme a Roma (secondo un’antica tradizione si dice sia arrivato fino in Spagna), dove è stato decapitato al tempo dell’imperatore Nerone. Sulla sua tomba è stata eretta la basilica che porta il suo nome, San Paolo fuori le mura. Essa sarà il centro di tutte le celebrazioni e le manifestazioni di questo anno paolino, che si concluderà il 29 Giugno 2009.
Più ancora che per la quantità e la vastità della sua missione, san Paolo è importante prima di tutto per l’autorevole annuncio della fede cristiana, dal quale emerge con forza e chiarezza la centralità di Cristo, rispetto alla legge mosaica, e l’attualità della sua potenza salvifica, alla quale tutti possono attingere in ogni tempo e in ogni luogo, unicamente per mezzo della fede e per la grazia del Battesimo. Il pensiero di Paolo meriterebbe ben altro approfondimento, ma non è questo il luogo e il momento opportuno.
Ciò che ha indotto il Papa a indire questo particolare giubileo è la straordinaria qualità della testimonianza di Paolo, il quale dopo la sua conversione sulla via di Damasco “passò senza esitazione dalla parte del Crocifisso e lo seguì senza ripensamenti. Visse e lavorò per Cristo; per Lui soffrì e morì”. La Chiesa di oggi ha assoluto bisogno di emulare la vita di questo grande Santo, perché, ieri come oggi, la sua azione “è credibile ed efficace solo nella misura in cui coloro che ne fanno parte sono disposti a pagare di persona la loro fedeltà a Cristo, in ogni situazione”. Con questa iniziativa si vuole di nuovo richiamare a tutti i credenti una delle esigenze fondamentali della testimonianza cristiana di tutti i tempi, che cioè agli occhi del mondo si diventa credibili soltanto quando si è pronti a sacrificare se stessi, senza riserve, fino a martirio, se fosse necessario.
La seconda finalità affidata a questa iniziativa è quella ecumenica. Ce la illustra il Papa stesso con le parole che ha usato dodici mesi fa:
“C’è infine un particolare aspetto che dovrà essere curato con singolare attenzione durante la celebrazione dei vari momenti del bimillenario paolino: mi riferisco alla dimensione ecumenica. L’Apostolo delle genti, particolarmente impegnato a portare la Buona Novella a tutti i popoli, si è totalmente prodigato per l’unità e la concordia di tutti i cristiani. Voglia egli guidarci e proteggerci in questa celebrazione bimillenaria, aiutandoci a progredire nella ricerca umile e sincera della piena unità di tutte le membra del Corpo mistico di Cristo”
Sappiamo che la piaga storica della divisione tra i Cristiani è una delle principali ragioni che indebolisce la forza della grazia dell’Amore di Dio, offerto a tutti gli uomini per mezzo del Signore Gesù, e offusca la luce della Verità, che egli ci ha donato con la sua Persona , Parola di Dio fatta carne. Ciò che sta particolarmente a cuore al santo Padre è soprattutto l’unità con la Chiesa ortodossa: da Costantinopoli ad Atene, da Mosca, a San Pietroburgo. Anche un’iniziativa come questa può risultare molto utile per “affrettare i tempi della piena comunione tra l’Oriente e l’Occidente”.
In questo speciale giubileo in onore dell’Apostolo delle genti verranno proposti una serie di eventi di varia natura: liturgici, culturali, ecumenici, pastorali e sociali, tutti ispirati alla spiritualità paolina. Sono previsti anche convegni di studio e speciali pubblicazioni su San Paolo e i suoi scritti, per far conoscere sempre meglio l’immensa ricchezza dell’insegnamento in essi racchiuso, vero patrimonio non soltanto della Chiesa, ma di tutta umanità. Tutto il mondo sarà coinvolto, specialmente quei luoghi e quelle realtà che portano il nome del Santo, o che si ispirano alla sua figura e al suo carisma. Riscoprire san Paolo, credo che a conti fatti possa fare bene un po’ a tutti.
Don Marco Belladelli.
Luglio 2008
I Martiri Cristiani del XX secolo
Lunedì 7 Aprile scorso, nel pomeriggio, il Santo Padre, Benedetto XVI, ha visitato la Basilica di San Bartolomeo all’Isola Tiberina di Roma, per rendere omaggio alla memoria dei Martiri Cristiani del XX secolo e dei primi anni di questo terzo millennio di storia cristiana e venerarne le reliquie ivi raccolte. Fu Giovanni Paolo II, in occasione del grande Giubileo del Duemila, a volere questa chiesa come Santuario dei Martiri Cristiani del XX secolo.
Abituati a vivere in un contesto di super garantismo e di consolidata libertà religiosa, normalmente si pensa che le persecuzioni contro i cristiani siano cose d’altri tempi, finite con il famoso editto di Milano del 313 dell’allora imperatore Costantino. Se invece andiamo a guardare dentro le pieghe della storia, ci accorgiamo che questa scia di sangue non solo attraversa tutta l’era cristiana, ma addirittura proprio nel secolo che ci siamo appena lasciati alle spalle ha avuto una recrudescenza tale da lasciare senza parole. I dati parlano di oltre 45 milioni di uomini, donne e bambini, morti ammazzati in ragione della loro fede nel Signore Gesù.
In anni recenti le cronache dei grandi mezzi di comunicazione si sono occupate soltanto di quello che più ha colpito la pubblica opinione, come per esempio l’omicidio di don Andrea Santoro, avvenuto in Turchia nel Febbraio del 2006, o tornando più indietro nel tempo, l’assassinio in El Salvador del vescovo Oscar Romero, ucciso ventotto anni fa dagli squadroni della morte, mentre stava celebrando la S. Messa. Alla fine, l’impressione comune è di trovarsi di fronte a episodi dolorosi, ma altrettanto sporadici e circostanziati, più che a una vera e propria mattanza anticristiana. Se invece accanto a questi volti noti, ci mettiamo tutte le altre decine di milioni di sconosciuti, che hanno comunque pagato con la vita la loro appartenenza alla Chiesa, insieme allo sconcerto, non si può fare a meno di interrogarsi sui perché di un fenomeno tanto drammatico, quanto vasto.
Volendo tracciare un quadro cronologico e geo-politico del secolo del martirio, cominciamo dall’Asia, e precisamente dalla Cina, dove nei primi anni del ‘900 la cosiddetta insurrezione dei Boxers causò anche le prime stragi di cristiani. In questo paese le persecuzioni ripresero negli anni trenta fino a giorni nostri. I momenti più duri coincisero con l’ascesa al potere del regime comunista di Mao Tse Tung, negli anni ’50, e con la repressione seguita all’insurrezione di piazza Tien An Men del 1989. Sempre restando in Estremo Oriente, registriamo persecuzioni in Corea del Nord (dal ’49 ad oggi), in Indonesia e Timor Est, in Tailandia (tra gli anni ’30 e ’40) e nei vari paesi dell’Indocina, quali il Laos, la Cambogia e il Vietnam. Anche nelle cattolicissime Filippine non sono mancati i martiri cristiani negli anni della guerra tra il ’76-’77 e l’84-’85, tra i quali voglio ricordare anche il mantovano, già alunno del nostro seminario e poi missionario del PIME, padre Tullio Favali. Ci spostiamo a ovest e troviamo persecuzioni in India (dal ’49 al ’95) e in Bangladesh (’71-’74). Arriviamo così in Medio Oriente dove oltre alle persecuzioni vere e proprie, vengono messe in atto subdole politiche per reprimere qualsiasi segno e forma di presenza cristiana. Prima di passare alla vecchia Europa, non possiamo dimenticare il genocidio degli Armeni ad opera dei Turchi negli anni della prima guerra mondiale, fino al 1922. Nel vecchio continente sono soprattutto le deliranti ideologie del nazismo e del comunismo ad armare la mano dei carnefici. In Spagna negli anni che vanno dal 1931 al 1939 si contano decine di migliaia di vittime, di cui circa settemila consacrati tra vescovi, preti, frati e suore. Tutti conosciamo quello che è avvenuto nelle repubbliche dell’ex Unione Sovietica al tempo di Stalin, a proposito delle sue famigerate purghe. Dopo la seconda guerra mondiale la persecuzione divampa in modo sistematico in tutti i paesi del cosiddetto blocco sovietico, dalla Lituania all’Albania, senza risparmiare niente e nessuno. Il nazismo non fu meno feroce. Oltre ai sei milioni di Ebrei, radunati da tutta Europa, soltanto ad Auschwitz furono messi a morte più di tre milioni di cattolici polacchi. A questi dobbiamo aggiungere le altre migliaia rastrellati in Germania, Austria, Francia e Italia. Nell’America centrale e meridionale le violenze di matrice religiosa sono spesso collegate ai conflitti sociali e alle varie rivoluzioni da essi provocati. Si comincia in Messico con la rivoluzione del 1911, le cui conseguenze repressive nei confronti dei cristiani si protrarranno fino agli anni ’40. Attraverso Cuba, dagli anni ’60 in poi, la guerriglia militarizzata sotto diversi nomi si diffonde in tutti i paesi latinoamericani: Argentina, Brasile, Perù, Bolivia, Colombia, Ecuador, Venezuela, El Salvador, Honduras, Guatemala, ecc. In Oceania i fatti più gravi si sono avuti nella Nuova Guinea negli anni ’40. Concludo questo excursus con l’Africa, ricordando unicamente la dura repressione in atto fin dagli anni ’50 in Sudan, dove le comunità cristiane del sud del paese devono difendersi prima dal pericolo della schiavitù e poi dalle varie forme di repressione violenta, perpetrate dai fondamentalisti islamici, appoggiati dal governo, che negli ultimi vent’anni hanno causato più di tre milioni di vittime.
Le realtà che oggi continuano a mietere vittime tra i cristiani sono i regimi assolutisti, particolarmente quelli che si richiamano al socialismo e/o al comunismo, e il fondamentalismo mussulmano.
Di fronte a tanta sofferenza, Tertulliano, retore cristiano vissuto a Roma tra il 2° e il 3° secolo, rivolto ai persecutori, diceva: “Noi ci moltiplichiamo ogni volta che siamo mietuti da voi: il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani”. A commento di queste parole, Benedetto XVI, nella sua recente visita all’Isola Tiberina ha aggiunto: “Nella sconfitta, nell’umiliazione di quanti soffrono a causa del Vangelo, agisce una forza che il mondo non conosce, … E’ la forza dell’amore, inerme e vittorioso anche nell’apparente sconfitta. E’ la forza che sfida e vince la morte”. Come dire che il grande sacrificio del XX secolo è la premessa per una nuova fioritura della fede e per l’espansione del Cristianesimo, proprio là dove oggi esso è ancora combattuto.
Don Marco Belladelli.
Giugno 2008
lourdes, 150 anni dopo.
Centocinquant’anni fa Lourdes era un piccolo e tranquillo borgo di qualche migliaio di abitanti, ai piedi dei Pirenei, nella regione meridionale della Francia, a poche decine di chilometri dal confine spagnolo. Dopo l’11 Febbraio 1858, non solo si è trasformata in una vera e propria città, famosa in tutto il mondo, ma soprattutto è diventata la meta di una ininterrotta processione di milioni di pellegrini, che ogni anno vanno davanti alla nera roccia della grotta di Massabielle, alla ricerca della salute del corpo e dell’anima per sé e per i propri cari. Quel giorno infatti, una ragazzetta dodicenne di nome Bernadette Suobirous, confidò alla madre di aver visto in quel luogo, per niente ameno, posto sulla riva sinistra del fiume, distante circa un miglio dal centro del paese, una bianca “Signora”, presentatasi un mese e mezzo dopo, e precisamente il 25 Marzo seguente, come l’ Immacolata Concezione. Le apparizioni furono in tutto diciotto, l’ultima il 16 Luglio.
In quegli anni i Soubirous stavano attraversando il momento più difficile e drammatico della loro esistenza. Il padre aveva perso il lavoro ed erano precipitati nella miseria più nera, tanto che i due genitori con i quattro figli furono costretti a trovare rifugio nel cachot, la prigione del paese, fortunatamente vuota. Vivevano alla giornata, tutti in un'unica stanza, un luogo umido e malsano, per niente adatto soprattutto alle precarie condizioni di salute di Bernadette, fin da piccola molto cagionevole alle vie respiratorie.
Prima del riconoscimento dell’autenticità delle apparizioni, non mancarono per la piccola veggente molte altre prove e difficoltà, a cominciare dall’iniziale sospetto delle autorità ecclesiastiche, dall’irrisione dei suoi compaesani, dal fastidio arrecato dalla notorietà, per finire poi con la dura opposizione da parte delle autorità civili. Pur se illetterata e minuta, tanta da dimostrare meno della sua età, Bernadette, con la sua umiltà ha sempre affrontato tutto e tutti con grande dignità e forza d’animo, dimostrando coerenza nei racconti e soprattutto fedeltà ai messaggi e alla missione che la Vergine di volta in volta le affidava, sapendo farsi rispettare anche da coloro che con arroganza la trattavano alla stregua di una vaneggiante visionaria. Dopo questi fatti, qualche anno dopo decise di consacrarsi nella vita religiosa presso la congregazione delle Suore di Nevers, dove morì prematuramente il 16 Aprile del 1879.
Il messaggio di Lourdes, nella sua tuttora viva attualità, testimoniata dalla moltitudine di persone che vi si sentono attratti, si riassume in tre punti: preghiera, penitenza e guarigione. La Madonna infatti ha chiesto che fosse costruita una cappella, di recarsi là, davanti alla grotta, in processione, raccolti in preghiera e che si facesse penitenza, invocando la misericordia divina per i propri ed altrui peccati. In cambio ha fatto scaturire dalla roccia una fonte nuova di acqua, invitando tutti a lavarsi e ad abbeverarsi ad essa, per avere sollievo da tutti i mali che ci affliggono e sentirsi ristorati nel corpo e nell’anima (cfr Mt 11,28). Quell’acqua a cui tutti attingono, che tutti portano a casa per sé e per gli altri e nella quale molti s’immergono, nelle vasche opportunamente predisposte, in qualsiasi stagione e con qualsiasi tempo, è il segno della grazia divina che dalla grotta si diffonde in tutto il mondo, senza distinzioni e differenze tra le persone. Grazia di cui molti hanno beneficiato e che si è manifestata soprattutto nei famosi miracoli, che caratterizzano la storia di Lourdes. Quelli ufficialmente riconosciuti dalla Chiesa e dalla scienza sono meno di settanta, perché non tutti coloro che hanno ricevuto un tale dono hanno avuto la forza di testimoniarlo e la pazienza di sottoporsi a tutte le verifiche tecnico-scientifiche necessarie a dimostrare l’eccezionalità e la straordinarietà dell’intervento soprannaturale.
Un altro segno di Lourdes è la luce. Ogni sera infatti si svolge la caratteristica processione aux flabeaux, cioè una fiaccolata. All’ora stabilita ci si ritrova davanti alla grotta, con in mano una candela accesa, e recitando il rosario, si percorrono i viali del santuario, fino davanti alla basilica omonima, quella appunto del Santo Rosario, dove al termine tutti i sacerdoti riuniti sul sagrato, impartono ai presenti la benedizione. Un modo semplice, ma altrettanto efficace per esprimere quello che ha detto Gesù: il cristiano è la luce del mondo (cfr Mt 5,14), chiunque esso sia e dovunque si trovi.
Dopo aver ricordato il messaggio e i segni dell’acqua, della roccia, dei malati e della luce, ci resta da dire: che cosa si va a fare a Lourdes? Si va a pregare. Risposta tanto ovvia, quanto scontata. Non lo è, se pensiamo a come abitualmente coniughiamo la nostra vita. Quello che ogni giorno sembra difficile a farsi, per non dire impossibile, e che rispetto a tante necessità giudichiamo un di più, se non del tutto inutile, là diventa la principale occupazione della giornata. A Lourdes non c’è persona che non abbia il rosario in mano in qualsiasi momento della giornata, non come un oggetto di circostanza, ma come lo strumento e il segno di quella preghiera incessante che ininterrottamente sale a Dio e purifica i cuori degli uomini. A Lourdes tutti pregano, molti sentono il bisogno di confessarsi, altri ancora con generosa e cristiana carità aiutano gli ammalati.
Concludo con un paio di numeri a conforto di quanto si è detto. Il primo a cui ho già più volte accennato sono i sei e più milioni di uomini e donne, di qualsiasi ceto sociale, provenienti dai cinque continenti, che ogni anno vi si recano, per compiere quei gesti semplici, sopra descritti, per mezzo dei quali ancorare la propria vita a quella Speranza che non delude (cfr Rom 5,5), in quel luogo meglio percepita e partecipata, attraverso la straordinaria mediazione di Maria. L’altro numero su cui riflettere è il secolo e mezzo di storia di questa esperienza. Dopo tutto questo tempo mantiene ancora la stessa forza e originalità, come il primo giorno. Si possono addurre tante ragioni umane, ma nessuna risulterà alla fine decisiva, come il riconoscere che da centocinquant’anni Lourdes è diventata e continua ad essere una particolarissima porta di acceso al Cielo per l’uomo di oggi. Questo è il vero miracolo.
Don Marco Belladelli.
Maggio 2008
Padre Pio.
“Farò più rumore da morto che da vivo”. Chi disse questa frase fu Padre Pio quando era ancora in vita, in risposta a coloro che gli facevano notare l’interesse straordinario, forse per qualcuno un tantino sproporzionato, accompagnato a volte anche da espressioni più prossime al fanatismo che alla fede, suscitato dalla sua persona. E di quanto fossero vere queste parole profetiche, ce ne siamo accorti tutti quanti il 6 Gennaio scorso, quando il vescovo di Manfredonia–Vieste-San Giovanni Rotondo, Mons. D’Ambrosio, annunciò l’imminente ostensione pubblica straordinaria dei resti mortali di San Pio da Pietrelcina, popolarmente e più comunemente conosciuto come Padre Pio, in coincidenza con il quarantesimo anniversario della sua morte. Al semplice annuncio dell’iniziativa sono immediatamente seguite notevoli reazioni contrapposte, tra chi entusiasticamente plaudiva e chi invece vi si opponeva duramente, fino a richiedere l’intervento della magistratura, per impedire l’apertura della tomba.
Domenica 2 Marzo scorso, in un ora del tutto insolita, tra le 21,30 e le 23, scelta appositamente per evitare manifestazioni clamorose, come l’indiscrezione invadente e curiosa delle telecamere e dei microfoni dei mass media, e soprattutto possibili esagitate proteste, inscenate da coloro che si erano dichiarati ostinatamente contrari, si è proceduto alla riesumazione. Dopo un momento di preghiera davanti ad una assemblea di qualche decina di persone, accuratamente selezionate, le autorità competenti hanno tolto i sigilli alla bara e, dopo averla scoperchiata, hanno fatto una prima ricognizione de visu dello stato di conservazione della salma. Nei giorni successivi la commissione degli esperti appositamente costituita, ha cominciato ad eseguire i necessari interventi di conservazione. Ogni operazione, anche la più banale, verrà scrupolosamente registrata in un verbale notarile e minuziosamente documentata con tutti i mezzi scientifici e tecnologici, oggi a disposizione. L’ostensione inizierà il 24 Aprile prossimo e avrà una durata minima di se mesi. Non si esclude un prolungamento dei tempi, in previsione dell’eccezionale afflusso di fedeli.
Al di là di ogni valutazione circa l’opportunità o meno di questa manifestazione, c’è da dire che tra le varie operazioni contemplate dalla Chiesa nella promozione del culto dei santi, in occasione della beatificazione, della canonizzazione, o in coincidenza con qualche anniversario importante con riferimento alla nascita, alla morte o a qualche altro evento particolare della vita o dell’opera del santo stesso, è prevista anche la ricognizione dello stato di conservazione delle reliquie o del corpo. Insomma quello che sta avvenendo per Padre Pio, lo si fa abitualmente anche per tutti gli altri santi, ovviamente con molto meno clamore e risonanza.
Sono novant’anni che Padre Pio fa parlare di sé, esattamente da quel 20 Settembre del 1918, giorno in cui sul suo corpo comparvero improvvisamente e misteriosamente le stigmate, cioè le cinque piaghe che ricordano la crocifissione di Gesù. Fino ad allora la sua straordinarietà era conosciuta soltanto da coloro che lo avevano frequentato personalmente per consuetudine e familiarità. Dopo invece divenne famoso in tutto il mondo. Insieme a questo segno, Padre Pio ha ricevuto tanti altri carismi, quali le visioni a distanza, nello spazio e nel tempo, la capacità di leggere nei cuori umani per indurli alla conversione o per procurare loro guarigione fisica e/o spirituale, la bilocazione, il potere di liberazione da qualsiasi legame col maligno, insieme anche ad una capacità sovrumana di sopportare dolore e sofferenze, fame e sete. Tutti questi doni inequivocabilmente di origine soprannaturale, non li ha mai esercitati per interesse personale, ma li ha sempre messi a disposizione esclusivamente di coloro che accorrevano a lui per avere sollievo dalle loro pene e sofferenze, sia del corpo che dello spirito.
Di nessun santo o personaggio storico si sono prodotte tante pubblicazioni, come per lui, soprattutto dopo la sua morte. La sua bibliografia continua ad arricchirsi di nuovi titoli anche ai nostri giorni. E’ dell’autunno scorso l’ultima polemica suscitata dallo storico Sergio Luzzatto, docente di storia presso l’università di Torino, secondo il quale, analizzando certi documenti prodotti dalle varie inchieste ecclesiastiche condotte nei confronti del Cappuccino del Gargano in seguito alla comparsa delle stigmate, si dedurrebbe che ci troviamo di fronte ad una inequivocabile impostura. Ai libri si sono aggiunte le varie fiction prodotte in occasione della sua beatificazione prima e canonizzazione poi, le quali hanno ancor più contribuito a espandere la sua popolarità.
Nonostante tutto questo, la figura di Padre Pio è stata e continua ad essere un mistero non soltanto per la scienza e la medicina, ma prima di tutto per la Chiesa. Allora ci chiediamo: era proprio necessaria questa ostensione? Che cosa aggiunge alla sua santità? Il noto giornalista e scrittore Antonio Socci ci aiuta a rispondere a questa domanda. Lui pure ha voluto confrontarsi con la figura di Padre Pio e ci ha raccontato il risultato finale in un volume pubblicato recentemente, dal titolo Il segreto di Padre Pio, edito da Rizzoli. A suo dire la missione del barbuto seguace di san Francesco, sintetizzata in questa sua frase, scritta nel lontano 1915: “Tutti i tormenti di questa terra raccolti in un fascio, io li accetto, o mio Dio, io li desidero qual mia porzione, ma non potrei giammai rassegnarmi di essere separato da voi per mancanza di amore”, non è ancora finita, ma si prolunga nel tempo. Insomma Padre Pio è un segno forte, concreto e ben radicato nella storia, contro il quale tutti prima o poi, bene o male, andiamo ad inciampare, fino a quando non ci convinceremo della Bontà e della Verità dell’opera di salvezza compiuta da Gesù per tutti gli uomini e ci arrenderemo ad essa.
Don Marco Belladelli.
Aprile 2008
i fratelli maggiori.
Nell’Agosto scorso ho dedicato il nostro appuntamento mensile su MANTOVACHIAMAGARDA al ritorno della liturgia pre-conciliare. Questo provvedimento di Papa Benedetto XVI ha suscitato molte reazioni, favorevoli e contrarie, all’interno e all’esterno della Chiesa. Avvicinandosi la Pasqua, tra i tanti problemi legati all’uso del messale di San Pio V c’è anche la famosa preghiera del Venerdì santo per gli Ebrei. Spieghiamo per i non addetti ai lavori di che cosa si tratta. Nel giorno in cui la Chiesa celebra la passione e la morte del suo Salvatore, il Signore Gesù Cristo, prima dello scoprimento della croce e del successivo atto di adorazione con il bacio, la liturgia prevede dieci intenzioni di preghiera nelle quali sono riassunte tutte le necessità del mondo e di tutti gli uomini, a cominciare dal Sommo Pontefice fino al più misero e indegno dell’umanità. Su tutti e per tutti viene invocata la potenza e la grazia della misericordia divina, ottenutaci per mezzo del sacrificio di Gesù. Tra queste preghiere è prevista anche una intenzione specifica per il popolo ebraico. Fin qui niente di male. Sennonché nel testo dell’antica liturgia di San Pio V si parla di “perfidi Giudei” e di “perfidia giudaica”, accuse molto pesanti in un contesto così solenne e pubblico, che da sempre hanno rappresentato come un insormontabile ostacolo nel rapporto e nel dialogo tra Ebrei e Cristiani.
Negli ultimi cinquanta anni si è cercato gradualmente di smussare la durezza di quel giudizio. Prima di tutto nel 1959 è stato tolto l’aggettivo “perfidi”. Dopo il Concilio, nel 1970 con l’introduzione del messale di Paolo VI, il testo della famigerata preghiera è stato addirittura cambiato nel modo seguente: “Preghiamo per gli ebrei: il Signore Dio nostro, che li scelse primi fra tutti gli uomini ad accogliere la sua parola, li aiuti a progredire sempre nell'amore del suo nome e nella fedeltà alla sua alleanza. Dio onnipotente ed eterno, che hai fatto le tue promesse ad Abramo e alla sua discendenza, ascolta la preghiera della tua Chiesa, perché il popolo primogenito della tua alleanza possa giungere alla pienezza della redenzione. Per Cristo nostro Signore.”.
Nonostante che la stragrande maggioranza dei cattolici faccia uso di questa formulazione e dopo anni di cammino comune nel solco del reciproco rispetto e di una sempre più stretta conoscenza tra Cristiani ed Ebrei, il ritorno della vecchia preghiera, anche se nell’edizione purgata successiva al ’59, non poteva non suscitare la reazione infastidita da parte della Comunità ebraica, soprattutto italiana. Il 4 Febbraio scorso, dopo un fitto giro di consultazioni bilaterali, la Segreteria di Stato vaticana pubblicava una nota nella quale si emendava il testo del messale antico con la seguente preghiera: Preghiamo per gli Ebrei. Il Signore Dio Nostro illumini i loro cuori perché riconoscano Gesù Cristo Salvatore di tutti gli uomini. Dio Onnipotente ed eterno, Tu che vuoi che tutti gli uomini si salvino e giungano alla conoscenza della verità, concedi propizio che, entrando la pienezza dei popoli nella tua Chiesa, tutto Israele sia salvo. Per Cristo Nostro Signore. Amen”
Pur essendo spariti nella nuova formulazione qualsiasi espressione che potesse assomigliare ad un’ingiuria, come era nel testo antico, tutto questo non è stato sufficiente per evitare nuove reazioni fortemente polemiche. Ciò che ora infastidisce è che si chieda a Dio la conversione del popolo ebraico, quando si dice: “perché riconoscano Gesù Cristo Salvatore di tutti gli uomini”.
Fu Giovanni Paolo II a usare la felice espressione “i fratelli maggiori”, rivolgendosi agli Ebrei in occasione della sua storica visita alla sinagoga di Roma, il 13 Aprile del 1986. Naturalmente disse molto di più, affermando: “La religione ebraica non è “estrinseca”, ma in un certo qual modo “intrinseca” alla nostra religione. Abbiamo quindi verso di essa dei rapporti che non abbiamo con nessun’altra religione. Siete i nostri fratelli prediletti”. Insomma “Chi incontra Gesù Cristo, incontra l’ebraismo”.
Non credo si potessero trovare parole più chiare e tanto inequivocabili per definire il profondo legame che unisce Cristiani ed Ebrei, costituito dalle comuni radici, a cominciare dall’esperienza e dalla storia del patriarca Abramo, nostro padre nella fede, come lo definisce la liturgia. Riconoscersi su una base comune storicamente così ampia e profondamente significativa sul piano della cultura e dei valori espressi, è più che mai sufficiente a giustificare il dialogo, la stima reciproca e soprattutto la stretta collaborazione per tutto ciò che rappresenta il bene comune e la pacifica convivenza dell’umanità. E’ altrettanto indubitabile che a turbare questo cammino comune e la conoscenza reciproca resti oggi, come ieri, ed anche per il futuro, lo scandalo della tragedia della Shoà, provocata dalla follia nazista, che tentò di cancellare dall’Europa la presenza degli Ebrei.
Invece l’irritazione dei Rabbini di oggi di fronte alla preghiera del Venerdì santo, perché si chiede a Dio che illumini il cuore degli Ebrei e riconoscano Gesù come Salvatore di tutti gli uomini, mi ricorda molto l’atmosfera che si respirava a Gerusalemme duemila anni fa, quando nei giorni successivi alla risurrezione si voleva proibire agli apostoli Pietro e Giovanni, ripetutamente incarcerati dal Sinedrio, di annunciare il Signore Gesù (vedi Atti degli Apostoli capp. 4 e 5). Per gli Ebrei, la fedeltà a quello che è chiamato “l’Israele Eterno” rimane anche oggi l’ostacolo principale che impedisce loro di accogliere Gesù e di fronte al quale si è fermato il cammino del popolo eletto. Ogni confronto leale e ogni dialogo sincero non può pretendere di far passare sotto silenzio quelle che sono le differenze che ci distinguono. Anzi, attraverso di esse non soltanto impariamo ad amarci e a rispettarci, ma soprattutto ad apprezzare la bellezza e la grandezza della realtà che Dio ci ha donato e alla quale ci ha chiamati per mezzo del Signore Gesù. Buona Pasqua a tutti!
Don Marco Belladelli.
Marzo 2008
il ritorno di molti alla fede.
La notizia è di qualche giorno prima di Natale. Tony Blair, già primo ministro per dieci anni della anglicana Gran Bretagna, si è convertito al cattolicesimo, ricevendo la prima Comunione dalle mani dell’arcivescovo di Westminster e cardinale di Londra, Sua Eminenza Cormac Murphy O’Connor. Non si tratta di una vera e propria sorpresa. La cosa era nell’aria già da alcuni anni. Del resto nella sua famiglia, la moglie e i quattro figli, sono tutti cattolici. Con loro Tony Blair già da tempo partecipava alla S. Messa. Mancava soltanto il passo ufficiale, per il quale ha atteso prima di dare le dimissioni da premier, per evitare polemiche politiche e soprattutto contraccolpi istituzionali, visto che dal XVI secolo, cioè da quando Enrico VIII per divorziare da Anna Bolena ha voluto la separazione della Chiesa inglese da Roma, in Inghilterra il Re (o la Regina) è anche capo della Chiesa anglicana, e l’ultimo primo ministro cattolico fu Tommaso Moro, imprigionato e martirizzato dal suddetto Enrico VIII, perché si era opposto alla sua decisione.
Negli ultimi quindici anni ci sono stati tanti altri casi di conversione, di ritorno alla fede e di riscoperta dei valori spirituali, propri della religione, da parte di personaggi famosi. Si è parlato addirittura di una conversione del Presidente Pertini. Tutti sanno della stima e dell’amicizia che lo legava al grande Papa, Giovanni Paolo II. Secondo alcune indiscrezioni, si sarebbero incontrati segretamente nella tenuta di Castel Porziano per una quanto mai imprevista confessione. Alcuni di questi neo convertiti hanno raccontato le loro esperienze in libri, diventati veri e propri successi editoriali per l’interesse suscitato presso il grande pubblico.
Uno di questi è Leonardo Mondadori, nipote del più famoso Arnoldo, fondatore della omonima casa editrice, di cui divenne presidente nel ’91 fino al momento della morte, avvenuta nel dicembre 2002. In un libro-intervista dal titolo molto significativo: “Conversione. Una storia personale”, scritto a quattro mani insieme al noto pubblicista cattolico, Vittorio Messori, e pubblicato nel Marzo del 2002, qualche mese prima della sua morte, che ha venduto più di 100 mila copie, racconta la sua vita di giovane rampollo, erede di una delle più importanti famiglie della editoria italiana, e non solo, che, dopo la morte della madre e due matrimoni falliti alle spalle, incontra la testimonianza e la spiritualità di San Josemaria Escrivà de Balanguer, il fondatore dell’Opus Dei, un istituzione religiosa da molti guardata con diffidenza e sospetto. Egli invece ne rimane profondamente attratto. Siamo nel ’92 quando inizia il suo cammino di riscoperta della fede cristiana: “Un Cristianesimo al contempo moderno e tradizionale, aperto e rigoroso, libero e fedele. Vi ho trovato la sintesi vitale tra l’impegno nelle realtà terrestri e la tensione verso l’aldilà.” (p. 60). Cinque anni dopo invece scopre la malattia, causa della sua morte prematura. La sua fede si rafforza ancor di più, tanto da affermare: “Ormai non riuscirei più a chiudere la giornata senza rivolgermi a Dio: ne ricavo la certezza, sempre confermata, che non si tratta di parole al vento ma del dialogo fruttuoso di un Padre che ascolta i suoi figli.” (p.40).
Qualche anno è stato il turno di Donna Alessandra Romana dei Principi Borghese, discendente di una famiglia dell’alta aristocrazia, che ha avuto tra i suoi antenati anche un Papa, Camillo Borghese, salito al soglio pontificio con il nome di Paolo V. Anch’essa ha raccontato la storia della sua conversione in un testo pubblicato nel 2004 da PIEMME: Con occhi nuovi. Dopo una giovinezza fatta di dolce vita, divertimenti superficiali e burrasche sentimentali, nel ’98 inizia il cambiamento. La goccia che fa traboccare il vaso è l’incontro con una vecchia amica, la principessa Gloria Thurn und Taxis, capofamiglia di una delle più importanti dinastie europee. Insieme a lei inizia di nuovo a frequentare la Chiesa e a prendere sul serio Dio.
Dopo il grande borghese e la nobildonna, non poteva mancare l’ex comunista. Mi riferisco a Giovanni Lindo Ferretti, il suo nome forse è sconosciuto al grande pubblico. Era il cantante dei CCCP - Fedeli alla linea, un gruppo che ha lasciato il segno nel panorama musicale italiano per il genere rock, punk, filo sovietico. Nel suo Reduce, pubblicato nel 2006 da Mondadori, racconta il suo viaggio alla ricerca della propria anima e il suo ritorno alla fede. Dalla militanza nella sinistra extraparlamentare degli anni ’80, oggi è passato alla frequentazione della Comunità fondata da don Dossetti e a Comunione e Liberazione. E’ lui stesso ad affermare: A me m’ha rovinato il ’68! (p. 119), un abbaglio accecante, come pure tutta l’ideologia che da esso è scaturita. Ma per fortuna le cose cambiano ecco com’è: quello che c’era adesso non c’è (p. 11).
Personalmente, forse per una coincidenza anagrafica, certamente per una affinità di tipo culturale, mi sento più vicino all’esperienza di Giovanni Lindo Ferretti, rispetto a quanto hanno vissuto il Mondadori e la Borghese. Ma aldilà delle diverse sensibilità espresse dai vari protagonisti, le loro storie messe insieme rappresentano un inequivocabile segno del ritorno a Dio di questi nostri tempi. Se nel XX secolo non si è persa occasione per screditare la religione, in particolare il Cristianesimo, spesso presentato, a causa della crocifissione del suo Fondatore, come la religione dei vinti, se non addirittura dei vili, fino a pensare di poter organizzare una società, anzi, addirittura una umanità senza Dio, oggi non soltanto si è tornati a dare importanza alla fede sul piano personale, ma addirittura i temi religiosi vanno conquistando sempre più spazio nella sfera pubblica. Lo ha riconosciuto lo stesso presidente francese Sarkozy, sia nella sua recente visita a Roma, sia nel discorso tenuto al corpo diplomatico nel gennaio scorso. Tuttavia sono ancor molti i nostri contemporanei che resistono nei confronti di una tale prospettiva di salvezza. Prepariamoci, come cristiani sull’esempio del buon Samaritano, a piegarci su di essi, con tutta la misericordia di cui siamo capaci, per curare le loro ferite e fasciare le loro piaghe.
Don Marco Belladelli.
Febbraio 2008
Speranza per il mondo
Ogni inizio è sempre carico di speranza. Ce lo auguriamo anche per il nuovo anno che è appena cominciato. A sostegno del favorevole auspicio c’è anche la nuova enciclica di Benedetto XVI. Pubblicata il 30 Novembre scorso e annunciata dai soliti ben informati già quest’estate come un intervento sui temi sociali del nostro tempo, ancora una volta Papa Ratzinger spiazza tutti scegliendo invece di parlare della seconda virtù teologale, la Speranza. Il Santo Padre non si è smentito nemmeno nello stile. Nonostante la proverbiale mitezza del suo temperamento, che si avverte in modo tanto sorprendente e quasi disarmante soprattutto nell’incontro personale, quando interviene su un tema, in qualsiasi ambito, lascia da parte ogni timore reverenziale, per affrontare con coraggio le questioni sul tappeto. La sua parola, come un bisturi nella mano di un esperto chirurgo, riesce sempre a dipanare con chiarezza anche i problemi più complessi ed ingarbugliati.
La Spe salvi, questo è il titolo della nuova enciclica, si presenta come una grande lectio magistralis, che, a partire dal concetto cristiano di Speranza, si sviluppa lasciandosi incalzare dalle domande sorte in relazione a quanto si va progressivamente esponendo. Il discorso spazia dai problemi di ermeneutica teologica, al confronto con la cultura moderna, dalla testimonianza coraggiosa dei martiri e dei santi, alla valorizzazione dei fioretti, i piccoli sacrifici quotidiani per mezzo dei quali in un passato recente anche un bambino imparava a unire la propria vita a quella di Gesù.
L’originalità della Speranza cristiana consiste nell’assicurare già al presente quello che si spera per il futuro. Ciò che si vive e si sperimenta oggi diventa la prova certa, e non illusoria, di quanto di ancor più grande ci attende domani. “Il cielo non è vuoto. La vita non è un semplice prodotto delle leggi e della casualità della materia, ma in tutto e contemporaneamente al di sopra di tutto c'è una volontà personale, c'è uno Spirito che in Gesù si è rivelato come Amore” (n.5). Uno Spirito che ci conosce e che è possibile incontrare. La tensione che la Speranza suscita nella vita dell’uomo, gli fa desiderare quella beatitudine (o se si preferisce, la felicità), che ancora non conosciamo, ma dalla quale ci sentiamo straordinariamente attratti. L’impegno quotidiano per il pane del corpo e dell’anima, ci prepara per il Paradiso, che sta davanti a noi.
A questo punto dell’enciclica inizia il confronto con l’epoca moderna. Occupa circa un terzo di tutto il documento. Tanto rilievo evidenzia l’importanza di questo passaggio. E’ la parte infatti che più è stata presa in considerazione dai commentatori e nel corso dei vari dibattiti che sono seguiti. Ancora una volta il Papa va dritto al cuore della questione. La modernità è iniziata con un passaggio sconcertante: la sostituzione della fede in Dio con la fede nel progresso scientifico e tecnologico, dominato da una ragione perfettamente libera. Dall’analisi dei vari passaggi storici e culturali, viene fuori l’ambiguità del progresso e la necessità di una autocritica della modernità, e pure per un certo cristianesimo fortemente contagiato da essa.
L’enciclica si conclude con l’indicazione di tre “luoghi” di apprendimento e di esercizio della Speranza: la preghiera, l’agire e il soffrire, il Giudizio finale a cui tutti saremo sottoposti.
Perché, dopo la Carità, il Papa ha scelto di parlare proprio della Speranza? Perché questa virtù non si presta a fraintendimenti ed equivochi come la carità, oggi spesso scimmiottata dal un solidarismo ed altruismo impersonato da un Volontariato non proprio così disinteressato, come si vorrebbe lasciar credere. La Speranza è il banco di prova per ciò che veramente vale in assoluto e oltre ogni limite. Senza una prospettiva tanto profonda, da comprendere addirittura l’orizzonte dell’eternità, e senza un fondamento altrettanto solido, quale l’attualità del gesto di Amore di Gesù, l’unico capace di suscitare in coloro che ne sono toccati altrettanta forza di speranza per chi vive nel buio, tutto si ridurrebbe, come succede spesso, a mera materialità.
Parlare di speranza oggi significa confrontarsi con il tema della salvezza dell’uomo. La modernità ha dimostrato che la scienza (e con lei anche la tecnologia) è una via indiscutibilmente utile per l’emancipazione, ma non per la redenzione dell’uomo. Lo stesso discorso vale anche per le strutture. La loro bontà costituisce certamente un elemento che aiuta il vivere sociale, ma se non si cambia l’uomo nel suo interno non servono a niente. Continuando su questa via si rischia la fine perversa di tutte le cose, già prevista da Kant oltre due secoli fa. Dalla citazione dello Pseudo-Rufino, secondo il quale “Il genere umano vive grazie a pochi; se non ci fossero quelli, il mondo perirebbe...” (n. 15), si capisce che dalla testimonianza di questa Speranza dipendono le sorti del mondo.
Oggi più che mai c’è bisogno di quella stessa Speranza che già duemila anni fa ha trasformato la vita di molti uomini e donne, fino a renderli capaci di sopportare le situazioni più dolorose e umilianti, senza disperare della propria salvezza, e di affrontare l’impegno di un rinnovamento del mondo. Senza Dio all’uomo rimangono tante speranze che continuamente sorgono e muoio come il sole ogni giorno, ma viene a mancare la grande Speranza che non tramonta mai, quella che sostiene tutta la vita, fino al raggiungimento della sua meta, l’eternità. E’ ancora il papa dice: “Dio è il fondamento della speranza – non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l'umanità nel suo insieme.” (n. 31). Questo è e rimarrà nel futuro prossimo il principale dilemma del nostro tempo: o stiamo con Dio, il Dio cristiano, oppure ci troveremo a combattere contro di Lui e nel contempo anche contro l’uomo. Auguro a tutti i lettori di MANTOVACHIAMAGARDA di aver il cuore sempre pieno della Speranza che non delude. Buon 2008!
Don Marco Belladelli.
Gennaio 2008
Natale, festa per tutti!
La notizia è di un paio di mesi fa, di quelle per nulla sensazionali, che si leggono o si ascoltano e poi si dimenticano: il sequestro da parte dei Carabinieri del NAS di interi magazzini di materiale contraffatto, soprattutto elettrico, per addobbi natalizi provenienti dalla Cina, pronti per essere collocati sulle piazze italiane. Che il Natale sia un grande business senza confini non è una novità; che i cinesi cerchino di sfruttare tutte le occasioni offerte dal consumismo occidente per occupare aree sempre più vaste di mercato e propinarci le loro merci più o meno taroccate, anche questa non poi è cosa tanto nuova. Ciò che invece sorprende è che siano proprio coloro ai quali la festa cristiana dovrebbe interessare meno di niente a darsi da fare con largo anticipo. E’ vero che soprattutto nel commercio vale la regola del “chi tardi arriva male alloggia”, ma ricondurre tanta precipitazione soltanto ad una mera questione economica mi pare sinceramente riduttivo rispetto a quello che rappresenta in sé il Natale. Sì, perché i Cinesi oltre a vendere a noi i loro addobbi natalizi, li usano per rivestire a festa le loro città, Pechino, Shanghai, Hong Kong e volentieri si adeguano alla tradizione dei regali e degli auguri.
La causa del diffondersi della festa del Natale in regioni che non sono di tradizione cristiana potrebbe essere di natura squisitamente antropologica. I valori richiamati ed espressi da questa ricorrenza sono così universalmente presenti ed apprezzati, che non c’è cultura e società in cui non trovino spazio feste, riti e celebrazioni dedicati ai bambini, alla famiglia, alla solidarietà per i più poveri e i deboli e per auspicare e favorire la pacifica convivenza tra tutti i membri della comunità umana, oltre ogni diversità e forma di discriminazione. Perfino i terribili regimi comunisti, ormai sbiadito ricordo del secolo scorso, hanno dovuto inventarsi la patetica figura di Papa Gelo, per riconvertire in senso socialista la festa per eccellenza dei bambini. Così veicolato, il Natale cristiano si è diffuso in tutto il mondo, al di là di ogni distinzione di razza, di religione e perfino di ideologia.
Oltre le convergenze di tipo antropologico di cui abbiamo finora parlato, mi viene da pensare che, per giustificare questa sintonia mondiale, ci siano altre le ragioni più profonde, proprie del mistero del Dio fatto uomo. Per illustrarle mi faccio aiutare dalla poesia di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori:
“Quanno nascette Ninno a Betlemme/ era notte e pareva miezjuorno/ maie le stelle lustre e belle/ se vedettero accussì/ e 'a cchiù lucente/ jette a chiammà li Magge all'Uriente./ … Nun v'erano nemmice pe' la terra/ la pecora pasceva c''o lione/ c''o crapette se vedette/ 'o liupardo pazzeà/ l'urzo e 'o vetiello/ e co lu lupo 'mpace 'o pecoriello./ Se rrevotaje nsomma tutt'o Munno,/ Lu cielo, a terra, o mare, e tutt'í gente.”.
Per coloro che non hanno dimestichezza con il napoletano, tanto più con quello del Settecento di S. Alfonso, ecco la traduzione:
“Quando nacque il Bambinello a Bethlemme/ era notte e sembrava che fosse mezzogiorno/ Non si videro mai stelle così belle e luccicanti:/ e quella più luccicante di tutte / andò in Oriente a chiamare i Magi./ … Non c'erano nemici sulla terra,/ la pecora pascolava accanto al leone./ Insieme alla capretta, si vide/ giocare il leopardo./ L'orso con il vitello/ ed il lupo in pace con la pecorella./ Insomma si rivoltò tutto il mondo, / il cielo, la terra, il mare e tutte le persone.”.
Questa bellissima canzone di Natale, Quanno nascette Ninno, scritta dal Santo Vescovo quasi trecento anni fa, da cui è stato tratto il nostro Tu scendi dalle stelle, vale la pena di ascoltarla nella magnifica interpretazione dalla Mina nazionale, in una sua raccolta dal titolo “Dalla Terra”, uscita nel duemila, in occasione del grande Giubileo. Nella sua lirica, attraverso immagini capaci di straordinarie suggestioni, Sant’ Alfonso dice che nella notte in cui nacque il Bambino Gesù tutto il mondo è stato capovolto, il cielo, la terra, il mare e soprattutto le persone. Un rovesciamento così radicale, da comprendere ogni livello e dimensione della storia e dell’umanità, tanto che nulla è rimasto più come prima. Insomma, un nuovo incipit. Un inizio, che però non ha riportato indietro l’orologio della storia, come se si trattasse di offrire all’uomo una nuova opportunità per ricominciare tutto da capo e riparare agli errori del passato. No! Paradossalmente si tratta di un nuovo inizio, che invece anticipa e garantisce il raggiungimento del traguardo e del successo finale per ogni uomo e per tutta la storia dell’umanità. Gesù è il nuovo Adamo, colui nel quale tutti si riconosceranno alla fine della storia. Il concilio Vaticano II esprime questo stesso concetto in modo più prosaico, ma non per questo meno efficace:
“In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo. … Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l'uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione. … Poiché in lui la natura umana è stata assunta, senza per questo venire annientata per ciò stesso essa è stata anche in noi innalzata a una dignità sublime. Con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo.” (Gaudium et Spes 22). Attraverso la diffusione del Natale ad ogni latitudine e longitudine della terra, in qualsiasi modo venga richiamato, evocato, festeggiato e celebrato, prima di tutto si rivela questo misterioso ma certo rapporto stabilito dal Dio fatto uomo con ciascun uomo e donna viventi o trapassati che siano, bestemmia per i Giudei e assurdità per i pagani, ma per nostra fortuna, salvezza per tutti. Buon Natale!
Don Marco Belladelli.
Dicembre 2007
… ma liberaci dal male!
Un mese fa mi è stato regalato un libro, fresco di stampa, di cui attendevo la pubblicazione, dal titolo: Fuggita da satana. La mia lotta per scappare dall’inferno, edizioni PIEMME, nel quale si racconta una storia tanto incredibile quanto inquietante. Michela (uno pseudonimo), la protagonista, oggi quarantenne, è figlia di una ragazza madre, con altri cinque fratelli. Il padre era un importante esponente della locale Democrazia Cristiana, regolarmente sposato con un’altra donna e con altri tre figli, frequentatore di preti e di chiese. All’età di due anni Michela, abbandonata dalla madre, finisce in un istituto insieme al fratello minore, dove subisce violenze di ogni genere, fino all’adozione. Nella nuova famiglia vive il periodo delle elementari e dell’adolescenza, segnato però da incomprensioni e incomunicabilità, che aumentano le sue sofferenze, la sua solitudine e le spianano la strada verso i falsi paradisi della droga e del sesso. La situazione diventa insostenibile, tanto che raggiunta la maggior età se ne va di casa. Per mantenersi lavora in un ristorante, dove scopre di avere un talento del tutto speciale per la cucina. Diventa chef e comincia la vita di donna in carriera, tra soldi e divertimenti nei quali affogare le sofferenze di ieri e di oggi. Girando da una città all’altra, incontra Luca, un ragazzo da poco tempo ritornato alla fede cristiana dopo anni di lontananza e s’innamora di lui. Quando decidono di sposarsi, scopre che è malato di AIDS per una trasfusione al tempo in cui non si sapeva ancora nulla di questa terribile sindrome. Luca morirà quattro giorni prima della data fissata per il matrimonio. Michela, al colmo della disperazione lancia una sfida a Dio: “Dio, se esisti io ti distruggo! Se non esisti passerò la vita a dire che non esisti”.
Più i giorni passano, più è sopraffatta dal dolore. Una collega le consiglia di farsi aiutare da una psicoterapeuta. Il rapporto con la dottoressa si trasforma in una vera e propria dipendenza, tanto da non essere più in grado di prendere autonomamente anche la più banale delle decisioni. In breve tempo gli appuntamenti settimanali diventano prima due, poi tre e infine quattro. Dal semplice colloquio si passa all’ipnosi, poi all’assunzione di cocaina e di altre sostanze non meglio precisate e infine al rapporto omosessuale. L’ultimo stadio di questa caduta libera verso la più completa schiavitù è l’invito ad una messa nera. Si ritrova tra candele, fumi d’incenso e di altre essenze eccitanti, litanie di bestemmie contro Dio, la Madonna e i Santi e invocazioni a satana, in mezzo ad un crescendo di urla disumane. Il culmine è rappresentato dalla comunione sacrilega all’Eucaristia, trafugata dalle nostre chiese, e dall’orgia finale nella quale ciascuno si accoppia con uno o più dei presenti nel modo a lui più confacente. Per diventare sacerdotessa le viene chiesto di uccidere Chiara Amirante, una giovane ragazza romana che dal 1991, frequenta la stazione Termini e con la sola forza del Vangelo ha tolto molti giovani dalla strada, e ancora oggi nella Comunità Nuovi Orizzonti da lei fondata, accoglie ed avvia al recupero molte persone vittime delle dipendenze e delle schiavitù del nostro tempo. L’incontro con Chiara cambierà radicalmente la sua vita, fino a consacrarsi al Signore Gesù con i voti di povertà, castità, obbedienza e gioia. Le circostanze portano poi Michela a Medjugorie, dove la Madonna in persona, da Madre tenerissima quale solo Lei sa essere, viene a guarire il suo cuore ferito, a cominciare dall’abbandono da parte della madre naturale.
Recenti fatti di cronaca nera già avevano reso pubblico la significativa presenza delle sette sataniche in Italia e la loro pericolosità sociale. La testimonianza di Michela ci fa conoscere nei dettagli il loro anticulto sacrilego e soprattutto i crimini di cui sono capaci, fino al sacrifico umano gratuito. Abbiamo a che fare con persone (uomini e donne con ruoli socialmente rilevanti) la cui esistenza è polarizzata da una strana mistura, fatta di sesso e droga, di denaro e potere, e che per soddisfare questa loro insaziabile sete di dominio universale, non si fermano davanti a niente e a nessuno. Come non pensare che l’assurdo primato dell’irrazionalità, l’imbarbarimento dei costumi, il degrado morale e culturale di questi nostri giorni, che insieme contribuiscono all’apparentemente inarrestabile deriva da cui l’umanità sembra incapace a risollevarsi, non siano in qualche modo conseguenza di tali perverse attività?
Se leggendo questo libro già alle prime pagine sei tentato di riporlo per la durezza e la crudezza della realtà tanto inimmaginabile, quanto inquietante e sconcertante ivi descritta, pensa al coraggio con cui Michela, pur consapevole di mettere in pericolo la sua stessa vita, ha voluto denunciare pubblicamente la malvagità delle sette sataniche e lanciare un forte grido d’allarme contro di esse. Girarsi dall’altra parte come se niente fosse, o peggio ancora fuggire per paura, mi sembra a dir poco una vigliaccata imperdonabile.
Il libro è prima di tutto una straordinaria testimonianza di fede. Una così potente manifestazione della grazia di Dio, capace di strappare letteralmente un’anima dalla perdizione dell’inferno, ha in sé la forza di convincerti sulla necessità e l’urgenza di essere oggi cristiani seri, più di qualsiasi altra esperienza spirituale. Quando Michela ci rinfaccia la nostra tiepidezza: “Se pensi che per sfuggire a satana sia sufficiente credere in Dio, ti sbagli!”, vuole spronarci a vivere la fede cristiana con la stessa tenacia e radicalità con cui i satanisti combattono Dio e tutto ciò che lo rende presente. Ne va del nostro bene ed è l’unica vera difesa garantita da contrapporre al male che ci insidia. Facciamo dunque la nostra parte, come Michela ha fatto la sua, certi che uniti al Signore Gesù usciremo vincitori. La lotta comincia sempre da noi stessi, con la nostra sincera conversione, il ritorno a Dio con cuore umile e la preghiera incessante: “Abbi pietà di noi, Signore, e … liberaci da male!”.
Don Marco Belladelli.
Novembre 2007
Un nuovo Vescovo
In questi ultimi mesi in tutte e tre le province nelle quali viene diffuso il nostro mensile sono stati cambiati i Vescovi. Si è cominciato a Maggio da Verona, dove il veronese, Mons. Giuseppe Zenti, già Vescovo di Vittorio Veneto, è stato chiamato a sostituire Mons. Flavio Roberto Carraio. Poi è stato il turno di Mantova, il 13 Luglio scorso Mons. Roberto Busti , prevosto di Lecco è stato eletto Vescovo della città virgiliana in sostituzione di Mons. Egidio Caporello, e per finire, pochi giorni dopo, il 19 Luglio, Mons. Luciano Monari, Vescovo di Piacenza e Bobbio è stato trasferito a Brescia, al posto di Mons. Giulio Sanguineti. In tutti e tre i casi l’avvicendamento è avvenuto per i raggiunti limiti di età, corrispondenti al compimento del 75° anno, come prevede il diritto canonico. Una coincidenza del tutto casuale, che ben difficilmente si ripeterà con la stessa sincronia. Ma chi è il Vescovo? Che cosa fa? E soprattutto che cosa ci si aspetta da lui oggi?
Nella Tradizione cristiana il Vescovo è il successore degli Apostoli, colui che nell’alternanza storica ci collega direttamente al Signore. Come si dice nel Vangelo, “Gesù scelse i Dodici perché stessero con lui e per mandarli a predicare” (cfr. Mc 3,13ss e passi paralleli) e, dopo la sua risurrezione, continuassero la sua missione di salvezza nel mondo, fino al suo ritorno. Il Vescovo infatti ha il compito di annunciare la Parola di Dio e di insegnare, di presiedere l’Eucaristia e di governare nella carità la Chiesa a lui affidata. Nel momento dell’ordinazione egli riceve il munus sanctificandi, cioè il dono di santificare gli uomini di ogni tempo e luogo. Il ministero del Vescovo viene solitamente paragonato anche alla figura del pastore. Gesù stesso ha usato questa immagine per far capire il senso della sua missione: egli è il Buon Pastore che dà la vita per le sue pecore (cfr Gv 10,11ss). Vi ha fatto riferimento anche il Papa nell’ omelia di inizio pontificato: “Una delle caratteristiche fondamentali del pastore deve essere quella di amare gli uomini che gli sono stati affidati, così come ama Cristo, al cui servizio si trova. … e amare vuol dire anche essere pronti a soffrire. Amare significa: dare alle pecore il vero bene, il nutrimento della verità di Dio, della parola di Dio, il nutrimento della sua presenza, che egli ci dona nel Santissimo Sacramento.”. Il Vescovo quindi, come un buon pastore, è scelto per prendersi cura del gregge e spendersi a suo favore con l’amore di Cristo e, se fosse necessario, come lui fino al sacrificio.
Il Concilio Vaticano II ha dedicato particolare attenzione ai Vescovi, prima nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa, Lumen gentium, e poi con un decreto specifico sulle loro funzioni, la Christus Dominus. La figura e il ministero episcopale ne sono usciti molto rafforzati, come riconobbe lo stesso Paolo VI in un discorso ai Vescovi italiani del 1965: “A noi sembra che l'autorità episcopale esca dal Concilio rivendicata nella sua divina istituzione, confermata nella sua insostituibile funzione, avvalorata nelle sue pastorali potestà di magistero, di santificazione e di governo”. Se volessimo sviluppare in mansioni concrete le sopra citate potestà pastorali, si intuisce la formidabile complessità del ministero episcopale, che include ogni ambito e aspetto della vita umana, della comunione ecclesiale e della convivenza sociale. Il Papa stesso, il 22 Settembre scorso, in un incontro con i nuovi Vescovi di tutto il mondo, eletti e ordinati nell’ultimo anno, ha ricordato come, proprio per la vastità del loro campo d’azione, oggi più che mai per essi sia forte il rischio di essere totalmente assorbiti dalla molteplicità e dalla pressione degli impegni organizzativi ed amministrativi, a cui devono assolvere, a scapito della priorità del rapporto con Dio: “Oggi, nel ministero di un Vescovo, gli aspetti organizzativi sono assorbenti, gli impegni sono molteplici, le necessità sempre tante, ma il primo posto nella vita di un successore degli Apostoli deve essere riservato a Dio.” Di fatto, nella pienezza delle sue facoltà, dando per scontato il rispetto delle leggi canoniche e di quelle civili, un Vescovo dispone di una grande libertà di azione e di movimento, unita ad una straordinaria discrezionalità, della quale risponde soltanto alla sua coscienza di uomo e di cristiano, per affrontare le altrettanto gravose responsabilità che pesano sulle sue spalle.
E qui comincia il ministero del Vescovo, come Pastore della Chiesa che gli è stata affidata. Ogni comunità ha un suo passato e un suo presente, è dotata di risorse umane e spirituali, come pure non mancano in essa problemi, difficoltà e sofferenze. Tanto per andare al concreto: come dal punto di vista sociale e culturale, così anche per quello ecclesiale Verona, Mantova e Brescia hanno una rilevanza molto diversa l’una dall’altra, non soltanto per la loro storia, ma anche per la qualità, la quantità e le specifiche criticità dell’esperienza umana e cristiana espresse oggi da queste comunità. Il buon governo di un Vescovo lo si misura sulla capacità di incidere positivamente sulla crescita e lo sviluppo umano e cristiano della Chiesa locale di cui è a capo. Come si può capire, si tratta di un compito per niente facile. Ecco perché ogni giorno, in ogni S. Messa che si celebra, viene nominato e si prega per il proprio Vescovo, perché in ogni suo gesto e in ogni sua decisone, dai più semplici, soprattutto in quelli che maggiormente impegnano la sua persona e la sua autorità, egli ha davanti a sé una grave responsabilità, che si presenta nella forma di un’alternativa, quella di scegliere per Dio e con Dio o contro di Lui, per la Chiesa e con la Chiesa o contro di essa, a favore degli uomini o contro di essi. Un dilemma senza soluzione di continuità, che per essere sciolto ogni volta positivamente ha bisogno di incontrare un cuore e una coscienza di Pastore in cui il dono del discernimento degli spiriti sia presente in una misura superlativa, perché senza questo dono non c’è fedeltà a Cristo, né tanto meno amore per la Chiesa e men che meno sarà possibile contribuire al bene comune degli uomini e del loro futuro.
Don Marco Belladelli.
Ottobre 2007
La Chiesa in Cina
La notizia è di quelle che hanno del sensazionale e che anche a distanza di un paio di mesi merita di essere messa in risalto. Sabato 30 Giugno è stata pubblicata la Lettera di Papa Benedetto XVI ai Cristiani della Repubblica Popolare Cinese, stato notoriamente comunista.
Pur essendo la nazione più popolosa del mondo, per la stragrande maggioranza di noi occidentali la Cina continua ad essere qualcosa di misterioso e sconosciuto. Dopo Mao Tse Tung, la sua rivoluzione culturale e la più recente protesta di piazza Tien An Men del Giugno ’89, di cui ricordo, per averlo visto in diretta, il giovane dimostrante disarmato che costringe una colonna di carri armati a cambiare direzione, ultimamente ci siamo di nuovo accorti della sua esistenza come nuova potenza economica. La sua crescita esponenziale e la conseguente espansione su tutti i mercati del mondo ha sconvolto gli equilibri esistenti. Ormai anche sulle bancarelle dei più sperduti mercati rionali della provincia italiana si trova merce cinese, mentre nelle città ci sono i loro centri commerciali con prodotti di ogni tipo, certo, di dubbia qualità, ma a prezzi così concorrenziali, da tentare anche il più irriducibile dei detrattori. Le prossime Olimpiadi di scena a Pechino nell’Agosto 2008 ci offriranno un ulteriore occasione per conoscere meglio questo grande paese.
Come non poteva essere che la storia prima o poi non facesse i conti con una nazione che conta oltre un miliardo e trecento milioni di persone, così anche la Chiesa, mandata da Cristo ad annunciare il Vangelo ad ogni creatura, non poteva arrendersi davanti alla situazione creatasi dal 1949 in poi, con la presa del potere da parte del partito comunista cinese.
L’opposizione della Chiesa al regime comunista e la proibizione a qualsiasi collaborazione con Mao e Compagni aveva provocato una dura reazione, che comportò l’arresto di migliaia di persone, soprattutto Vescovi, Sacerdoti e responsabili delle associazioni laicali, la chiusura delle chiese, l’isolamento dei fedeli, e si arrivò fino all’espulsione di tutti i missionari stranieri presenti sul territorio cinese. In seguito, esattamente cinquant’anni fa, nel 1957, fu costituita la Chiesa Nazionale cinese, che dal punto di vista religioso funziona in tutto e per tutto come una qualsiasi Chiesa locale, sotto però lo stretto controllo dell’autorità politica. Onde evitare ingerenze esterne, è l’Associazione patriottica dei cattolici cinesi a governare la Chiesa, e non la Conferenza episcopale. Il funzionario statale che la guida si chiama Liu Bainian, ha 74 anni. E’ lui che nomina i Vescovi e sorveglia sugli atti amministrativi, in nome di una indipendenza, autonomia e autogestione non conciliabili con la dottrina e la prassi cattolica. Essa conta circa cinque milioni di fedeli e 1.800 sacerdoti, la cui età media si aggira attorno ai 30 anni. Dopo la rivoluzione culturale, sono state ricostruite molte chiese e i cattolici cinesi godono di una certa maggior libertà di azione e di movimento. Accanto a questa Chiesa, ha continuato a vivere la Chiesa clandestina, cioè coloro che sono sempre rimasti fedeli a Roma. Sono circa una dozzina di milioni di persone, che a tutto oggi, se denunciati, rischiano il carcere o la rieducazione. Molti sacerdoti e Vescovi di questa parte di fedeli sono stati e sono ancora rinchiusi nei campi di lavoro forzato. Liu Bainian, ignorando queste sofferenze di cui è direttamente o indirettamente responsabile, qualche giorno dopo la pubblicazione della Lettera del Papa, in un intervista a Repubblica, citando il suo primo discorso come capo della Chiesa nazionale di cinquant’anni fa, in cui disse: “La Santa Sede è l´unica rappresentante di Gesù in terra e come cattolici dobbiamo seguirla. Ciò che noi dobbiamo affermare è la nostra indipendenza politica ed economica, altrimenti resteremo una chiesa coloniale”, ci tiene a sottolineare che lo scisma cinese non ha nessuna valenza teologica, di tipo protestante, tanto per intenderci. Il problema era ed è squisitamente politico. Secondo lui all’origine della scissione ci sono le posizioni fortemente colonialiste fatte proprie dalla Chiesa negli anni quaranta. La Chiesa nazionale non è altro che un male minore, che ha consentito a tanti fedeli di continuare a credere e a vivere in pace nel loro paese, tanto che oggi è lui stesso ad auspicare quanto prima un viaggio del Papa a Pechino.
Il Papa nella sua Lettera si dice pienamente disponibile ad riaprire un dialogo costruttivo con le Autorità civili per affrontare i problemi che riguardano la Comunità cattolica in Cina e a normalizzare i rapporti diplomatici tra il Governo cinese e la Santa Sede , interrottisi nel 1951 in seguito alle persecuzioni. A questo proposito egli scrive: “la Chiesa cattolica che è in Cina ha la missione non di cambiare la struttura o l'amministrazione dello Stato, bensì di annunziare agli uomini il Cristo, Salvatore del mondo, appoggiandosi — nel compimento del proprio apostolato — sulla potenza di Dio”. E poi, davanti alla situazione di lacerazione della Chiesa e alla conseguente confusione per i fedeli, sottolineando che non esistono divergenze dottrinali, si propone di favorire il ristabilimento di una piena comunione tra le due Comunità cristiane, cominciando con il riconoscere molti Vescovi nominati dall’autorità civile, concedendo loro il pieno e legittimo esercizio della giurisdizione episcopale.
Anche se è difficile prevedere quali potranno essere in un futuro prossimo gli sviluppi di un passo tanto coraggioso ed importante da parte di Benedetto XVI, la situazione è certamente in movimento. La buona accoglienza della Lettera da parte di entrambe le Chiese, le dichiarazioni di Liu Bainian, indice di una certa attenzione anche da parte del Governo cinese, e la convocazione del cardinale di Hong Kong, Joseph Zen, a Lorenzago il 22 Luglio scorso, sono i segni di un’apertura di credito verso il Papa, a cui sta molto a cuore la Cina.
A questo punto mi pare evidente che per le proporzioni e le dimensioni che sono in gioco, la Lettera del Papa ai Cristiani della Repubblica Popolare Cinese non è da ritenersi un fatto puramente ecclesiale, ma rappresenta un concreto contributo alla pacifica convivenza e fraternità tra tutti i popoli del mondo.
Don Marco Belladelli.
Settembre 2007
La Messa in latino
Sabato 7 Luglio è stato pubblicato il Motu Proprio (documento con cui il Papa esprime la sua libera e autorevole decisione su un tema specifico della vita della Chiesa, dopo essersi consultato con il Collegio dei Cardinali e con tutti i suoi più stretti collaboratori) “Summorum Pontificum”, con il quale Benedetto XVI concede ad ogni sacerdote la possibilità di celebrare la S. Messa senza popolo (cioè con almeno uno fedele presente) e con il popolo (un gruppo di almeno una trentina di fedeli) secondo il Messale Romano pubblicato dal beato Giovanni XXIII nel 1962, ultima revisione di quello promulgato da san Pio V dopo il Concilio di Trento. Dal 14 Settembre prossimo per celebrare la S. Messa nel rito pre-conciliare, cioè rigorosamente in latino, con il sacerdote che volge le spalle all’assemblea, con molti più inchini, segni di croce e meno dialogo, non c’è più bisogno di nessun particolare permesso del Vescovo locale.
Chi ha più di cinquant’anni della Messa in latino ha forse una lontana reminiscenza risalente alla propria fanciullezza o giovinezza, quando il celebrante se la vedeva quasi esclusivamente con il chierichetto e i fedeli erano tenuti occupati con altre preghiere e devozioni più o meno eucaristiche. Ricordo molto bene invece l’entusiasmo con cui i giovani preti di quarant’anni fa (oggi sessantacinquenni e oltre) accolsero e promossero le varie e progressive innovazioni liturgiche introdotte dal Concilio Vaticano II: prima la traduzione dell’antico rito in lingua volgare (in italiano) nell’Avvento del 1964; poi l’introduzione del nuovo Messale Romano di Paolo VI nel 1970, quello tutt’oggi in uso.
Il documento papale ha avuto grande risonanza anche tra i più indifferenti o lontani dalla Chiesa. Basta guardare il risalto che ha trovato sui mass media: Domenica 08/07 i maggiori quotidiani italiani sono usciti con degli speciali sull’argomento (vedi Corriere della sera, Repubblica, Messaggero, per citare i più noti); a quindici giorni di distanza si continuano a registrare reazioni pro e contro, sia dentro che fuori la Chiesa (cfr. http://paparatzingerblog).
Anche noi ci chiediamo perché si è riesumato un rito di cui la stragrande maggioranza dei fedeli non ricorda più nemmeno l’esistenza, e qual è il senso di una simile decisione di Papa Ratzinger. Prima del secondo me, riportiamo in sintesi il pensiero del Pontefice. Nel Motu Proprio egli fa riferimento al principio secondo cui, per evitare errori e trasmettere l’integrità della fede, le Chiese particolari devono concordare con la Chiesa universale nella dottrina della fede, nei segni sacramentali e negli usi riconosciuti come parte della tradizione apostolica, perché la legge della preghiera corrisponda alla legge della fede. Nel corso dei secoli il Rito Romano, che ha trovato una sua mirabile sintesi nel Messale di san Pio V, è diventato la forma liturgica della fede, della pietà e della cultura della Chiesa Universale. Per cui il Messale Romano di Paolo VI del 1970 resta la forma ordinaria della legge della preghiera della Chiesa Cattolica latina, mentre il Messale Romano del 1962 si deve considerare una sua forma straordinaria da tenere comunque nel debito onore “per il suo uso venerabile e antico”. Nella lettera di presentazione indirizzata a tutti i Vescovi, il Papa prende in considerazione le due principali obiezioni al suo provvedimento: il rischio di vedere intaccata l’autorità del Concilio Vaticano II e il pericolo di possibili disordini o addirittura spaccature all’interno delle Parrocchie. Al primo punto risponde, oltre che con l’argomento della forma ordinaria e della forma straordinaria a cui abbiamo già accennato sopra, facendo esplicito riferimento alle deformazioni della Liturgia al limite del sopportabile a cui si è giunti in nome della fedeltà al Concilio. Riguardo al secondo punto, pensando alle comunità cristiane di oggi, è sua convinzione che nella stragrande maggioranza si continuerà a usare il Messale di Paolo VI, auspicando che la celebrazione conciliare venga contagiata dalla sacralità, propria dell’antica tradizione.
Oltre le reazioni emotive, del tipo mi piace o non mi piace, o quelle ideologiche dei progressisti contrari per principio ad ogni rigurgito tradizionalista, se non ho capito male, in questo documento il Papa afferma chiaramente che, come “Non c’è nessuna contraddizione tra l’una (s. Pio V) e l’altra (Paolo VI) edizione del Missale Romanum”, così anche nella Chiesa non c’è nessuna contrapposizione tra passato, presente e futuro. Questo vale soprattutto per il Concilio Vaticano II, la cui forza normativa sta proprio nella sua comprensione in continuità (e non in discontinuità) con tutta la tradizione della Chiesa. Un secondo aspetto che mi ha colpito nella riflessione del Santo Padre è quando in modo accorato dice ai confratelli Vescovi: “Apriamo generosamente il nostro cuore e lasciamo entrare tutto ciò a cui la fede stessa offre spazio.”. Parole che ricordano quelle di Gesù, quando rimprovera gli Apostoli per aver proibito ad un tale di fare miracoli nel suo nome, perché non era dei loro: “Chi non è contro di noi è per noi.” (Mc 9,40). L’unità della Chiesa si fonda sul bene della fede, non sul comune sentire e/o appartenere psico-sociologico. Sembra quasi che il Papa voglia ricordare ai Vescovi che in nome e in forza del Concilio Vaticano II non è sempre stato così. La Chiesa non è un partito, dove gli interessi di alcuni, anche se maggioranza, debbano prevalere sul bene di tutti, né i Pastori devono mostrarsi più preoccupati di se stessi, che del gregge loro affidato, evitando prese di posizioni che sanno più di arroganza del potere, che di servizio ecclesiale, tanto da lasciare dietro di sé più ferite che guarigioni, più lacerazioni che riconciliazione, più discordia che fraternità nel Signore Gesù. In ogni caso per giudicare le cose di Chiesa, si tratti di Messa in latino o di qualsiasi altra questione, è buona regola ricorrere all’infallibile criterio evangelico: “Dai loro frutti li riconoscerete”. (Mt 7,20). Stiamo quindi a vedere che cosa succede, tutto il resto sono chiacchiere che lasciano il tempo che trovano.
Don Marco Belladelli.
Agosto 2007
Il “giorno della Famiglia “
Li ho visti arrivare alla spicciolata e riempire poco alla volta piazza San Giovanni. Venivano da tutta Italia. Me ne accorgevo dalla loro parlata. Quando mi passavano accanto, gruppo, dopo gruppo, sentivo risuonare la multiforme sinfonia colorata degli accenti di tutta la penisola. Erano sorridenti, non gridavano slogan contro nessuno, ma chiacchieravano tra loro in un cicaleccio festoso, che ricordava tanto quello della Domenica mattina sui sagrati delle nostre chiese, dopo la S. Messa. Tanti spingevano passeggini, su cui sedevano i figli più piccoli. I più grandicelli invece camminavano vicino a papà e mamma guardandosi attorno, un po’ meravigliati dalle bellezze della Città eterna e un po’ frastornati dalla sua frenesia, che, anche se attenuata dal giorno prefestivo, appariva sempre più caotica di quanto sono abituati a vedere nei loro piccoli centri di provincia. Gli adolescenti e i giovani si mostravano più spavaldi, pur lasciando trasparire nei loro occhi e nei loro sorrisi la pulizia di chi ha imparato a distinguere il bene dal male, con la stessa naturalezza di chi conosce la differenza tra destra e sinistra. L’abbigliamento era quello dei grandi magazzini e dei centri commerciali, dove trovi le offerte “paghi due, prendi tre”, così rimane qualche euro in più per soddisfare i desideri di qualcuno altro. C’era il grassoccio e la rotondetta un po’ sovrappeso, lo spilungone e la magrona, il piccoletto e la tappetta. Insomma niente candidati a concorsi di bellezza e niente nemmeno di particolarmente attraente dal punto di vista del look o dell’immagine. Niente di palestrato o di rifatto, o che comunque sapesse di frequentazione ossessiva dei vari centri di benessere e altre cose del genere, dove in tanti oggi vanno a rincorrere l’effimera ed illusoria chimera dell’eterna giovinezza del corpo e dello spirito.
Erano più di un milione e quel sabato, il 12 Maggio scorso, hanno invaso Roma pacificamente e con tanto rispetto, senza imbrattala e deturparla con vandalismi, pagandosi le spese del viaggio, contrariamente a quanto hanno preteso coloro che venti giorni dopo sono arrivati per manifestare contro Bush.
Sono venuti per dire con forza che in Italia oggi, prima di qualsiasi altra cosa, c’è bisogno di Più FAMIGLIa!. Mi riferisco ovviamente a quella fondata sull’unione stabile di un uomo e di una donna, riconosciuta come nucleo di base della società civile da tutti gli statuti fondamentali di qualsiasi Stato nazionale ed Organismo internazionale.
Nessuno ha le fette di prosciutto sugli occhi. Conosco bene il disagio che segna ad ogni livello e dimensione l’umanità del nostro tempo e che, come ho già scritto in altri interventi su queste pagine, interessa anche la famiglia e non in modo marginale. Ma proprio per questo c’è bisogno di Più FAMIGLIA. Perché senza legami stabili ed esperienze di rapporti di vera fraternità, le difficoltà aumenteranno sempre più, certo non diminuiranno.
Il manifesto di coloro che invece si oppongono a questa prospettiva parla di più famiglie, al plurale, e mi ricorda tanto l’allettante e insidiosa proposta del “diventerete COME DIO” (Genesi 3,5) del serpente tentatore nel Paradiso terrestre. La pretesa di equiparare qualsiasi convivenza tra due individui, etero o omosessuale, che, diversamente dal matrimonio, si fonda sul principio della tutela della libertà individuale e sul capriccio della volubilità dei sentimenti (per cui ciascuno è libero in qualsiasi momento, per qualsiasi ragione e senza dare spiegazione di sorta di andare per la propria strada), alla dignità della FAMIGLIA tradizionale e attribuirvi gli stessi diritti, per favorire la crescita di una pluralità di forme di relazioni interumane, che non hanno niente a che vedere con la stabilità propria dell’istituto matrimoniale, oltre che inaccettabile sul piano dei principi, è gravemente lesivo del bene comune di tutto il Paese.
Chi vorrebbe introdurre questo supermercato delle relazioni, dove ciascuno sia libero di scegliere ciò che più gli aggrada, si basa su due ragioni di fondo. La prima è la necessità di adeguarsi all’Europa. In alcuni stati dell’Unione sono state introdotte legislazioni di riconoscimento dei diritti dei conviventi, mentre in altri si è già arrivati addirittura all’equiparazione di qualsiasi convivenza al matrimonio tra uomo e donna. Dove sta scritto che tutto ciò che è Europa è vero, buono e giusto? E perché il rafforzamento dell’unità dell’Europa deve significare per forza l’omologazione dei diversi sistemi sociali, secondo l’unico e indiscutibile criterio della tutela dei diritti individuali? Dopo la dittatura dei burocrati e dei banchieri, di cui già abbiamo sperimentato le conseguenze non del tutto positive, dobbiamo subire anche quella ideologica? Credo che sia giunto il momento di esportare in Europa non soltanto formaggio, prosciutto, vino e olio, ma soprattutto valori positivi, che da sempre fanno parte del patrimonio culturale e morale del nostro Paese. La seconda ragione è di natura sociologica. L’idea di Famiglia non sarebbe univoca, perché nel corso dei secoli si sono avuti modelli differenti. La conclusione è semplice: al cambiamento dei costumi deve seguire il conseguente adeguamento delle leggi, negando così la benché minima rilevanza della dimensione etica del vivere sociale, relegata alla sfera individuale della persona, e svuotando di qualsiasi significato i valori morali che costituiscono l’ispirazione, il fondamento e il contenuto di un ordinamento giuridico.
Ecco perché come cittadini e come cristiani non possiamo assolutamente stare a guardare quel che succede dalla finestra, ma era quanto mai necessario anche scendere in piazza per difendere LA FAMIGLIA con tutte le modalità opportune, e per il futuro, personalmente, aggiungerei anche inopportune, dal tentativo in atto di indebolirla sul piano culturale, sociale e giuridico.
Don Marco Belladelli.
Luglio 2007
Il Gesù di Ratzinger
Girovagando su internet in cerca di notizie e curiosità sull’ultimo libro di Papa Ratzinger, intitolato Gesù di Nazaret, ho trovato questo singolare commento: “Questo libro è il più grande antidepressivo (intellettuale e spirituale) che si possa trovare oggi!”. Pensando all’autorevolezza dell’illustre Autore, non avevo dubbi circa la qualità spirituale e intellettuale dell’opera. Ciò che mia ha sorpreso di questo giudizio è l’averne evidenziato, in quel “il più grande antidepressivo”, come valore aggiunto, addirittura una dimensione terapeutica per l’uomo di oggi e per la nostra epoca. Un aspetto davvero ancora più intrigante, di fronte al quale non resta che accettare la sfida di affrontarne la lettura. Nel tentativo di rendervi l’impresa più accattivante, provo ad offrirvi, con la solita modestia, alcune note informative ed introduttive.
Uscito nelle librerie Lunedì 16 Aprile, ultimo scorso, giorno dell’ottantesimo compleanno di Joseph Ratzinger, il libro era stato annunciato di prossima pubblicazione già nell’estate 2006. Benedetto XVI ci stava lavorando dal 2003, quindi prima ancora di diventare Papa. Lo ha completato a Settembre. I sei mesi successivi sono serviti per le traduzioni (22 lingue diverse) e per curare gli aspetti editoriali. Soltanto in Italia nel primo giorno sono state vendute più di 50.000 copie e, dopo un mese e mezzo, è ancora ai primi posti nelle classifiche dei libri più venduti. Quando lo apriamo, non troviamo nessuna presentazione. Andando all’indice vediamo che il testo è composto di una premessa, una introduzione e dieci capitoli, tutti dell’Autore, che trattano della vita di Gesù, a cominciare dal battesimo al Giordano fino alla trasfigurazione (1 – 9), e un ultimo capitolo che si occupa de “Le affermazioni di Gesù su se stesso”. Mancano tutti gli avvenimenti che riguardano l’ultima parte della vita di Gesù, tra i quali la passione, la morte e la risurrezione, che saranno affrontati, a Dio piacendo, in un secondo volume.
E’ lo stesso Ratzinger che nella premessa fa riferimento ad altre opere “entusiasmanti” dello stesso genere, da lui conosciute e lette nella sua giovinezza. Un filone letterario quello delle “Vita di Gesù”, iniziato alla fine del ‘700 con Lessing, che ha prodotto i suoi risultati più eccellenti nella prima metà del secolo scorso con Karl Adam, Romano Guardini, il nostro Giovanni Papini ed altri. A cominciare dagli anni ’50 in poi, con l’introduzione nell’esegesi biblica del cosiddetto metodo storico-critico, “la figura di Gesù, su cui poggia la fede, divenne sempre più nebulosa”, tanto da renderla addirittura evanescente anche per coloro che credono. Pur giudicando importante e decisivo il contributo offerto da tale metodo, Benedetto XVI afferma, senza ombra di dubbio, di aver più fiducia nel Vangelo: “Io ritengo che proprio questo Gesù, - quello dei Vangeli – sia una figura sensata e convincente”. Insomma, quella che incontriamo nella lettura del testo, è la sua personale ricerca del volto del Signore, come premessa e incitamento, autorevoli e garantiti nel risultato, per una nostra personale ricerca.
A questo punto egli aggiunge: “Perciò ognuno è libero di contraddirmi”. In occasione della presentazione ufficiale nella sala stampa vaticana di Venerdì 13 Aprile, con l’intervento di tre personaggi importanti, nello stesso tempo rappresentativi di diversi ambiti culturali e spirituali, quali il Cardinale di Vienna, Christoph Schoenborn, il teologo valdese, professor Daniele Garrone, e il noto filosofo non credente, nonché politico di sinistra, professor Massimo Cacciari, è stato proprio il porporato ad evidenziare come questo scendere in piazza del Papa, fino ad accettare il confronto, magari anche contraddittorio, con la pubblica opinione, non significhi piegarsi al soggettivismo imperante e tanto meno cedere alla moda dell’esibizionismo, ma riproporre il rigore intellettuale come unica e faticosa via, attraverso cui la passione della ricerca della verità produce quei frutti di speranza di cui ha assoluto bisogno il nostro tempo.
A scanso di equivoci e delusioni ci tengo a dire con chiarezza che non abbiamo a che fare con un testo di facile lettura. E’ un’opera culturalmente impegnativa, ma comunque alla portata di molti, soprattutto se disposti ad un “anticipo di simpatia, senza il quale non c’è alcuna comprensione”. In un contesto culturale dove conta più il farsi sentire, che non quello che si ha da dire, e per questo si ricorre con tanta facilità all’aggressione dell’avversario (meglio se personale) e alla violenza (e non solo verbale), il libro del Papa può risultare alla fine come “il più grande antidepressivo (intellettuale e spirituale) che si possa trovare oggi!”, perché c’incontriamo con l’umile e faticosa ricerca di salvezza e di speranza, condotta da un nostro contemporaneo, che, anche se si pone alla pari di tutti noi, è una delle personalità intellettualmente più preparate e umanamente più sensibili del nostro tempo. Ma l’origine vera del valore aggiunto, cioè il suo effetto terapeutico a cui ho fatto riferimento all’inizio, non sta tanto né nell’onesta della ricerca e né nella grandezza dell’uomo che l’ha condotta, ma nel Mistero su cui egli indaga. Joseph Ratzinger non si limita a condurci magistralmente attraverso i sofisticati percorsi culturali tra il Gesù storico e il Gesù del dogma. Egli ci prende per mano e ci guida fin dentro il nocciolo fondamentale della questione: se Gesù sia effettivamente colui che ci ha portato Dio e con Lui la verità sul nostro destino e la nostra provenienza (cfr p. 73), dilemma a cui tutti, prima o poi, dobbiamo dare la nostra risposta personale e da cui dipende il nostro orizzonte di Salvezza e di Speranza.
Don Marco Belladelli.
Giugno 2007
La Bibbia no stop
Giovedì 15 Marzo, ore 11 ca., un caro amico mi chiama per dirmi di essere appena uscito dalla Rotonda di S. Lorenzo, a Mantova, dove si sta svolgendo La Bibbia senza sosta. Anche lui, insieme a tante altre migliaia di persone, ha partecipato con entusiasmo all’iniziativa e, dopo aver letto il brano assegnatogli, si concede un caffè in buona compagnia sotto gli ospitali portici della bella città ducale.
Della Bibbia no stop avevo sentito parlare qualche mese prima, quando ancora era nella fase organizzativa. Non avevo capito bene di che cosa si trattasse, anzi, lì per lì mi era parsa una cosa più bizzarra, che degna di attenzione. Dopo la telefonata, curiosando in rete, scopro che addirittura è stato allestito un sito internet, dove trovo tutte le notizie per capirne il significato. L’idea viene dalla Francia, precisamente da Limoges, dove è già stata realizzata. Si inizia Domenica 11/03, fino a sabato 17/03, e in una settimana, ininterrottamente, ore piccole comprese, si legge tutta la Bibbia, dalla Genesi, all’Apocalisse. Vuol essere una testimonianza di ascolto, come premessa fondamentale per il dialogo, tanto difficile oggi nella nostra società multiculturale. Il contesto è ecumenico e nello stesso tempo interreligioso, per la partecipazione sia di Cristiani di diversa confessione, sia di credenti Ebrei e Baha’i, per questo (così si dice nel sito) si è ritenuto opportuno togliere o coprire i simboli cattolici, ma non tutti, come appare da una foto fatta dall’alto, in cui si vede la bella croce greca al centro del pavimento della Rotonda. D’altro canto, un po’ paradossalmente, viene dato molto risalto alla massiccia e significativa presenza della Chiesa militante, con in testa Vescovi emeriti, Ordinari diocesani, docenti di sacra scrittura, preti, suore, seminaristi, per finire con i gruppi parrocchiali e a vario titolo ecclesiali. Tra i 1.159 lettori (o 1.162) che si sono alternati al leggio troviamo personaggi illustri, tanti soliti noti (cioè quelli che non mancano mai ad iniziative del genere), sia i primi che i secondi, tutti ricordati con tanto di nome e cognome, insieme alla maggior parte di umili sconosciuti, che fanno tanto pensare al povero ignoto milite guardato a vista giorno e notte all’altare della Patria a Roma. L’evento, per il quale pare ci sia stato anche l’interessamento della Radio vaticana, è cominciato sotto la luce dei riflettori e delle telecamere e ha trovato grande risalto sulla stampa locale. Leggendo tra le righe, pare di capire che la vera matrice della Bibbia senza sosta, più che l’esperienza di Limoges, sia il Festivaletteratura, evento evocato con insistenza, ma di tutt’altra natura, quasi si trattasse di una sua mini edizione quaresimale. Gli organizzatori ci tengono a far sapere che: “Non si replica!”, come a reclamare diritti di esclusività, naturalmente sull’iniziativa, non certo sulla Parola di Dio.
Oltre questo limite, molto auto referenziale, ci sono per fortuna le reazioni suscitate dall’evento. Capire che cosa è stato e che cosa ha significato per chi lo ha vissuto, mi pare alla fine la cosa più interessante. Tra l’entusiasmo di molti e l’indifferenza dei più, mi intrigano soprattutto le tante domande rimaste senza risposta, sul senso dell’iniziativa, che lo Scansani ha raccolto a titolo di esempio in un blog della GAZZETTA, e che per dovere di cronaca riporto qui di seguito:
E’ un’impresa da Guinness dei primati? La lettura collettiva è terapeutica? Ginnastica comunitaria spirituale? Così si ritrova il senso di Dio? Voglia di sacro e nuova maniera di pregare? Esibizionismo biblico?
Visto il modo in cui La Bibbia senza sosta è stata confezionata, è difficile negare che, nel rispetto della più pura delle intenzioni, alla base non ci sia un certo esibizionismo bibliofilo dovuto a dipendenza da Festivaletteratura. Entrando poi nel merito dei quesiti, sorprende come nessuno di essi trovi soddisfazione nelle finalità degli organizzatori, che erano l’ascolto e il dialogo. Sembra quasi che ciascuno abbia seguito un suo percorso, indipendentemente dalla traccia indicata. E’ come se il modo e lo strumento scelto abbiano prevaricato gli obiettivi. Alla fine nel tentativo di mettere in mezzo Dio, per ragioni umane nobilissime, non si è potuto fare a meno di lasciarsi interrogare da Lui.
Si narra che in una scuola rabbinica, mentre si commentava il racconto del peccato originale, a proposito della domanda di Dio che cerca Adamo nel paradiso terrestre: “il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: “Dove sei?” (Genesi 3,9), un allievo avesse messo in dubbio l’onniscienza divina. Secondo lui, se Dio sa veramente tutto, doveva anche sapere dove si trovava Adamo in quel momento. Il maestro rispose che quella domanda non doveva essere intesa come un segno della ignoranza di Dio. Essa era rivolta all’uomo, perché prendesse coscienza del cambiamento avvenuto nella sua condizione umana, dopo il peccato commesso.
Vuoi vedere che è andata così anche per La Bibbia senza sosta?
Don Marco Belladelli.
Maggio 2007
Testimoni del Risorto
Domenica 4 marzo 2007, il regista, premio Oscar per il film "Titanic", James Cameron, manda in onda su Discovery Channel un documentario da lui co-prodotto e diretto dal regista canadese Simcha Jacobovici, dal titolo "La tomba perduta di Cristo", che rivelerebbe la scoperta del vero sepolcro di Gesù e quella del suo presunto figlio, avuto da Maria Maddalena, con tanto di scheletri ancora presenti. Mercoledì 7 Marzo 2007, il nuovo ciclo della trasmissione Enigma, di Rai Tre, inizia con una puntata dedicata a “Il mistero Gesù”. Il conduttore, Corrado Augias, si presenta davanti ad una ricostruzione del sepolcro di Cristo, con tanto di bende sparse a destra e a manca, e comincia leggendo una frase di un noto professore di sacra Scrittura delle Università pontificie, senza citare né il testo, né tanto meno il contesto da cui è stata presa, secondo cui la risurrezione di Cristo non sarebbe un fatto storico, affermazione assolutamente contraria a quanto la Chiesa crede e predica con autorità apertamente e da sempre[1]. Anche il caso sorto attorno al noto romanzo Il codice da Vinci, secondo cui Gesù avrebbe vissuto da comune mortale, con tanto di moglie e figli, fino alla fine dei suoi giorni si proponeva di scardinare i fondamenti del Cristianesimo, negando la sua divinità e ancor prima la risurrezione. E potete stare certi che i tentativi di screditare la fede cristiana da parte degli oppositori della Chiesa, puntando soprattutto su questo argomento, non si fermeranno qui.
La risurrezione di Cristo, insieme con l’incarnazione, la passione e morte, è uno dei due misteri principali del Cristianesimo. Più volte nelle lettere di san Paolo si ricorda quanto questo fatto sia fondamentale per la fede: “Se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede” (1 Corinti 15,17); “Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo” (Romani 10,9). La risurrezione è l’avvenimento della vita di Gesù su cui, più di ogni altro, si fonda e si manifesta la sua divinità. Essa è anche annuncio e anticipazione della nostra vittoria sulla morte e su tutte le sue conseguenze, e, proprio perché risorto, è possibile per Cristo farsi prossimo ad ogni uomo e ad ogni donna e condividere tutte le loro esperienze, in ogni tempo e in ogni luogo. E’ infatti l’esperienza e l’incontro con il Cristo risorto la sorgente unica del fatto cristiano e del suo riproporsi nella storia in modo sempre nuovo e straordinariamente sorprendente. Da lì il cristiano trae la forza rivoluzionaria per trasformare il mondo secondo l’immagine del regno di Dio, descritta nel Vangelo, e il coraggio di spendersi eroicamente per gli altri, come ha fatto e ci ha insegnato Gesù.
Un testimone specialissimo, anche se ai più sconosciuto, di quanto sto dicendo è EUGENIO ZOLLI. Nato il 17 settembre 1881 a Brody, in Galizia (sud est della Polonia), allora austriaca, da famiglia di religione ebraica, piuttosto agiata Israel (cioè Eugenio), è il più giovane dei cinque figli. Il padre, è proprietario di un setificio a Lodz, in territorio russo, che gli viene confiscato dallo Zar nel 1888 senza nessun risarcimento. Il tenore di vita della famiglia si riduce notevolmente ed i figli maggiori devono andarsene altrove in cerca di lavoro. Israel studia filosofia a Vienna e poi a Firenze, dove si laurea e contemporaneamente segue gli studi per diventare Rabbino. Nel 1913 è viceRabbino di Trieste e nel 1920 Rabbino capo. Dal ’18 al ‘38 insegna lingua ebraica e lingue semitiche a Padova. Nel 1939 diventa Rabbino capo della comunità ebraica di Roma, fino all’Ottobre del ’44, quando dopo la celebrazione della festa di Kippur (la festa dell’espiazione), si dimise senza motivare la sua decisione. Il 13 Febbraio successivo si fece battezzare nella basilica di S. Maria degli Angeli, prendendo il nome di Eugenio, come omaggio a Papa Pacelli. Morì sempre a Roma il 2 Marzo del 1956.
Leggendo la sua autobiografia (Eugenio Zolli, Prima dell’alba. Autobiografia autorizzata. Ed. San Paolo, 2004 MI ), dove è descritto il suo percorso spirituale, appare in modo evidente quanto profondamente si sia sentito attratto dalla persona di Gesù, fin dal primo momento in cui, ancora adolescente, vide il crocifisso in casa di un compagno di scuola cattolico. Il battesimo di acqua era stato preceduto dal battesimo di fuoco, cioè da un intima e profonda adesione a Gesù e al suo messaggio evangelico. Un fascino testimoniato anche nei suoi scritti (nel 1938 pubblica Il Nazzareno) e nei suoi studi di esegesi del Nuovo Testamento, alla luce della letteratura aramaica e del pensiero rabbinico. “Mi dicevo: Forse che Gesù non era un figlio del mio popolo?”. Più che una conversione o di una apostasia, secondo da che parte la si guardi, si tratta di una vera e propria chiamata, che raggiunge il suo culmine proprio in sinagoga a Roma, durante l’ultima preghiera del Kippur da lui presieduta. Lui stesso ci racconta che cosa è avvenuto: “Improvvisamente vidi con gli occhi dello spirito una vasta prateria e, in piedi, in mezzo all'erba verde, stava Gesù con un manto bianco... A tale vista, sentii una gran pace interiore, e, in fondo al cuore, sentii queste parole: «Sei qui per l'ultima volta. Ormai, mi seguirai». Le accolsi con la massima serenità ed il mio cuore rispose immediatamente: «Così sia, così deve essere»... Un'ora più tardi, dopo cena, in camera, mia moglie mi disse: «Oggi, mentre stavi davanti all'Arca della Torà, mi sembrava che la bianca immagine di Gesù ti imponesse le mani, come se ti benedicesse». Ero stupefatto... In quel momento, la nostra figlia più giovane, Myriam, che si era ritirata nella sua stanza e non aveva sentito nulla, mi chiamò per dirmi: «State parlando di Gesù Cristo. Sai, papà, questa sera ho visto in sogno un grande Gesù tutto bianco». Augurai buona notte ad entrambe e, senza alcun imbarazzo, continuai a riflettere sulla concordanza straordinaria degli eventi.” (Autobiografia pp 274-275).
In attesa del nostro personale incontro con il Cristo risorto, Buona Pasqua a tutti!
Don Marco Belladelli.
Aprile 2007
Le apparizioni della Madonna
Le apparizioni mariane sono uno dei fenomeni che contraddistinguono il Cristianesimo. Secondo fonti attendibili nei duemila anni di storia abbiamo avuto duecentotrentuno apparizioni della Madonna, di cui più di un terzo, per la precisione settantasei, negli ultimi due secoli. Naturalmente non tutte hanno lo stesso valore, importanza e significato per la Chiesa e per il mondo. Alcune sono più fortemente attestate ed hanno dato origine a santuari e ad un movimento di devozione popolare rimasto vivo nei secoli, altre invece hanno evidenti contorni leggendari. Le più recenti hanno ricevuto il riconoscimento e l’approvazione della competente autorità ecclesiastica, mentre per quelle più lontane nel tempo ci si è affidati al buon senso popolare e al criterio evangelico secondo il quale l’albero lo si riconosce dai suoi frutti (cfr. Matteo 7,16-20). Il coinvolgimento diretto o indiretto di religiosi o sacerdoti in questi fenomeni non è automaticamente segno di autenticità, né impegna in nessun modo la Chiesa, perché, se come dice il famoso proverbio una rondine non fa primavera, nemmeno un prete, un frate o anche un gruppo di consacrati possono sostituirsi o supplire chi è investito dell’esercizio dell’autorità nella Chiesa. Inoltre va anche detto con molta chiarezza che non c’è obbligo di credere alle apparizioni, riconosciute o non riconosciute che siano, perché Dio ha comunicato con l’umanità per mezzo del suo Figlio Gesù e la rivelazione si è conclusa con la morte dell’ultimo apostolo. Nessuna apparizione potrà mai aggiungere, togliere o cambiare niente di quello che è il deposito della fede, descritto e sintetizzato nelle proposizioni del Credo. Insomma si può anche non credere alle apparizioni, senza per questo essere considerati degli eretici.
A questo punto viene spontanea la domanda: allora a cosa servono? Vediamo di capirlo soffermandoci ad analizzare brevemente le più famose, cioè quelle che hanno lasciato un segno più profondo nella storia dell’umanità e ancora oggi fanno pensare e discutere.
Messico, Dicembre 1531, un povero indio di nome Juan Diego, recentemente beatificato da Giovanni Paolo II, da poco convertito, a nome di Maria chiede al suo Vescovo di costruire un tempio, da dove la Vergine Madre celeste avrebbe riversato tutte le sue attenzioni sui popoli indigeni. Per convincere il Vescovo dell’autenticità del messaggio, come segno, aveva portato con sé delle rose, fiorite fuori stagione sul luogo dell’apparizione. Inoltre, nel momento in cui aprì il suo mantello (la tilma) davanti al Vescovo comparve impressa su di esso la stupenda immagine della Madonna di Guadalupe, tutt’ora venerata nell’omonimo santuario, famosa in tutto il mondo, oltre che per la sua bellezza, per lo straordinario mistero che l’avvolge. Mentre in Europa la Chiesa è afflitta dalla divisione della Riforma protestante, questo evento ha significato la rinascita delle popolazioni indigene, dopo l’umiliante conquista spagnola, e la svolta decisiva per l’evangelizzazione di tutto quel continente, soprattutto dell’America centro-meridionale. Ancora oggi questo santuario rappresenta uno dei centri spirituali più importanti di tutta l’America Latina ed è meta ogni anno di più di 12 milioni di persone.
Lourdes (Francia) 11 Febbraio 1958, Bernardetta Soubirous, una povera ragazza di soli 12 anni vede la Madonna, che si presenta con il titolo di Immacolata Concezione, verità di fede, affermata autorevolmente dalla Chiesa come dogma soltanto quattro anni prima, e riceve la stessa richiesta, cioè che si costruisca una cappella e che si venga in quel luogo in processione a pregare e a fare penitenza per i peccatori. Da centocinquant’anni Lourdes è meta di milioni persone, soprattutto di tantissimi ammalati, che da tutto il mondo vanno a cercare la salute del corpo e dell’anima.
Novant’anni fa, il 13 Maggio del 1917, tre pastorelli, Francesco, Giacinta e Lucia, rispettivamente di 9, 7 e 10 anni, i primi due sono fratelli, la terza è loro cugina, in una spianata delle campagne di Fatima in Portogallo, un piccolo centro agricolo a 120 Km da Lisbona, vedono la Madonna per sei volte, che oltre a rinnovare le richieste fatte a santa Bernardetta, consegna loro dei segreti, che riguardano le vicende storiche attuali e le sorti future della intera umanità. Il destinatario del terzo segreto è il Papa in persona, che avrebbe dovuto rivelarlo pubblicamente nel 1960, mentre è stato fatto soltanto nel 2000, in occasione del grande Giubileo. Nell’autunno scorso Antonio Socci , noto giornalista e già viceDirettore di Raidue, ha pubblicato un libro dal titolo provocatorio: “Il quarto segreto di Fatima”, nel quale avanza l’ipotesi che parte di quel segreto non sia ancora stato rivelato, a causa del suo contenuto catastrofico.
Più recentemente ricordiamo le apparizioni di Kibeo in Rwanda (Africa) a tre ragazze adolescenti, dal novembre 1981 fino al 1989, in cui si annunciavano i terribili massacri del 1994, causati dall’odio razziale tra Tutsi e Hutu, quale segno e monito di una rovina più generale verso cui sarebbe incamminato il mondo moderno, se gli uomini non si decidono a cambiare il loro stile di vita e se non si dispongono alla conversione.
Anche se non ancora riconosciuto ufficialmente, non possiamo tacere quanto succede a Medjugorie, un piccolo villaggio dell’Erzegovina dove, da più di 25 anni, precisamente dal 24/06/1981, la Madonna è apparsa ogni giorno a sei ragazzi adolescenti, oggi ormai tutti adulti, maturi con famiglia a carico, e dove a tutt’oggi ancora tre di loro hanno apparizioni quotidiane. Medjugorie è un luogo di eventi straordinari e soprattutto di conversioni sorprendenti. Il suo messaggio è un forte e pressante invito alla penitenza, alla conversione, al ritorno ad una vita più semplice e ad una pratica cristiana vissuta con convinzione e responsabilità, destinato alla Chiesa e a tutta la famiglia umana, perché Dio non fa differenza di persone. La Madonna da brava Madre desidera che nessuno dei suoi figli, affidatogli da Gesù sulla croce, vada perduto. E se non l’ascoltiamo? Per fortuna nostra, una Madre non si dà mai per vinta e non lascia nulla di intentato, finché non arriva al suo scopo: vedere i suoi figli vivi e salvi nella casa del Padre.
Don Marco Belladelli.
Marzo 2007
Il cammino della Chiesa oggi
Alla fine di Dicembre il bollettino ufficiale della Santa sede ha pubblicato le statistiche relative all’attività del Papa nel 2006, comprendenti le udienze pubbliche del mercoledì, quelle private, le celebrazioni liturgiche da lui presiedute e l’appuntamento domenicale dell’Angelus in piazza San Pietro, da cui risulta che tre milioni e duecentoventiduemila persone sono venute appositamente a Roma per incontrarlo. Sorprende soprattutto il dato delle 45 udienze pubbliche del mercoledì, dove di media si toccano le 23.000 presenze settimanali. I numeri poi che si riferiscono agli Angelus domenicali sono ancor più confortanti. Dati da cui si capisce, senza ombra di dubbio, quanto Benedetto XVI sia un Papa amato dalla gente. Il popolo, oltre che dimostrargli affetto, lo apprezza soprattutto per come parla e per quel che dice. Sento spesso tante persone che mi dicono di ascoltarlo volentieri, perché si fa capire, sa spiegare in modo semplice anche i concetti più difficili e soprattutto perché, in un mondo dominato dalla comunicazione di massa, dove è sempre più difficile distinguere il vero e il falso, paradossalmente la sua voce è l’unica ad innalzarsi sempre in nome della verità.
Accanto a questa indubitabile crescente popolarità della sua persona, nei confronti del Papa dobbiamo registrate anche manifestazioni di vera e propria aperta conflittualità. Basti pensare alle reazioni violente di frange del fondamentalismo islamico, seguite all’ormai famoso discorso di Ratisbona del Settembre scorso, quando si è perfino arrivati alla minaccia di morte e che si sono prolungate nel tempo, fino addirittura a far temere l’annullamento del già programmato viaggio in Turchia, previsto per la fine di Novembre. A questo si associa l’altrettanto evidente fastidio da parte di certi nostri ambienti laico - radicali, che, di fronte al suo illuminante magistero, si vedono messi in difficoltà nel sostenere i loro modelli culturali e di vita, i quali finiscono per apparire per quel che sono, cioè mistificazioni ideologiche e scorciatoie che si rivelano per quel che effettivamente sono, cioè veri e propri vicoli ciechi, senza via d’uscita. Basti pensare al già più volte citato dibattito aperto a proposito della necessaria tutela e salvaguardia della famiglia, come istituzione fondamentale della umana società, rispetto ad altre forme di civile convivenza, che anche in questi giorni occupa tutte le prime pagine dei giornali.
Ho preso spunto dal Papa, perché il suo esempio rappresenta bene quella che mi sembra essere oggi la situazione di tutta la Chiesa nel suo complesso, nei confronti della società civile: da una parte essa trova credito e assenso per il suo messaggio dalla forte valenza umana e di solidarietà, dall’altra è osteggiata come un’istituzione che limita la libertà dell’individuo e frena il progresso civile e sociale.
Nel discorso tenuto al convegno di Verona dell’Ottobre scorso, il Papa stesso metteva in evidenza come alla base di questo conflitto ci sia l’intenzione neanche tanto nascosta, da parte di certi ambienti di escludere Dio dalla cultura e dalla vita pubblica, così da renderlo superfluo ed estraneo anche per i singoli. Di fronte a una tale minaccia, proponeva come unico rimedio possibile una testimonianza cristiana, sia personale, che comunitaria, capace di esprimere oggi, come ieri, quel grande “Sì!” detto da Dio a favore dell’uomo per mezzo di Gesù Cristo. Per rafforzare il valore di questo impegno, citava un passo di S. Paolo nella lettera ai Filippesi, in cui l’Apostolo raccomanda che “Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri” (4,8).
Dopo questa citazione, continuava con la seguente riflessione:
“I discepoli di Cristo riconoscono pertanto e accolgono volentieri gli autentici valori della cultura del nostro tempo, come la conoscenza scientifica e lo sviluppo tecnologico, i diritti dell’uomo, la libertà religiosa, la democrazia. Non ignorano e non sottovalutano però quella pericolosa fragilità della natura umana che è una minaccia per il cammino dell’uomo in ogni contesto storico; in particolare, non trascurano le tensioni interiori e le contraddizioni della nostra epoca. Perciò l’opera di evangelizzazione non è mai un semplice adattarsi alle culture, ma è sempre anche una purificazione, un taglio coraggioso che diviene maturazione e risanamento, un’apertura che consente di nascere a quella "creatura nuova" (2Cor 5,17; Gal 6,15) che è il frutto dello Spirito Santo.”
Detto in altri termini significa che il compito del cristiano nel mondo di oggi è certamente quello di accogliere e di promuovere tutto quello che c’è di positivo, senza dimenticare che anche il “positivo umanamente inteso”, va sottoposto a quella purificazione, opera dello Spirito Santo, necessaria per orientare il cammino dell’umanità verso Dio e quello della storia verso la sua salvezza.
Ben venga allora l’alleanza con coloro che Giuliano Ferrara ha definito gli atei devoti, per riaffermare con forza tutto quello che S. Paolo definiva “vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato” presente oggi nella nostra cultura e società. Dopo questo tratto di cammino comune, al cristiano rimane il compito di annunciare e testimoniare per il bene di tutti, ma in solitudine e magari anche provato da qualche persecuzione, che Cristo risorto è l’unica salvezza del mondo.
Don Marco Belladelli.
Febbraio 2007
Rispetto della persona, giustizia e pace.
Cominciamo il nuovo anno parlando di cose buone. L’occasione ci è data dall’assegnazione nel novembre scorso del premio Nobel per la pace 2006 all’economista del Bangladesh, Muhammad Yunus e alla Grameen Bank, di cui è direttore generale. Yunus, personaggio forse sconosciuto al vasto pubblico, è un valente economista, la cui importanza è legata all’invenzione del microcredito, un particolare sistema di finanziamento, che ha permesso a molti poveri del suo Paese, e non solo, di riscattarsi dalla schiavitù della miseria.
Nel 1974 il Bangladesh fu colpito da una delle più tremende carestie della storia. Davanti a questo disastro Yunus, allora poco più che trentenne e, dopo varie esperienze in diversi atenei americani, già professore di economia alla università di Chittagong, s’interroga su come poter aiutare il proprio paese. Egli individua nel circolo vizioso dello sfruttamento dei nullatenenti da parte delle classi sociali più agiate la causa della paralisi economica dei paesi in via di sviluppo, nonostante gli sforzi della cooperazione internazionale. Secondo le leggi del mercato, il lavoratore compra la materia prima da trasformare, per poi rivendere allo stesso commerciante il prodotto finito. Dovendo poi detrarre dal guadagno il prezzo della materia prima, alla fine non gli rimane che il necessario per la propria sussistenza, mentre il venditore può contare, oltre che sulla propria liquidità monetaria, che gli permette sempre di trattare da una posizione vantaggiosa, su una forza lavoro a basso costo, visto che è sempre lui a fissare il prezzo del prodotto finito. L’operaio si trova così costretto dentro una morsa, che rende impossibile un qualsiasi riscatto economico-monetario.
La scommessa del microcredito consiste nell’assicurare al povero, attraverso un piccolo capitale iniziale, l’affrancamento dal doppio cappio del mercante. Se infatti all’inizio della sua impresa egli può contare su una propria autonomia finanziaria, il lavoratore compra la materia prima alle migliori condizioni di mercato e, potendo fare lui il prezzo, la rivende con margini di guadagno certamente superiori. Pur dovendo accantonare una piccola parte dell’introito per la restituzione del prestito, questo sistema gli permette comunque di potenziare la propria autonomia finanziaria e di restare all’interno del circolo produttivo da protagonista e non più soltanto come mera forza lavoro a prezzo zero. I prestiti ammontano mediamente a 180 dollari (corrispondenti a circa 150 euro), e una volta rientrato, il capitale del microcredito rimane sempre disponibile per sostenere altri lavoratori. Siccome parliamo di prestiti e non di offerte a fondo perduto, tra l’altro dati a nullatenenti ritenuti strutturalmente insolventi, sorge spontanea l’obiezione: come si fa a garantire la restituzione? Quando cominciò ad operare a livello regionale, Yunus prima di tutto si preoccupò dell’informazione corretta, coinvolgendo tutti i suoi studenti in una capillare azione di sensibilizzazione di villaggio, in villaggio. Quindi formò dei piccoli gruppi di quattro o cinque persone, perché avviassero le loro piccole attività produttive e, attraverso la gestione collettiva, garantissero la virtuosità del sistema del microcredito. All’inizio fu lui stesso a finanziare le varie iniziative con i propri soldi; dal ’76 poté contare su degli stanziamenti statali, e finalmente nel 1983 si arrivò alla costituzione di un vero e proprio istituto bancario, appunto la Grameen Bank.
Se dopo oltre trent’anni questa esperienza è stata ritenuta meritevole dell’assegnazione di un premio tanto prestigioso, qual ‘è il Nobel per la Pace, non è soltanto per il suo alto valore morale, costituito dall’impegno per l’emancipazione delle classi più povere, ma soprattutto per l’efficacia dei risultati, che sono sotto gli occhi di tutti. Cito soltanto alcuni dati macroscopici: la banca conta su una raccolta di circa 1 miliardo di dollari l’anno, di cui ¾ impiegati per i prestiti a 6,61 milioni di clienti nullatenenti (il 97% sono donne), dislocati in oltre 71.000 villaggi (pari a circa l’ 86% del territorio nazionale), con un tasso di insolvenza pari all’ 1,15%, quando in Italia nel 2005 per i prestiti alle famiglie è stato del 3,3%. Yunus, a commento di queste cifre si limita semplicemente a dire: “Abbiamo guardato come funzionano le altre banche e abbiamo fatto il contrario”.
In un mondo tutto regolato dal valore economico, che arricchisce sempre i soliti noti, a spese dei tanti ignoti, cioè l’ 80% della popolazione mondiale, quello del microcredito è un fenomeno e insieme un sistema dal quale dobbiamo imparare che, quando s’investe seriamente e correttamente sulla persona umana, favorendone il rispetto e la dignità, non si è mai delusi, ma anzi si ottengono sempre risultati straordinariamente positivi.
Concludo facendo riferimento al messaggio del Santo Padre, Benedetto XVI, per la 40° Giornata Mondiale della pace, celebratasi il 1 Gennaio scorso, nel quale mette al centro della sua riflessione proprio il principio del rispetto della dignità della persona umana, perché ci sia più giustizia e più pace per tutti. L’esperienza del sistema del microcredito sta a dimostrare quanto il Papa dice, cioè che quando l’essere umano è messo nelle condizioni “di maturare se stesso nella capacità d'amore”, siamo certi che la sua crescita contribuirà anche a “far progredire il mondo, rinnovandolo nella giustizia e nella pace.”
Auguro a tutti per il nuovo anno di avere più rispetto gli uni degli altri, chiunque essi siano, per un mondo con più giustizia e più pace per tutti.
Don Marco Belladelli.
Gennaio 2007
Natale con i tuoi …
Si avvicinano le feste natalizie. Le nostre città, come i nostri piccoli paesi e la gran parte del mondo si rivestono di quella atmosfera magica, tipica di questo tempo, fatta di luci, di colori, di suoni, di profumi, di odori e di sapori, alla quale, bene o male, non potremmo rinunciare. E’ uno spettacolo, senza il quale non sarebbe Natale.
Un vecchio proverbio recita: “Natale con i tuoi e Pasqua con chi vuoi”. La sapienza popolare, unita alla banale ovvietà, propria delle cose evidenti a tutti, ci ricorda che, secondo tradizione, questa ricorrenza va passata in famiglia. Ci pensano i più intraprendenti ad organizzarci il calendario delle cene e dei pranzi, a cominciare dalla sera della vigilia, fino a Santo Stefano compreso. Alla fine anche i più refrattari sono costretti a concedersi a questa ritualità.
Almeno nell’intenzione, al centro dell’incontro ci dovrebbe essere il piacere e la gioia dello stare insieme, che rende tutto più luccicante, soprattutto a Natale. La festa trasfigura l’opacità del vivere quotidiano, per lasciare spazio a tutto ciò che nelle relazioni umane, soprattutto in quelle parentali, è più nobile e gratificante. Il ritrovarsi insieme, al di là delle diverse storie personali e dei differenti percorsi individuali, fa emergere con forza il legame che unisce una famiglia, cioè l’aver vissuto e il continuare a vivere gli uni per gli altri, come per nessuno altro. E’ la stessa ragione per cui anche i conflitti familiari alla fine risultano più dolorosi e laceranti. Nel bene e nel male ci rendiamo conto che certe persone hanno avuto e continueranno ad avere un’importanza unica nella nostra vita, e che nei loro confronti abbiamo nello stesso tempo un debito e un credito aperto, che non possiamo delegare a nessuno. E’ come dissotterrare una sorgente nascosta, ma da tutti conosciuta, per abbeverarsi alle sue fresche acque. E’ il mistero della vita, che disseminato negli innumerevoli rivoli dell’umanità, prodigiosamente diventa amore.
E’ stato così per Maria e Giuseppe più di duemila anni fa, quando nella spoglia grotta di Betlemme, in cui avevano trovato rifugio, accolsero Gesù, il Dio fatto Uomo. Nel fargli spazio nella loro vita, si sentirono a loro volta accolti, salvati. E continua ad essere così per tutti coloro che, nell’accogliere i loro figli, fanno dell’amore la legge della loro vita. E’ il comandamento nuovo dell’Amore, che ci ha portato e ci porta di nuovo Gesù ogni anno a Natale. Il Suo Amore non è una mera esigenza di tipo affettivo della natura umana. E’ qualcosa di molto diverso, qualcosa che prima ti è donato e poi ti trasforma, perché ti rende capace di amare come Lui.
Verso la metà del Novembre scorso è stata pubblicato il rapporto Eures (l’equivalente europeo dell’ Istat nazionale) su: “Finché morte non vi separi … Caratteristiche ed evoluzione dei matrimoni in Italia”, negli ultimi trent’anni (1975 – 2005). Tutti i giornali e le varie agenzie di stampa sono uscite con lo stesso titolo sensazionale,: “Un divorzio ogni quatto minuti!”, quasi si fossero scambiati una fotocopia. L’indagine, molto dettagliata, fornisce un quadro obiettivamente molto inquietante, che sostanzialmente denuncia una crescente mortalità matrimoniale, le cui esatte dimensioni per quanto riguarda le unioni celebrate nell’ultimo decennio saranno quantificabili soltanto fra circa 10-15 anni. Bastano alcuni dati per rendersi conto che non si tratta soltanto di una impressione, ma di un dato di fatto tanto evidente, di fronte al quale non si può girare la faccia dall’altra parte. Nel periodo in questione i matrimoni sono calati del 32,4%, mentre le separazioni sono aumentate del 300%. Sorprende vedere che la maggior parte di esse avviene entro i primi tre o cinque anni di matrimonio. Non so quanto possa essere significativo, ma l’indagine evidenzia che i matrimoni religiosi durano più di quelli civili, anche se di poco.
Un noto anchorman italiano, presente ad uno dei salotti televisivi più seguiti, nel quale di dibatteva di famiglia e dei suoi problemi, esordì snocciolando tutta una serie di situazioni secondo cui sarebbe il contesto umano più favorevole ad ogni sorta di violenza, compiuto contro la persona.
Due fatti che ci ricordano una realtà: la crisi della famiglia nella nostra società, ma che nello stesso tempo evidenziano il diverso approccio al problema. La lettura attenta dei dati dell’ Eures, nella loro complessità e articolazione ci aiuta ad individuare con chiarezza delle questioni vere e a mettere in atto degli interventi, a tutti i livelli, politico, sociale, economico, culturale e spirituale, per tentare, non dico di risolvere tutto, ma almeno di affrontare la crisi della famiglia, che, nella misura in cui funziona, diventa una benedizione non soltanto per se stessa, ma anche per molte altre persone. Diverso invece è il modo di fare di chi persegue sistematicamente lo screditamento di questa istituzione, facendosi forte del potere mediatico, e presentando alcune situazioni problematiche, per fortuna di tutti assolutamente limitate, come la norma. Un conto sono le difficoltà degli individui a causa dell’accelerazione senza precedenti dei mutamenti storici, sociali e culturali degli ultimi tempi, che richiedono da parte di tutti uno sforzo straordinario per trovare la giusta sintonia con essi. Ben altra cosa invece sono i nemici dichiarati della famiglia, i quali perseguono disegni che mirano a equipararla a qualsiasi unione umana, dove l’amore viene confuso con la soddisfazione delle proprie esigenze naturali e pscicoemotive.
Auguro a tutti gli amici Lettori, insieme ad UN FELICE ANNO NUOVO, un “BUON NATALE con i tuoi”, perché in questa occasione possiate sentirvi ancor di più accolti e amati del solito, così da aggiungere un posto a tavola, anche per chi finora è stato escluso da questa mensa dell’AMORE.
Don Marco Belladelli.
Dicembre 2006
La dolce morte.
Siamo a Novembre, mese che inizia con la commemorazione dei defunti, ricorrenza caratterizzata dal mesto pellegrinaggio personale sulla tomba dei propri cari. Anche coloro che si sottraggono a questa tradizione, non possono fare a meno di lasciarsi sfiorare dalla nostalgia per chi non è più tra noi e di abbandonarsi, magari semplicemente con il fugace pensiero di qualche attimo, all’onda mesta dei ricordi, per finire poi a fare i conti, silenziosamente attoniti, con il mistero della vita e della morte. Un contesto adatto per riflessioni impegnative, su temi scottanti come l’ eutanasia, su cui periodicamente siamo chiamati a cimento dalla cronaca. Era il Marzo 2005 quando tutto il mondo si appassionò al caso di Terry Schiavo, la donna americana, da quindici anni in stato vegetativo persistente, tenuta in vita artificialmente, di cui il marito chiese e ottenne dal giudice la soppressione. Un anno dopo, precisamente nel Marzo di quest’anno c’è stata la querelle dell’allora ministro per i Rapporti con il Palamento, On. Carlo Giovanardi, che definì “nazista” la legislazione olandese, in materia di eutanasia per i bambini inferiori ai dodici anni, affetti da patologie inguaribili, costretti a vivere una vita a loro detta “non degna”. E’ del 22 Settembre scorso la lettera aperta di Piergiorgio Welby, affetto da distrofia muscolare progressiva, al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in cui chiede di provvedere a staccare le macchine che lo tengono in vita e quindi di poter morire.
Ogni volta il dibattito si fa sempre più aspro, soprattutto per la radicalizzazione ideologica delle posizioni tra chi è a favore di questa pratica e chi invece è contrario. Non mancano poi all’interno dei due schieramenti contrapposti voci discordanti, come è stata l’intervista di don Verzè al Corriere della Sera del 13/10 scorso, nella quale il sacerdote fondatore del San Raffaele di Milano dichiarava di aver autorizzato di staccare la spina del respiratore artificiale, per lasciar morire un caro amico, per il quale non ci sarebbero state speranze di recupero. A tutto questo si aggiunge il forte condizionamento emotivo insito nel tema stesso. Chi infatti pensa di poter parlare della propria o altrui morte, con animo distaccato, come se si trattasse di qualcosa che non lo riguarda? Lo dico per esperienza diretta. Spesso in questi anni mi è capitato di partecipare come relatore a dibattiti sull’eutanasia e alla fine si è finito con l’accalorarsi a tal punto, da vanificare anche la più ferma volontà di dialogo.
In origine nella lingua greca il termine eutanasia indicava la morte serena di un uomo, nel senso di una fine “priva di sofferenze”, quella che comunemente viene anche chiamata la morte del giusto, cioè un addormentarsi pacifico. Oggi invece per “eutanasia in senso vero e proprio si deve intendere un'azione o un'omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore.”[2]. La definizione è di Papa Giovanni Paolo II, in cui appare evidente che il punto centrale del problema sta nel fatto che, l’unico modo per risparmiare atroci e prolungate sofferenze consiste nel procurare volontariamente la morte pietosa di una persona, direttamente o indirettamente. Forse non tutti sanno che soprattutto in questi ultimi vent’anni, la domanda di eutanasia prende le mosse proprio come principio di autodifesa del paziente nei confronti di una medicina, che invece di curare e guarire, diventa iatrogena, cioè dannosa per l’uomo. Proviamo a spiegare nel modo più semplice possibile come si arrivi a tanto. Quando andiamo da un medico, è per chiedergli di guarirci. Di fronte ai tanto esalti progressi scientifici e tecnologici raggiunti dalla medicina, nessuno immagina che un giorno sia possibile sentirsi dire per sé o per un proprio caro: “non c’è più nulla da fare!”. Per questo può accadere che la medicina nel tentativo di superare se stessa, venga ad assumere una posizione di assoluto dominio della vita della persona, senza d’altro canto assicurare la benché minima possibilità di guarigione e tanto meno del più impercettibile segno di miglioramento. E’ il caso di molte persone che, a causa di gravi traumi o di patologie molto complesse, quali quelle di tipo degenerativo (oncologiche, cardiologiche, neurologiche), abbiano bisogno di essere supportate per le loro funzioni vitali: respiratorie, cardio-circolatorie, renali e nutritive, da macchine, in assenza del benché minimo segno di coscienza vigile. Oppure pensiamo al già citato caso di Giorgio Welby, il quale pur essendo cosciente, dipende dalle macchine per le sole funzioni respiratoria e nutritiva. Molto diversa è invece la condizione del paziente oncologico terminale, per il quale generalmente non c’è bisogno di supporti tecnologici particolari, ma soprattutto di lenire le atroci sofferenze fisiche, insieme a quelle morali e spirituali dovute al costatare giorno per giorno il proprio disfacimento.
Il filosofo tedesco Hans Jonas, nel suo libretto Il diritto di morire, scrive: “Nessuno ha il diritto, men che mai il dovere, d’imporre una terapia di sopravvivenza, che gli fa dono di una vita che egli non ritiene degna di essere vissuta, negandogli continuamente il diritto all’autodeterminazione” [3]. Davanti a tale affermazione, nella nostra mente si affollano tante domande:
Come si può, trasformare il diritto inalienabile alla vita di ciascun essere umano nel diritto di morire? Quando una vita non è più degna di essere vissuta? Se la responsabile di questa condizione di vita indegna è la medicina, come possiamo fidarci di essa per la soluzione del problema? Non c’è il rischio di prestarsi a degli abusi, sopprimendo persone che invece possono e vogliono vivere?
Come si vede, non si tratta semplicemente di valutare aspetti di tipo meramente tecnico-scientifico e medico-clinico, perché il problema della eutanasia è prima di tutto di natura squisitamente umana e personale, e per questo necessita assolutamente di approfondite riflessioni prima di carattere etico-giuridiche e poi, solo come conseguenza, di tipo socio-politiche. Rimane in ogni caso più forte che mai il sospetto che, nonostante l’enfasi che tende a presentarla come un atto di compassione, una tale pratica, comunque essa sia attuata, porti con sé e dentro di sé la malizia propria dell’omicidio e del suicidio, insieme ad una straordinaria assenza di Speranza.
Don Marco Belladelli.
Novembre 2006
Verona 2006 e
il cammino della Chiesa italiana
Dal 16 al 20 Ottobre prossimo si svolgerà a Verona il quarto Convegno della Chiesa italiana. L’importanza dell’evento è dato prima di tutto dal coinvolgimento di tutta la Chiesa: dai suoi vertici fino alla base, in tutti gli ambiti in cui essa è presente, dalle parrocchie agli ambienti più diversi della vita sociale, e secondariamente dalla sua straordinarietà, poiché si tratta di un appuntamento che si verifica ogni dieci anni. L’obiettivo di questa assemblea degli stati generali della Chiesa italiana è quello di fare il punto della situazione, in rapporto al momento attuale che si sta vivendo, e di individuare orizzonti e prospettive verso cui orientare l’impegno e la testimonianza dei cristiani nei prossimi dieci anni.
Per capire da dove è iniziato questo cammino, bisogna partire da quaranta anni fa, quando, alla conclusione del Concilio Vaticano II, si cominciò ad interrogarsi su come e che cosa fare per diffonderne lo spirito in tutto il mondo e calare nella pratica le decisioni. D’ altro canto, la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta segnarono a livello culturale e sociale un vero e proprio strappo rispetto al passato. Basta pensare a quello che ha significato il movimento della contestazione del ’68, che tra l’altro, qui in Italia, ebbe proprio nell’occupazione del Duomo di Parma uno dei suoi momenti più rappresentativi ed emblematici. Già il documento conciliare Gaudium et Spes, in cui si analizzava la presenza e il rapporto della Chiesa con il mondo contemporaneo, aveva parlato di due fenomeni culturali, che nel corso del tempo si sarebbero sempre più evidenziati, caratterizzando fortemente la società e la cultura soprattutto del mondo occidentale. Ci riferiamo alla secolarizzazione, per la quale si tende sempre più ad emarginare e svuotare di significato ogni presenza e riferimento al sacro e alla religione, e alla accelerazione dei mutamenti, che negli ultimi decenni ha raggiunto livelli tanto elevati, al punto che qualcuno parla di cambio generazionale, non più nell’arco dei soliti 25/30 anni, ma ad ogni lustro.
La Chiesa, proprio per la sua particolare natura, non può che vivere strettamente inserita nella società del suo tempo, e tra tutte le istituzioni, fu quella che più di ogni altra risentì delle conseguenze negative di questi fenomeni culturali. E poiché, in forza della propria identità e missione, non poteva permettersi il lusso di perdere l’appuntamento di annunciare il Vangelo agli uomini e alle donne del xx secolo, come lo aveva fatto nel corso dei suoi quasi duemila anni di storia, cercò di attrezzarsi per comprendere ciò che stava succedendo ed agire di conseguenza. Furono così elaborati i piani pastorali, diventati poi degli orientamenti, nei quali, assieme alle analisi di situazioni per evidenziare le tendenze emergenti dal punto di vista socio-culurale, si indicavano le linee operative concrete su cui indirizzare e concentrare l’impegno degli operatori pastorali. Nel contesto di queste specifiche strategie, si senti anche l’esigenza di ritrovarsi ogni dieci anni a livello nazionale, per verificare il lavoro svolto e far emergere dal confronto una sintesi, come traccia di riferimento certo del comune cammino delle varie comunità cristiane. Nacquero così i Convegni Nazionali della Chiesa italiana. Il primo si svolse a Roma nel 1976 ed ebbe come tema “Evangelizzazione e promozione umana”, a cui seguì nel 1985 quello di Loreto, su “Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini”. Dieci anni dopo, nel 1995, ci si ritrovò a Palermo per discutere de “Il Vangelo della carità per una nuova società in Italia”, e tra pochi giorni inizierà a Verona il quarto Convegno dal titolo: “Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo”.
Non essendo il momento, né il luogo per più ampie e approfondite analisi, mi pare sufficiente considerare la formulazione dei temi dei quattro Convegni per mettere in evidenza la consapevolezza e la volontà della Chiesa di essere nella società italiana, quello che, secondo la parabola evangelica, rappresenta una manciata di lievito per tutta la pasta (cfr Mt 13,33). Infatti, una delle novità più spiacevoli, con cui la Chiesa ha dovuto fare i conti in questo periodo postconciliare, è quella di scoprirsi ormai socialmente minoranza , anche se paradossalmente la maggioranza degli italiani fa ancora riferimento ad essa per quelli che sono i significati dei passaggi più importanti della vita (nascita, matrimonio, morte, ecc.). Per questo che a Verona, di fronte a questa amletica situazione di una non ben definita appartenenza alla Chiesa e né altrettanto chiara estraneità, si è deciso di confrontarsi con quello che è da sempre l’evento fondante della fede cristiana: la risurrezione di Cristo. Soltanto chi fa l’esperienza del Risorto può dirsi autenticamente e sinceramente cristiano e la prima e fondamentale sua testimonianza verso il mondo è quella di farsi portatore nelle varie situazioni di vita della Speranza originata dalla risurrezione di Cristo.
Augurando buon lavoro alle migliaia di persone che parteciperanno al Convegno, in rappresentanza delle circa trecento Diocesi d’Italia, da esso ci aspettiamo l’indicazione di veri segni di Speranza, sia per la Chiesa che per tutta la società italiana.
Don Marco Belladelli.
Ottobre 2006
Non c’è pace tra gli ulivi.
“Non c’è pace tra gli ulivi” è il titolo di un film italiano del 1950, che racconta le vicende di un pastore del basso Lazio, reduce dell’ultima guerra, il quale, tornato a casa, trova la famiglia ridotta in miseria per colpa di un usuraio del luogo, arricchitosi durante il periodo bellico, approfittando delle disgrazie altrui, e decide di farsi giustizia da sé. Prendiamo soltanto in prestito il titolo del film, per parlare invece di un’altra guerra, quella scoppiata recentemente in Medio Oriente tra Israele e Libano. Mentre scrivo, si è da pochi giorni finalmente arrivati ad un fragile “cessate il fuoco”, dopo oltre un mese di combattimenti, costati da parte libanese più di mille morti e metà della popolazione rifugiata in improvvisati campi profughi, mentre Israele conta circa duecento vittime tra civili e militari e più di due milioni di persone costretti a vivere nei rifugi, senza parlare poi degli ingenti danni economici da una parte e dall’altra causati dai ripetuti bombardamenti delle città del sud del Libano e della stessa Beirut, e dai lanci dei missili sulla Galilea.
Il Medio Oriente è senza dubbio uno dei nodi più ingarbugliati della storia, dove oltre ai già numerosi problemi di carattere etnico e religioso, per il fatto di essere da più di cinquemila anni il crocevia dell’incontro di popoli di origine e cultura diversi, oggi si aggiungono interessi strategici, geo-politici ed economici di rilevanza mondiale. Dallo scoppio delle ostilità, fino ad oggi abbiamo assistito a ripetuti sforzi diplomatici per trovare una base di accordo su cui intavolare trattative di pace durevoli. A cominciare dalla conferenza di Roma di fine Luglio, per continuare poi con l’estenuante lavoro del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, si è dovuto fare i conti con una situazione molto complessa e nello stesso tempo davvero paradossale, per i delicatissimi equilibri politici, sconvolti per l’ennesima volta. A causa del lancio di missili sulla Galilea, Israele rivendica il proprio diritto all’autodifesa, fino ad invadere i territori libanesi, per disarmare i responsabili e risolvere il male alla radice. Da parte sua, il governo libanese fa appello al rispetto della propria sovranità territoriale, senza però essere in grado di controllare gli Hezbollah, il partito dell’esercito di Dio, sostenuto dalla Siria e dall’Iran, che ormai rappresenta uno stato nello stato. A tutt’oggi, pur essendo giunti ad una risoluzione accettata da entrambe le parti, che prevede l’invio di 15 mila caschi blu nella regione del sud del Libano, come forza di interposizione, resta il timore che i militari sotto bandiera ONU alla fine corrano il rischio di trovarsi in mezzo ad un conflitto, che può riaprirsi da un momento all’altro, nell’impossibilità sia di porvi rimedio, sia di sfuggirvi.
I ripetuti appelli del Santo Padre alla pace, alla moderazione e alla necessità di privilegiare sempre le vie diplomatiche rispetto al confronto armato, sono rimasti inascoltati. Anzi, nelle parole del Papa, mi è parso di notare abbastanza evidente una certa amarezza e delusione, quando denunciava sordità anche dei cristiani, come se ci fosse una neanche tanto nascosta volontà da parte degli attori coinvolti nelle trattative di lasciare fuori la Santa Sede , in quanto interlocutore non gradito nel ruolo di “Grillo parlante”, cioè voce della coscienza del Pinocchio di turno. Ma, come dice il profeta: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie - oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri.” (cfr Is 55,8-9). Rispetto alle intricatissime trattative diplomatiche degli uomini, per queste situazioni Dio ha messo a nostra disposizione altri strumenti di molto più sicura efficacia. A questo ha certamente pensato Benedetto XVI quando, a cominciare da Domenica 23 Luglio e per tutti i giorni successivi, ha invitato tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà ad offrire preghiere e sacrifici per la pace e la giustizia in quella regione tanto travagliata del Medio Oriente. Come dice il Vangelo, certe grazie si possono ottenere soltanto da Dio, e non dagli uomini, unicamente per mezzo della preghiera e del digiuno (cfr Mc 9,29), perché la combinazione di preghiera e digiuno, quando diventano il segno autentico della accoglienza di Dio, come bene assoluto della propria vita e del proprio esistere, si trasformano in due potentissimi strumenti per ottenere dal Cielo ciò di cui abbiamo tanto bisogno. E il bene della pace è un dono che viene soltanto da Dio, come traguardo e sintesi di tutti gli altri beni che abbiamo ricevuto dall’Alto. Per capire questo collegamento tra Dio e la pace nel mondo, credo non faccia male a nessuno rileggersi l’enciclica “Pacem in terris”, scritta da Papa Giovanni XXIII all’indomani della pericolosissima crisi di Cuba, quando Stati Uniti e Unione sovietica arrivarono al limite di una possibile terza guerra mondiale. In essa sono indicati quattro principi irrinunciabili per ottenere la pace tra le nazioni: verità, giustizia, amore e libertà. E’ evidente che tra i contendenti coinvolti nell’intrigato nodo mediorientale non c’è la volontà di arrendersi ad uno o più di questi quattro punti fermi. Ecco perché non è inutile ricorrere alla preghiera e al digiuno, perché è più facile che otteniamo da Dio ciò che gli uomini non vogliono concedere.
Don Marco Belladelli.
Settembre 2006
La Famiglia tra Chiesa e Società.
Dall’ 1 al 9 Luglio scorso si è svolto a Valencia, in Spagna, il V Incontro mondiale delle Famiglie, organizzato e animato dal Pontifico Consiglio per la Famiglia, sul tema de “La trasmissione della fede nella Famiglia”. Ad esso hanno partecipato più di un milione di persone, provenienti da tutto il mondo. Momento culminante dell’incontro sono stati i due giorni conclusivi, con la presenza di Papa, Benedetto XVI, che ha voluto partecipare di persona e concludere i lavori con il suo intervento.
Stampa e televisioni di tutto il mondo si sono occupati molto più del rifiuto del premier spagnolo, Zapatero, a presenziare alla celebrazione della S. Messa del Pontefice in programma per Domenica 9 Luglio, che dei contenuti trattati. Del resto non c’è da stupirsi che i mass media in queste ed altre occasioni siano più interessati a puntare i loro riflettori sugli gesti polemici, che concentrarsi sui temi dibattuti, soprattutto quando si tratta di eventi ecclesiali dove si discutono argomenti tanto scottanti per il nostro tempo, come quello della famiglia, diventato ultimamente aperto campo di scontro tra la Chiesa e la società. Mi riferisco al dibattito in corso, soprattutto nei paesi europei, a diversi livelli, culturale, sociale, giuridico e politico, e alle diverse soluzioni avviate dai vari governi, sull’allargamento dei diritti fino ad oggi propri della famiglia monogamica ad altre realtà, quali per esempio le coppie di fatto o le unioni omosessuali.
Quando parliamo di famiglia, immediatamente ciascuno di noi si rappresenta quella realtà, fatta di persone da cui ha avuto origine la sua vita. A quel uomo e a quella donna, che si sono uniti per amore e sono diventati suo padre e sua madre, convivenza nella maggior parte dei casi arricchita anche dalla presenza di qualche fratello o sorella, nella quale è cresciuto, attingendo dalle risorse materiali e spirituali in essa presenti il necessario per rendersi autonomo, indipendente e per intraprendere un suo personale percorso di vita, senza però mai separarsi da essa in un modo definitivo ed assoluto. Nel bene e nel male, la famiglia rappresenta un legame fondamentale ed unico per ogni uomo e nei momenti di difficoltà rimane per la stragrande maggioranza delle persone il punto di riferimento più importante a cui ricorrere e far affidamento. Quando però è la famiglia a manifestare le sue fragilità, che possono essere di vario tipo: affettivo, relazionale, culturale, sociale, economico, o spirituale, è molto più facile che si punti il dito contro di essa per attribuirle la responsabilità dei vari problemi evidenziati, piuttosto che mostrarsi solleciti nel soccorrerla, supportala e sostenerla. Anche nella mia esperienza di più di un quarto di secolo di ministero sacerdotale, durante il quale mi sono trovato ad operare in vari ambiti sociali, quali la parrocchia, la scuola e l’ospedale, soprattutto in occasione di collaborazioni con operatori di varie istituzioni pubbliche, spesso mi sono dovuto scontrare con il pregiudizio culturale, secondo il quale la famiglia è la causa di tutti mali di cui oggi soffre la nostra epoca, e per questo deve essere esautorata da tutte le sue funzioni e sostituita con altri surrogati sociali.
Ora, era impensabile che, tra i grandi cambiamenti culturali verificatisi in questi ultimi decenni che hanno coinvolto e stravolto tutte le realtà umane e le sue varie istituzioni, non ci fossero degli aspetti specifici tali da costituire un’insidia anche per la famiglia. Cito due esempi su tutti. Primo fra tutti la cosiddetta rivoluzione sessuale degli anni sessanta che, determinando la distinzione dell’esercizio della sessualità dalla finalità procreativa, fino alla conseguenza estrema della sua separazione anche dalla dimensione umana dell’amore stesso, ha provocato l’indebolimento della relazione uomo-donna, con l’inevitabile aumento delle separazioni e dei divorzi. L’altro evento culturale che altrettanto fortemente ha contribuito a minare la solidità della famiglia è un certo femminismo radicale, che per favorire l’emancipazione della donna e contrastare lo strapotere sociale del maschio, ha ingenerato una così violenta conflittualità tra i sessi, fino a far passare l’idea di una famiglia monoparentale. Perciò, accanto alla famiglia tradizione, fondata sull’istituzione naturale del matrimonio, sono nati nuovi modelli di unioni parentali da accostare ad essa, tanto che oggi perfino le coppie formate da omosessuali reclamano gli stessi diritti finora riservati all’unione di marito e moglie, compresa l’ adozione dei figli.
Davanti a queste nuove situazioni e alle relative problematiche evidenziate, mi pare poco utile e tanto meno saggio dividersi tra progressisti e tradizionalisti. La negazione del dialogo, lasciando che ciascuno percorra la propria strada, non può che risolversi da un lato, un po’ pilatescamente, nel lavarsene le mani, e dall’altro, un po’ manzonianamente, nello scaricare sui posteri le responsabilità del presente. Senza voler essere catastrofici, mi sembra possa risultare a tutti sufficientemente chiaro che su questi temi, che interessano aspetti fondamentali della realizzazione personale come uomini e donne e della convivenza sociale, si gioca il futuro stesso dell’umanità. Per questo sono anche convinto che il discorso meriti ben altro sviluppo e approfondimento, a cui mi riprometto di dedicare prossime riflessioni. Intanto, a proposito del dibattito, piuttosto acceso, in corso tra la Chiesa e la società civile sul tema della famiglia, mi limito ad una osservazione conclusiva, che mi pare altrettanto evidente. Mentre il modello di famiglia proposto dalla Chiesa, cioè quello costituito dall’unione uomo-donna, fondato sull’istituzione naturale del matrimonio monogamico, finalizzato oltre che alla comunione dei coniugi, anche alla procreazione e all’educazione dei figli, quale cellula fondamentale della società, e quindi sede di diritti inalienabili e di tutela giuridica, è ben chiaro e conosciuto, non si capisce bene a che cosa pensi la società civile, quando, incalzata dalla continua evoluzione dei costumi, fucina di fenomeni molto spesso effimeri e nello stesso tempo tra loro contraddittori, propone soluzioni, che nel momento in cui divengono operative, si rivelano esse stesse inadeguate rispetto alla realtà stessa che si intende tutelare o salvaguardare. Non si può piegare il diritto alle esigenze di chi vuol far passare il precario capriccio di alcuni per convergenza su valori comunemente condivisi. Di questo passo si arriverà ad una legislazione ad personam per ciascun individuo. O non vi pare?
Don Marco Belladelli.
Agosto 2006
Il Papa ad Auschwitz
Non possiamo fare a meno di soffermarci sulla storica visita di Papa, Benedetto XVI, al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau durante il suo recente viaggio apostolico in Polonia, per rendere omaggio alla memoria del predecessore, Giovanni Paolo II. Sulle sue tracce, Papa Ratzinger, il 28 Maggio scorso, come ultima tappa in terra polacca, si è recato come pellegrino in quei luoghi “di accumulo di crimini contro Dio e contro l'uomo che non ha confronti nella storia”, pellegrino sbigottito, attonito, silenzioso, capace soltanto di domandare “ad alta voce perdono e riconciliazione” e di gridare a Dio “di non permettere mai più una simile cosa”. Davanti alla memoria di quegli orrendi crimini sono di nuovo risuonate le inquietanti domande nei riguardi di Dio: “Dove era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto? Come poté tollerare questo eccesso di distruzione, questo trionfo del male?”. Domande laceranti per credenti e non credenti, attorno a cui nella seconda metà del XX secolo si è sviluppato un ampio dibattito di ripensamento del concetto di Dio. Famoso in questo senso è lo scritto del filosofo tedesco Hans Jonas, dal titolo: “Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica”[4]. Ad Auschwitz il Dio infinitamente buono ha rivelato una sua radicale impotenza nei confronti del male. Una verità amara per l’umanità, ma che nello stesso tempo le assegna una pesantissima responsabilità nei confronti del male. Come abbiamo potuto costatare in questi tragici avvenimenti, quando l’uomo vuole imitare l’onnipotenza di Dio, scatena e nello stesso tempo si fa complice delle forze maligne incontrollate e incontrollabili, di cui alla fine diventa vittima. L’unica soluzione possibile per salvarsi, secondo Jonas, consiste nell’imitazione della bontà infinità di Dio.
Inserendosi all’interno di questo dibattito, il Papa si guarda bene dal farsi giudice di Dio. Egli grida verso Dio, perché gli uomini si ravvedano, perché si risvegli dentro ciascuno la presenza nascosta di Dio “affinché quel suo potere che Egli ha depositato nei nostri cuori non venga coperto e soffocato in noi dal fango dell'egoismo, della paura degli uomini, dell'indifferenza e dell'opportunismo … proprio in questa nostra ora presente, nella quale incombono nuove sventure, nella quale sembrano emergere nuovamente dai cuori degli uomini tutte le forze oscure”. Nella Shoa, l’olocausto, egli vede non solo il tentativo di annientamento del popolo ebraico, ma soprattutto del Dio, che per mezzo di quel popolo ha parlato a tutta l’umanità. Riflettendo poi sui testi delle lapidi che ricordano il sacrificio dei vari gruppi etnici e nazionali, mette in evidenza come in forza dell’ideologia della razza pura si sia tentato di eliminare dalla faccia della terra ciò che si era giudicato come “una vita indegna di essere vissuta”, oppure ciò che si riteneva “ rifiuto della nazione”. Citando Sofocle, dice: “Sono qui non per odiare insieme, ma per insieme amare”, e conclude invitando ad un comune impegno per il bene: “Grazie a Dio, con la purificazione della memoria, alla quale ci spinge questo luogo di orrore, crescono intorno ad esso molteplici iniziative che vogliono porre un limite al male e dar forza al bene.”.
Ovviamente, ai tanti commenti positivi, non sono mancati coloro che invece si sono detti delusi, perché si aspettavano altro o di più . Due esempi su tutti. Il lunedì successivo alla visita, in una trasmissione radiofonica pomeridiana di Radio 1, molto seguita, il professor Gian Enrico Rusconi, docente di Scienza politica a Torino, lamentava un imbarazzante defilarsi della Chiesa dalle proprie responsabilità davanti alle atrocità dell’olocausto, per una evidente mancata rispondenza alla sua alta missione nel mondo. Per questo egli avrebbe voluto sentire altre domande, del tipo: “Dov’era la Chiesa? Perché il silenzio di Pio XII?”. Secondo lui, avrebbero avuto certamente più effetto di quelle poste dal Papa. La settimana seguente, nella rubrica "In breve", la striscia quotidiana di La7 dopo il TG della sera, condotta da Francesco Verderame, l’ambasciatore israeliano in Italia, Ehud Gol, dichiarò: “Senza dubbio e' stata una visita molto importante, ma allo stesso tempo credo fosse necessario per lui (il Papa) essere più critico nei confronti della Germania nazista”. Nella stessa intervista si ricordava la visita a Gerusalemme di qualche anno fa dell’onorevole Gianfranco Fini, organizzata dallo stesso ambasciatore, esibita come esempio di sincero ravvedimento.
Non è questo il luogo per entrare nel merito delle obiezioni mosse al Santo Padre, né è nostra abitudine essere più realisti del re e neppure interpretare la parte del difensore d’ufficio di turno. Per tutto quello che ho detto sopra, resto convinto che la vista ad Auschwitz del Papa tedesco abbia significato molto per la Chiesa e per l’umanità stessa nel solco della via del perdono e della sempre più necessaria riconciliazione tra i popoli. Che poi qualcuno, approfittando dell’amplificazione mediatica, manifesti delusione per la frustrazione di uno sproporzionato protagonismo, o approfitti delle luci accese della ribalta per avere un po’ di gloria per sé, anche questo fa parte del già visto.
Per finire, una curiosità che ha davvero colpito il mondo intero: mentre il Papa parlava, nel cielo di Auschwitz si è illuminato un meraviglioso arcobaleno, segno biblico della rinnovata alleanza tra Dio e l’uomo (Gen 9,12ss). Quale approvazione più autorevole ci si poteva attendere, se non quella che viene direttamente dall’Alto?
Don Marco Belladelli.
Luglio 2006
L’ Italia spaccata in due
e il bene comune.
In questa prima metà del 2006 la politica ha fatto la parte del leone. Dopo una lunghissima ed estenuante campagna elettorale, siamo finalmente arrivati alle tanto agognate elezioni politiche. Ad esse sono seguite, oltre alle rituali scadenze istituzionali, come la designazione dei Presidenti delle due Camere del Parlamento italiano e la formazione del Governo, la scelta del nuovo Presidente della Repubblica e una tornata di consultazioni amministrative, che hanno richiamato alle urne quasi la metà dell’elettorato italiano. Per finire, come ciliegina sulla torta, prima di andare in vacanza ci aspetta un referendum per confermare la riforma della seconda parte della Costituzione, nota anche come devolution, approvata nella precedente legislazione.
Il risultato del 9 e 10 Aprile scorso ha sorpreso molti e suscitato ancora più perplessità, perché, in barba a tutti i sondaggi che prevedevano un distacco tra i due schieramenti fra i tre e i cinque punti in percentuale, ha invece evidenziato una Italia spaccata in due, sostanzialmente divisa a metà tra centro-destra e centro-sinistra, con un vantaggio di che si aggira su circa 25.000 voti di quest’ultimo raggruppamento politico sull’altro. In questi ultimi due mesi abbiamo poi avuto modo di costatare le conseguenze di una tale situazione. Nei vari passaggi istituzionali previsti dalla nuova legislatura, si è assistito ad uno scontro ininterrotto tra le due parti, un muro contro muro, senza soluzione di continuità. Qualsiasi appello al dialogo è rimasto inascoltato e fino ad oggi l’unica strategia politica possibile sembra essere unicamente quella di continuare il braccio di ferro, per dirla liturgicamente, sine fine dicentes, cioè all’infinito, o meglio, fino al prossimo confronto elettorale, più o meno ravvicinato.
Al di là e nel rispetto delle convinzioni politiche di chiunque, una tale situazione, mi ha fatto sorgere una serie di domande, che, approfittando di questo spazio, ho pensato di farne parte ai miei venticinque lettori.
1. Questo quadro politico corrisponde e rappresenta realmente quello che oggi è e vuole essere culturalmente e socialmente l’Italia?
2. A chi giova l’esclusione pregiudiziale del metodo del dialogo e la riduzione degli spazi per un vero confronto dialettico tra le parti?
3. E’ ragionevole chiedersi, al di là delle legittime differenze, se le due parti politiche, così radicalmente ingessate sulle rispettive posizioni, siano davvero in grado di perseguire il cosiddetto “bene comune” del Paese?
Il primo quesito è il più facile da risolvere. Il quadro politico dipende molto dallo strumento di “misurazione” adottato, cioè dalla legge elettorale. E dopo i vari cambiamenti degli ultimi anni, il problema, mi sembra, non sia nemmeno l’alternativa tra “proporzionale” o “maggioritario”, ma il modo con cui sono coniugati i due sistemi. Bisogna che lo strumento garantisca chi effettivamente ha la maggioranza nel Paese di essere adeguatamente rappresentato e di poter governare.
Per la seconda domanda, considerando quanto succede nelle relazioni interpersonali, quando la conflittualità raggiunge livelli di esasperazione tali, da non esserci più spazio per un incontro tra le parti su un qualsiasi presupposto di dialogo e non resta che la soluzione della separazione: “ciascuno per la sua strada!”, di conseguenza sorgono molte altre domande e nessuna risposta. E’ questo il futuro dell’Italia, cioè la rottura, lo sfascio, il tanto peggio, tanto meglio? E’ solo assurdo pensarlo. Allora, tutto ciò che vediamo e ci fan credere, è il solito teatrino della politica? Che cosa nasconde? Chi sono allora i veri “burattinai”? A che cosa mirano?
La terza domanda mi ha fatto invece venire in mente un passaggio dell’ultima enciclica di Benedetto XVI, che vorrei sottoporre alla vostra attenzione:
“Uno Stato che non fosse retto secondo giustizia si ridurrebbe ad una grande banda di ladri, … La giustizia è lo scopo e quindi anche la misura intrinseca di ogni politica. La politica è più che una semplice tecnica per la definizione dei pubblici ordinamenti: la sua origine e il suo scopo si trovano appunto nella giustizia, e questa è di natura etica. Così lo Stato si trova di fatto inevitabilmente di fronte all'interrogativo: come realizzare la giustizia qui ed ora? Ma questa domanda presuppone l'altra più radicale: che cosa è la giustizia? Questo è un problema che riguarda la ragione pratica; ma per poter operare rettamente, la ragione deve sempre di nuovo essere purificata, perché il suo accecamento etico, derivante dal prevalere dell'interesse e del potere che l'abbagliano, è un pericolo mai totalmente eliminabile.” (Deus caritas est, n. 28).
Conclusione: abbiamo a che fare con una banda di ladri o siamo ormai arrivati all’oblio della ragione? Non so, sinceramente quale delle due alternative sia più drammatica. Resta ben evidente il fatto che in questo manicheismo politico da seconda repubblica, il “bene comune” è sempre secondo, rispetto agli interessi di parte. Come cristiano, ricordo che, indipendentemente da chi comanda, oltre agli obblighi morali propri di qualsiasi cittadino, abbiamo il dovere di pregare per quelli che ci governano, perché … Dio ce la mandi buona!
Don Marco Belladelli.
Giugno 2006
Maria, la Madre dei credenti.
Dalle nostre parti, secondo un’antica consuetudine, che pare abbia avuto origine proprio nella pianura padana, ogni sera del mese di Maggio ci si riunisce nelle chiese o davanti ad un capitello, oppure nei vari punti di ritrovo prefissati, sempre comunque davanti ad un’immagine della Madonna, per pregare insieme il rosario. La pratica si è poi diffusa in Italia e nel mondo. Anche se meno frequentata che in passato, perché la secolarizzazione non ha risparmiato neanche questa tradizione, essa resiste nel tempo. E sinceramente, credo che nelle nostre zone siano veramente pochi coloro che, almeno una volta nella loro vita, non abbiano partecipato a questi incontri di preghiera mariana. Il ricordo e insieme il rinnovarsi di questa usanza ci offre l’opportunità di fermarci a riflettere sull’importanza del culto a Maria, la Madre di Gesù, per i cristiani.
Non c’è zona d’Italia che non abbia il proprio santuario dedicato alla Madonna. Accanto a quelli più importanti, come possono essere il santuario delle Grazie, per noi Mantovani, o quello della Corona, per i Veronesi, o quello della Stella, caro a papa Paolo VI, per i Bresciani, si contano numerosissime altre chiese e chiesuole, sparse sul territorio, dedicate a Maria, a testimonianza di un culto molto sentito e profondamente radicato nel popolo. Non c’è chiesa parrocchiale che non abbia un altare speciale dedicato alla Madonna, dove ritroviamo numerosi ex voto per grazia ricevuta e davanti al quale ardono più candele votive, rispetto a qualsiasi altra immagine sacra, perché, nelle varie difficoltà della vita, la prima persona a cui si ricorre è sempre e prima di tutto Maria, Madre di Dio e Madre nostra.
Qualche anno fa, su Specchio, il magazine settimanale de La Stampa, in un articolo dedicato alla devozione mariana, si affermava che ogni giorno nel mondo si recitano circa due miliardi di Ave Maria. Non ricordo in base a che cosa fosse stata calcolata la cifra, ma ritengo, che se il mio fiuto non mi inganna, quel quantitativo sia oggi abbondantemente superato. Non è raro infatti incontrare persone, uomini e donne di ogni età, estrazione culturale e sociale, che portano al dito un rosario-giradito, cioè un anello, spesso d’oro o d’argento, sormontato da una piccola croce e circondato da dieci punti in rilievo, che servono per tenere il conto delle Ave Maria recitate di volta in volta, nella sequenza dei vari misteri. I grandi santuari nazionali ed internazionali sono meta continua ed ininterrotta per tutto il tempo dell’anno di milioni e milioni di persone, soprattutto da parte di noi Italiani. Citiamo i dati dei più noti: a Guadalupe in Messico si contano più di dodici milioni di presenze annuali; Lourdes, in Francia supera i sei milioni di pellegrini; Fatima, in Portogallo, raggiunge i quattro milioni. A queste mete classiche dei pellegrinaggi mariani, in questi ultimi anni si è aggiunto Medjugorie, un piccolo paese dell’Erzegovina di poco più di mille abitanti, a venti chilometri da Monstar (oggi territorio della neonata repubblica di Bosnia e Erzegovina), dove da venticinque anni, a cominciare dal 24 giugno del 1981, la Madonna apparirebbe ai sei giovani veggenti, diventati ormai persone adulte, anche se la Chiesa non si è ancora ufficialmente pronunciata né a favore, né a sfavore della autenticità dei fatti che qui sono testimoniati.
Non posso dimenticare l’esemplarità rappresentata in tal senso dalla particolare devozione a Maria del compianto Giovanni Paolo II, a cominciare dalla grande “M” che campeggiava nel suo stemma episcopale, seguita dal motto: “Totus tuus”, sempre riferito alla Vergine, e la quotidiana trasmissione da parte della Radio Vaticana della preghiera del rosario recitato e guidato dal Papa stesso, ripresa e diffusa dalle varie radio locali di matrice cattolica nazionali e non.
Anche se nella vita di ciascuno le emozioni hanno la loro importanza, la grandezza di Maria per il cristiano non deriva da un eccesso di sentimentalismo spirituale, come se per far maggior presa sulle persone fosse preferibile ricorrere a ricatti di tipo affettivo, invece che dare risalto ad altri elementi più fondamentali del cristianesimo, ma meno seducenti, come per esempio il tema della croce. La Chiesa vede in Maria la nuova Eva , cioè Colei che, contrariamente a ciò che fece la progenitrice del genere umano, ha creduto a Dio, rendendo così possibile con il suo “Sì” che il Figlio di Dio si facesse uomo nella persona di Gesù di Nazaret, per riscattare l’umanità dalla schiavitù del peccato. La sua partecipazione alla redenzione del mondo non si limita al semplice atto generativo, ma si estende a tutto il mistero della missione terrena di Gesù. Per questo nel momento della crocifissione la sua maternità viene estesa da Gesù stesso a tutto il genere umano, quando le disse: “«Donna, ecco il tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco la tua madre!» (Gv 19,26-27)”. Il cristiano vede in Maria prima di tutto un modello di fede e di umiltà da imitare. In secondo luogo essa rappresenta la primizia, l’anticipazione e la garanzia della salvezza di tutti gli uomini. Per grazia di Dio, e soltanto per questo, tutti giungeremo là dove è arrivata Maria. Questa sua specialissima condizione di “prima creatura salvata in toto”, le consente di continuare ad esercitare per tutto il corso della storia la sua divina maternità verso ogni uomo, cioè di contribuire in modo concreto ed efficace ad orientare la vita di ciascuno verso il suo Figlio, Gesù, il salvatore del mondo. Ecco perché si ricorre a Lei in ogni circostanza e con insistenza, sempre sicuri di trovare ascolto e aiuto.
Forse non abbiamo più il tempo o magari ci manca il coraggio di pregare il rosario tutte le sere del mese di Maggio insieme agli altri, ma almeno ricordiamoci di snocciolare qualche Ave Maria in più ogni giorno. Un gesto semplice, umile e nascosto che farà bene al nostro cuore e a tutta l’umanità.
Don Marco Belladelli
Maggio 2006
Pasqua: festa di fede
Qualche giorno fa, visitando una delle più importanti librerie del centro di Roma, con mia sorpresa ho visto la prima enciclica di Papa Benedetto XVI, Deus caritas est, ancora esposta tra le novità, a due mesi di distanza dalla sua pubblicazione. Si tratta di un segno che prova sia il successo commerciale del testo pontificio, sia una insolita attenzione per la Chiesa e più in generale per la religione da parte del cosiddetto mondo laico. Negli anni successivi alla contestazione sessantottina la religione era stata relegata in una condizione di marginalità, mentre da un decennio a questa parte si avverte un cambiamento che le ha ridato spazio e rilevanza all’interno del dibattito culturale attuale.
Senza volerci addentrare in analisi troppo complesse, una delle cause che ha prodotto un tale cambiamento è la grande personalità di Papa Giovanni Paolo II, del quale in questi giorni ricorre il primo anniversario della morte. Basta ricordare come da ogni parte gli venga unanimemente riconosciuto l’importanza del suo personale apporto per la caduta del muro di Berlino, ritenuto uno degli avvenimenti dalle conseguenze geo-politiche più rilevanti di questo ultimo scorcio di storia contemporanea. Ciò che non si è riusciti ad ottenere in oltre quarant’anni di guerra fredda, si è realizzato con il contributo decisivo della persona e dell’azione del Papa polacco. Citiamo questo avvenimento come la cosa più appariscente di quello che è stata la grandezza del suo pontificato.
Un’altra ragione che ci ha fatto tornare a parlare di religione è l’inevitabile confronto con l’islam, a cui ci ha obbligati da una parte la quotidiana convivenza con un sempre maggior numero di persone immigrate dal mondo arabo e dall’altra le riflessioni sorte dopo l’attacco terroristico dell’11 Settembre 2001, a cui sono seguiti i conflitti contro l’Afghanistan e l’Iraq, finalizzati ad esportare in quei paesi con la forza governi democratici di tipo occidentale, come esempio per tutti gli altri stati di quella regione e non solo, in cui non si riconosce nessuna altra religione all’infuori dell’islam.
Come spesso succede, ciò che buttiamo fuori dalla porta, rientra dalla finestra. Così, il mondo occidentale, sicuro nella propria emancipazione culturale, che, in nome della propria laicità, aveva già deciso di poter fare a meno di tutto quello che riguarda la Chiesa e la religione, si vede costretto a ricercare le radici e l’essenza della propria identità, e torna ad interrogarsi su Dio, sulla sua esistenza, su tutte le conseguenze che derivano dalla relativa risposta affermativa o negativa a questa domanda e sulla propria storia cristiana da duemila anni a questa parte. A questo punto però non è facile uscire dalle fitte nebbie disorientanti in cui ci troviamo, dopo tanto tempo di disinteresse e di sufficienza. Vengono in mente a tal proposito le parole dell’allora Cardinal Razinger, quando un anno fa, prima di entrare in conclave, parlava di come in questi ultimi decenni ci si è lasciati trasportare qua e là da qualsiasi vento di dottrina: “La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde - gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo ad un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così via”.
Se volete la prova provata di quel che sto dicendo, chiedete ad un/una giovane tra i venti e i trent’anni, partecipe delle attività delle nostre parrocchie o delle associazioni cristiane di volontariato, luoghi in cui, nonostante l’edonismo dilagante sponsorizzato al di là di ogni decenza dai mass media, si continua a testimoniare che l’uomo di oggi, come quello di ieri, non può vivere di solo pane quotidiano: “Che cosa significa credere? o Qual è la caratteristica specifica del Cristianesimo?” e vi troverete di fronte alle quelle che ancora il Cardinal Ratzinger definiva “peripezie di fanciulli sballottati dalle onde”, toccando con mano la difficoltà di dare ragione della propria fede.
Sempre nella stessa omelia del 18 Aprile dello scorso anno, il futuro Benedetto XVI diceva: “Noi, invece, abbiamo un’altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo. É lui la misura del vero umanesimo. “Adulta” non è una fede che segue le onde della moda e l’ultima novità; adulta e matura è una fede profondamente radicata nell’amicizia con Cristo. É questa amicizia che ci apre a tutto ciò che è buono e ci dona il criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità. Questa fede adulta dobbiamo maturare, a questa fede dobbiamo guidare il gregge di Cristo. Ed è questa fede - solo la fede - che crea unità e si realizza nella carità”.
La Pasqua è per eccellenza la festa della fede cristiana. Contrariamente al Natale, essa non può essere addomesticata o assimilata a nessuna altro significato o valore semplicemente umano. Neanche il ciclo del risveglio primaverile, costretto dentro il determinismo proprio della natura e per questo incapace di riscatto dall’inesorabile potere della morte, non ha nulla a che vedere con quanto ci viene annunciato e offerto nella risurrezione del Cristo: un amore esagerato e una vita che dura per sempre! Per questo non c’è occasione più propizia della Pasqua per consolidare le ragioni del proprio credere. Nel confronto con il Figlio di Dio, troviamo la misura del “vero Dio” e del “vero uomo”. Quale Dio può essere così vicino all’uomo, fino a “volgersi contro se stesso” nella morte in croce, “amore, questo, nella sua forma più radicale”? (cfr. Deus caritas est n.12). E quale amicizia ci può aprire a ciò che è autenticamente buono e vero, più di quella di Colui che ha vissuto la nostra stessa vita, senza per questo ribellarsi a Dio, ed è arrivato ad amarci fino al punto da sacrificare se stesso in vece nostra? Cristo è davvero risorto, alleluia! Buona Pasqua!
Don Marco Belladelli
Aprile 2006
Solo l’Amore salva il mondo!
Papa Benedetto XVI nella la sua prima enciclica, “Deus caritas est”, ha indicato alla Chiesa e al mondo intero che Dio è l’unica vera e inesauribile sorgente dell’amore, bene tanto fondamentale per la vita di ciascun uomo, come l’aria che respiriamo e l’acqua che ci disseta. Ha ribadito questa sua intenzione anche nell’Angelus di Domenica scorsa (19/02):
“… con la prima Enciclica Deus caritas est, ho inteso additare ai credenti e al mondo intero Dio come fonte di autentico amore. Solo l’amore di Dio può rinnovare il cuore dell’uomo, e solo se guarisce nel cuore l’umanità paralizzata può rialzarsi e camminare. L’amore di Dio è la vera forza che rinnova il mondo.”
Un tema, quello dell’Amore, quanto mai centrale per il nostro tempo e per la cultura che esso esprime. Un esempio su tutti: qualche anno fa, Zucchero, noto cantautore di fama internazionale cantava: “Ho bisogno d'amore "perdio"/ Di una donna, di un uomo e di un cane/ E dell'amore di Dio/ C'è bisogno d'amore sai zio/ Da tutto quanto il mondo”. La canzone s’intitolava “Overdose d'amore”, e in essa l’artista si faceva interprete del grande bisogno di amore che c’è oggi nel mondo, esigenza che può essere soddisfatta soltanto da Dio e dall’incontro con Lui.
Forse non tutti sanno che cos’è un’enciclica e a che cosa serve. Proviamo a dirlo in modo semplice e sintetico. Oltre a predicare il Vangelo e a celebrare i sacramenti, i Vescovi hanno il compito di governare la Chiesa e di insegnare. Quest’ultima attività è chiamata Magistero. Per mezzo di esso la Parola di Dio (più in generale il contenuto e il significato della divina Rivelazione) viene interpretata autorevolmente, offrendo conseguentemente ai fedeli indicazioni e direttive per come orientare la propria vita nel senso della fede cristiana. La lettera enciclica, (letteralmente: circolare), è uno degli strumenti con cui il Romano Pontefice esercita il proprio Magistero verso la Chiesa e il mondo. Si tratta quindi di un documento per mezzo del quale si rivolge in modo solenne ed autorevole ai Cristiani e a tutti gli uomini del suo tempo e si affrontano questioni dottrinali, morali, sociali, culturali o altri temi sempre comunque di attualità e molto rilevanti. La prima enciclica di un pontificato è poi importante soprattutto per il suo particolare valore programmatico. In essa infatti il nuovo Pontefice esprime il suo punto di vista sul momento storico presente ed indica le priorità e, più in generale, gli indirizzi verso cui intende orientare il cammino della Chiesa.
Nel nostro caso, il punto di partenza della riflessione del Santo Padre è un versetto della 1° lettera di S. Giovanni apostolo: “Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1Gv 4,6), in cui egli vede espresso “con singolare chiarezza il centro della fede cristiana: l'immagine cristiana di Dio e anche la conseguente immagine dell'uomo e del suo cammino”. Insomma una vera e propria “formula sintetica dell'esistenza cristiana”. Il fine invece è quello di “suscitare nel mondo un rinnovato dinamismo di impegno nella risposta umana all'amore divino.”
L’enciclica si sviluppa in due grandi parti. Nella prima, in un linguaggio a tutti accessibile, troviamo una profonda e complessa riflessione di carattere teologico e filosofico sull’amore nelle sue diverse dimensioni di eros, filia, agape, nella quale il Papa dimostra:
1. che esse sono un unico movimento, originate da un’unica fonte, la bontà del Dio Creatore;
2. come questo Amore divino sia sempre intrinsecamente legato all’amore umano.
Nella seconda parte si parla di come per mezzo del sacrificio di Cristo, l’amore umano si trasformi in agape, cioè amore misericordioso per il prossimo, che nel corso della storia ha trovato una sua concreta espressione nella carità dei singoli cristiani e delle varie organizzazioni ecclesiali come risposta alle varie forme di miseria e povertà umane. La differenza tra questo amore e un generico sentire solidale o una mera forma di assistenza sociale, sta nel fatto che per mezzo di esso viene comunicato e diffuso nel mondo l’Amore stesso di Dio, che i cristiani per primi hanno conosciuto, sperimentato e ricevuto per sé. Infatti come conclusione del suo argomentare Papa Benedetto XVI afferma: “Vivere l'amore e in questo modo far entrare la luce di Dio nel mondo, ecco ciò a cui vorrei invitare con la presente Enciclica.” (n.39).
Ad undici anni di distanza dall’accorato appello di Giovanni Paolo II a favore della vita, in quella che secondo me è stata la sua più grande enciclica, l’Evangelium vitae, oggi è Papa Ratzinger ad interpellarci nel modo più solenne e autorevole possibile, perché facciamo della nostra vita un’avventura di amore per noi stessi e per chi ci sta accanto. Il mondo si è prostrato davanti all’astratto e tirannico feticcio del mercato globale, dove il criterio della competizione economica si è insinuato perfino dentro le relazioni sociali, tanto da corrompere e disgregare anche i rapporti interpersonali più fondamentali per l’uomo. La conseguenza di questa massificazione consumistica è la dittatura del relativismo, che costringe l’umanità ad abusare della realtà dell’Amore, fino a sciuparla in un eros egoistico, da cui cogliere qualche momentanea emozione di piacere, derivata dalla ripetitiva e sfrenata pratica edonistica, che indurisce sempre più i cuori umani. L’unica novità veramente rivoluzionaria e capace di guarire il cuore di questa umanità paralizzata è il messaggio dell’AMORE cristiano! Questa è la sfida, già affrontata e brillantemente superata già in diverse occasioni nel corso dei duemila anni dell’era cristiana, che attende l’umanità del terzo millennio: vivere l’amore, viverlo alla maniera di Gesù Cristo, cioè come Lui ci ha insegnato nel Vangelo, viverlo in tutte le sue varie forme e dimensioni, perché la luce di Dio entri totalmente e pienamente nel mondo.
Cari amici, che avete la pazienza di leggermi, il paradiso terrestre sta davanti a noi, non dietro di noi. In esso c’è posto per tutti, e non soltanto per i nostri progenitori. Sentiamoci tutti arruolati per affrettarne la realizzazione.
Don Marco Belladelli
Marzo 2006
La Chiesa e l’epoca moderna
Il rapporto della Chiesa con l’epoca moderna è un tema molto complesso e di non facile sintesi. Dopo aver letto il discorso del Papa, Benedetto XVI, alla Curia romana in occasione degli auguri per le festività natalizie del Dicembre scorso, nel quale si sofferma a riflettere su questo argomento, provo anch’io a presentarlo nei suoi termini essenziali, nella speranza di farmi capire e di non creare confusione in chi mi legge. Se non ci riuscirò, mi scuso fin da ora.
Il concilio ecumenico è la riunione di tutti i Vescovi del mondo insieme ed comunione con in Papa, a cui si riconosce l’autorità di convocarlo e il diritto di presiederlo, che s’incontrano per trattare e definire questioni riguardanti la fede, la morale, la vita dei cristiani e degli uomini. Questa assise è la massima autorità riconosciuta nella Chiesa, può essere convocato soltanto dal Papa e non è prevista alcuna periodicità, tanto che nel corso dei duemila anni di storia cristiana ne sono stati celebrati 21. In genere prendono il nome dalla città in cui si sono svolti. Il primo che si ricorda è il concilio di Nicea del 325, a cui partecipò lo stesso imperatore Costantino, nel quale venne definito il Credo, cioè l’elenco delle verità fondamentali della divina rivelazione, i contenuti della fede che ogni cristiano è tenuto a ritenere come realtà salvifiche, quelle che si professano ogni domenica nella S. Messa. Un altro famoso e importante concilio che ha fatto storia è quello di Trento, convocato nella prima metà del XVI secolo nel tentativo di sanare la grave frattura creatasi all’interno della Chiesa e del mondo, a causa della riforma protestante di Lutero. L’ultimo dell’elenco è il Vaticano II, di cui L'8 Dicembre scorso Papa Benedetto XVI ha celebrato i quarant’ anni della conclusione. Il precedente, il Vaticano I, famoso per la definizione del dogma dell’infallibilità del Papa, era stato convocato da Poi IX nel 1870 e fu bruscamente interrotto per la presa di Roma da parte dell’esercito sabaudo il 20 Settembre dello stesso anno.
Un Concilio è un evento straordinario, a cui la Chiesa è ricorsa soprattutto nei passaggi più critici del proprio cammino storico. Tant’ è vero che quando Giovanni XXIII il 25 Gennaio del 1959 nella basilica romana di San Paolo fuori le mura ne annunciò pubblicamente la prossima convocazione, tutti i presenti colti di sorpresa rimasero ammutoliti, allora il Papa si fermò e rilesse una seconda volta quel passaggio del suo discorso, per confermare che non si era trattato di un errore, ma che quella era la sua inequivocabile volontà. La sua indizione fu accolta con grande entusiasmo. Ci si aspettava grandi novità e cambiamenti, sia per la Chiesa che per il mondo. Papa Giovanni pensava ad un concilio “pastorale”, nel senso che, rispettando l’ immutabilità della dottrina, era urgente trovare modi e forme adeguati per annunciare il Vangelo all’uomo moderno. Secondo lui si trattava semplicemente di accantonare certe incoerenze erronee e superflue che impedivano, e ancora impediscono, al Vangelo di risplendere in tutta la sua grandezza e purezza nel cuore e nella mente dell’uomo di oggi. Paolo VI, che ne ereditò la conduzione, davanti al fenomeno dilagante della secolarizzazione e al tentativo della cultura moderna di relegare sempre più la religione nella sfera del privato, fino a rendere l’ipotesi “DIO” qualcosa di superfluo per una umanità, che si reputa ormai adulta ed emancipata da qualsiasi tipo di sudditanza soprannaturale, ritenne necessario interrogarsi e riflettere in modo approfondito sul rapporto esistente tra la fede cristiana e l’uomo contemporaneo, tra la Chiesa e il mondo di oggi. A quarant’anni di distanza è lecito chiedersi: qual è stato il risultato del Concilio Vaticano II?
Chi si aspettava un’apertura verso il mondo, intesa come una piena e totale armonizzazione con tutto quello che oggi è rappresentato e significato con il termine di “modernità”, assumendone acriticamente anche le contraddizioni, le ambiguità, gli errori, le fragilità e le assurdità evidenziatesi soprattutto nel secolo che si è da poco concluso, in particolare negli ultimi decenni, è rimasto fortemente deluso. Non era certo compito del Concilio abolire quella inconciliabile ed irriducibile contrapposizione, già evidenziata da Gesù nel Vangelo, tra le esigenze del Regno di Dio e il mondo, incapace di offrire all’uomo un qualsiasi orizzonte di salvezza.
Per quanto riguarda invece il conflitto esistente tra la fede cristiana da una parte e la ragione umana dall’altra, iniziato nel XVI secolo, proseguito nei secoli successivi secondo modalità sempre più negative, e condotto avanti con scontri altrettanto aspri, attraverso scomuniche e atti di intolleranza, dobbiamo riconoscere che proprio per merito del Concilio Vaticano II si è incanalato dentro le ragioni del dialogo. Mi riferisco soprattutto a tre ambiti particolarmente problematici, che ancora oggi ostacolano fortemente l’incontro della Chiesa con la “modernità”. Essi sono: i rapporti tra la fede e le scienze moderne, tra la Chiesa e lo Stato moderno e tra il Cristianesimo e le altre religioni. I testi conciliari tracciano la direzione entro cui questo dialogo si deve sviluppare. Il cammino di rinnovamento iniziato dalla Chiesa con il Concilio Vaticano II, rappresenta concretamente il percorso attraverso cui essa potrà offrire la sua opera di discernimento degli spiriti, che il mondo attende da essa e di cui ha estremamente bisogno, come l’aria che si respira, per orientare la storia umana verso un orizzonte di salvezza.
Don Marco Belladelli
Febbraio 2006
Meno bugie e più Pace!
Nel 1968, per volontà dell’allora pontefice Paolo VI, il primo gennaio è diventato anche GIORNATA MONDIALE DELLA PACE. La seconda guerra mondiale si era conclusa da ventitre anni, eppure c’era un posto nel mondo in cui la guerra continuava ancora. Quella regione era il Vietnam, dove le due superpotenze del tempo, America e Russia, uscite insieme vincitrici dalla lotta contro il nazismo, avevano trovato ragioni sufficienti per scontrarsi fuori dai loro confini, per affermare l’una contro l’altra la propria egemonia sul mondo. Sono passati trentasette anni e il quadro geo-politico è notevolmente cambiato, ma la pace resta ancora un miraggio lontano per l’umanità. Non c’è continente in cui non ci siano focolai di guerra più o meno intensi. Anche la vecchia Europa ormai non è più immune da questa piaga. Basti pensare a quello che è successo nella ex Jugoslavia, dove a dieci anni dagli accordi che portarono alla costituzione della Repubblica della Bosnia-Erzegovina, il compromesso politico/diplomatico allora raggiunto, regge soltanto per la vigilanza armata delle forze della NATO. Che dire poi dell’Asia? Iraq, Afganistan, Palestina, tanto per nominare le situazioni più note e che ancora occupano quotidianamente le pagine dei giornali. Sarebbe troppo lungo elencare tutti gli altri conflitti aperti in Asia, in Africa e in America latina. Per non parlare poi del terrorismo internazionale e di tutti gli altri generi di tensione di carattere socio-politico ed economico, anch’essi causa di violenze e di scontri armati.
Da quel lontano 1968, fino ad oggi, il messaggio del Papa in occasione della giornata mondale della pace è sempre stato al centro dell’attenzione dei vari osservatori, non solo per l’alto valore morale che si riconosce alla parola del romano Pontefice, ma per l’importanza attribuita alle posizioni della Santa Sede, soprattutto dopo il provvidenziale intervento di Papa Giovanni XXIII, in occasione della famosa crisi di Cuba nei primi anni sessanta, sia dall’opinione pubblica, sia dalle varie cancellerie dei governi.
Anche Papa Benedetto XVI, in continuità con i suoi predecessori, l’8 Dicembre scorso ha pubblicato il suo primo messaggio per la giornata mondiale della pace 2006, scegliendo come tema “NELLA VERITà, LA PACE”, da cui si evince che secondo lui il complesso problema della pace mondiale, è strettamente collegato a quello della verità. Leggendo il testo, ciò che mi ha colpito è il fatto che prima di rivolgersi ai potenti del mondo, a cui dedica la parte finale del messaggio, egli sceglie come suo primo e fondamentale interlocutore la coscienza di ogni uomo e di ogni donna:
“L'autentica ricerca della pace deve partire dalla consapevolezza che il problema della verità e della menzogna riguarda ogni uomo e ogni donna, e risulta essere decisivo per un futuro pacifico del nostro pianeta.” (n. 5).
Continua dicendo che sono delle semplici verità a rendere possibile la pace, quali per esempio quella di non inquinare i rapporti interpersonali con la falsità e la menzogna, oppure quella di considerare tutti gli uomini come appartenenti ad un'unica famiglia e anche accomunati da un unico destino(n. 6).
Confesso che ho dovuto rileggere questo passaggio più volte, prima di arrendermi al fatto che il Papa dicesse cose così semplici, da sembrare addirittura ovvie e banali, sulle quali non si può non essere d’accordo. Chi può dissentire dal fatto che non bisogna dire le bugie, che gli uomini sono tutti uguali e che tutti hanno uno stesso destino? Ma è mai possibile che la pace dipenda da queste verità tanto semplici e tanto ovvie? E’ come dire che i complicati calcoli che fanno i grandi ingegneri per far stare in piedi le loro ardite strutture funzionano, perché tutti siamo d’accordo che 2+2 fa 4. E’ triste riconoscerlo, ma purtroppo nella convivenza umana non c’è un accordo così marmoreo sulle semplici e fondamentali verità ricordateci dal Papa, come sul fatto che 2+2 fa 4. Quanto è difficile dirsi la verità l’un l’altro, chiamare le cose con il proprio nome e assumersi la responsabilità etica che il bene altrui dipende dalla mia volontà di conformarmi alla Verità, quella di ordine divino, e non al “così è se vi pare” di pirandelliana memoria.
Per rafforzare le ragioni sulle necessità di convenire tutti in modo ferreo su queste semplici verità, voglio ricordare quel criterio di vita, secondo cui tutto quello che insegniamo ai bambini, va bene anche per noi adulti. Allora fin che continueremo a dire ai nostri figli che non bisogna dire le bugie, perché è una cosa cattiva, c’è speranza di pace per il mondo. Sono certo che prima o poi anche noi torneremo a dire la verità, in modo semplice, diretto, senza ma e senza se, per la pace nostra e di chi ci sta accanto, perché come dice Gesù: “Chi non accoglie il regno di Dio (la Verità) come un bambino, non entrerà in esso”. Con l’augurio di un felice 2006, pieno di PACE per tutti!
Don Marco Belladelli.
Gennaio 2006
E’ nato per noi un Bambino!
Nei primi giorni di Novembre, Mantova è stata al centro delle cronache nazionali non soltanto per le imprese sportive della locale squadra di calcio, ma anche per il caso di un bambino con la sindrome di down, nato ad agosto presso l’ospedale cittadino e rifiutato dai genitori. Oltre ai giornali del posto, se ne sono occupati anche le reti televisive nazionali, con servizi, interviste e commenti. Però, se escludiamo il titolone in prima pagina con cui si è iniziato, tutto sommato le reazioni sono state abbastanza blande. La notizia è rimasta al centro dell’attenzione della stampa, giorno più, giorno meno, per circa una settimana. In questo breve lasso di tempo abbiamo letto i freddi comunicati dell’addetto stampa dell’ospedale, infarciti dagli spunti di cronaca del giornalista, incaricato di seguire la vicenda, e le immancabili reazioni di solidarietà di chi sta dalla parte del bambino e chi dalla parte dei genitori. Ho trovato invece molto interessante ed opportuno l’ intervento di una responsabile dell’Associazione italiana persone down. C’è stato poi anche chi si è fatto promotore di generose collette e chi si è dichiarato pronto all’adozione.
Il fatto mi ha portato alla memoria i diversi casi di bambini, sia down che abbandonati dai genitori alla nascita, di cui ho avuto esperienza diretta negli oltre dieci anni di ministero in un ospedale romano. Si sono rivelate essere situazioni umanamente così rilevanti e toccanti, tanto che alla fine tutti noi operatori siamo stati riconoscenti a questi bambini, perché la loro prolungata permanenza, vuoi per le cure di cui avevano bisogno, vuoi per i tempi tecnici necessari per l’adozione, aveva contribuito ad umanizzare l’ambiente ospedaliero più dei tanti corsi e progetti formativi promossi in tal senso dall’amministrazione. In particolare ricordo volentieri un’esperienza su tutte, che mi ha molto coinvolto e colpito, allorché mi sono trovato a dover accompagnare e sostenere spiritualmente una Mamma, che aveva deciso di portare a termine la gravidanza del suo secondogenito, portatore della sindrome di down. Tra le tante ansie e paure che mi confidava, c’era anche la preoccupazione per come avrebbe reagito il suo primogenito, un maschietto di quattro/cinque anni, nel momento in cui si fosse reso conto dei problemi del fratello. Quando la incontrai di nuovo qualche mese dopo, in occasione del Battesimo a cui ero stato invitato, mi trovai di fronte una donna felice, non soltanto per la gioia della maternità e la soddisfazione morale di aver portato a termine la gravidanza, ma soprattutto, come poi mi confidò, per lo straordinario legame di affetto che si era subito stabilito tra i due fratellini, tanto che era proprio il suo primogenito, che con sorprendente semplicità le insegnava a vivere la situazione con la più assoluta normalità.
Davanti a questo fatto di cronaca e a tutte le altre situazioni che esso evoca nella nostra mente, nella prossimità della festa del Natale, ho pensato che fosse buona cosa dedicare questo spazio per soffermarci a riflettere sul significato della presenza dei bambini in mezzo a noi, per accogliere la specifica missione che essi hanno da compiere nei confronti di noi adulti. Chi rimane insensibile o distratto davanti al sorriso di un bambino? Chi, quando incontra un bambino, non sente dentro di sé un moto nel proprio animo, che ti fa sentire quasi naturalmente buono, generoso, disinteressato, comprensivo, e ti dispone a quel senso di protezione verso la sua fragilità per prevenire bisogni ed esigenze? Chi non si sente come disarmato davanti alla sorprendente semplicità con cui affrontano la vita? Non è forse vero che per un bambino in difficoltà saremmo pronti a dare tutto per il suo bene, anche la vita, se fosse necessario? I bambini hanno la forza di scombinare i paradigmi con i quali coniughiamo abitualmente la nostra vita: il dare e l’avere, il diritto e il dovere, per far spazio dentro di noi a quello dell’amore, un amore tenero, fatto della gioia semplice per la presenza dell’altro e della purezza del dono reciproco. Essi infatti sono capaci di risvegliare in noi adulti il sentimento della tenerezza, sentimento tanto importante, perché costituisce la premessa per il vero amore, quello che ti rende capace di sacrificarti per l’altro, fino all’eroismo se fosse necessario. Questa è la grande missione che i bambini hanno da compiere nei confronti del nostro mondo: quella di smascherare le nostre ipocrite finzioni, di ricollegarci alle vere dimensioni della nostra umanità, per sorprenderci tanto bisognosi di amore e nello stesso tempo altrettanto capaci di amore. Se ci lasciassimo trasformare da questa missione di amore che i bambini compiono nei nostri confronti, il mondo tornerebbe ad essere il paradiso terrestre.
Concludo con un pensiero tratto dall’ enciclica Evangelium Vitae, del grande Papa, Giovanni Paolo II, dove diceva:
“All'aurora della salvezza, è la nascita di un bambino che viene proclamata come lieta notizia: «Vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore» (Lc 2, 10-11). A sprigionare questa «grande gioia» è certamente la nascita del Salvatore; ma nel Natale è svelato anche il senso pieno di ogni nascita umana, e la gioia messianica appare così fondamento e compimento della gioia per ogni bimbo che nasce (cf. Gv 16, 21).” (EV 1).
Dunque, in ogni bambino che nasce, chiunque sia e dovunque nasca, si rinnova il mistero del Natale di Gesù e quella stessa gioia che a Betlemme ha riempito il cuore sia degli angeli che degli uomini, perché la salvezza divina viene di nuovo offerta a tutti. Benvenuti allora a tutti i Gesù Bambini del mondo, di oggi e di domani, e beati coloro che sapranno accoglierli, come il più grande dono della vita. Buon Natale e felice Anno nuovo a tutti!
Don Marco Belladelli.
Dicembre 2005
La sfida della vita
In questi giorni i mass media hanno dato ampio risalto all’ultimo romanzo dello scrittore francese Michel Houellebecq, La possibilità di un isola, uscito poco più di un mese fa anche in Italia, edito da Bompiani. Numerosi i servizi su magazine, riviste e settimanali e le interviste sulle varie reti televisive, come se si trattasse del caso letterario dell’anno. Tanta attenzione prima di tutto si è rivelata un’ottima strategia pubblicitaria, visto che il libro in poco tempo è entrato tra i primi dieci più venduti. Per quanto riguarda la valutazione dei lettori, i pareri sono molto contrastanti, se non addirittura contradditori. Qualcuno lo definisce un testo provocatorio ed ironico, qualcun altro invece patetico e deprimente.
Ciò che mi interessa non è tanto l’aspetto letterario, quanto il contenuto trattato. Il romanzo è ambientato in un futuro inquietante e racconta la storia di due misteriosi personaggi, Daniel24 e Daniel25, due uomini clonati, che in cambio di una eternità bio-tecnologica, hanno perso la capacità di ridere, di piangere e di provare emozioni autentiche. Essi trovano il diario del loro "originale", Daniel1, vissuto più o meno ai nostri giorni. La sua lettura commuoverà Daniel25, il quale, dopo aver conosciuto la sofferenza del vivere del suo antenato, distruggerà il suo sogno d'immortalità. Il tema è la ricerca del senso della vita, di fronte al disagio che viene dall’esperienza dei suoi limiti naturali: invecchiamento, malattia e morte, i quali non giungono mai da soli a turbare la nostra serenità, ma sempre accompagnati da un lungo corteo di altre limitazioni, le cui conseguenze risultano altrettanto condizionanti ed angoscianti. A livello soggettivo assumono la dimensione e la forma delle domande esistenziali, sempre fonte di inaudita sofferenza nell’animo umano. Per Houellebecq la vita è un problema insolubile e, dopo la giovinezza, c’è solo dolore. La solidarietà tra le generazioni è giudicata come un sacrificio crudele e prolungato, a beneficio unicamente di chi è chiamato a sostituirci, privo di ogni consolazione, conforto e compensazione materiale o affettiva. La terza e la quarta età sono descritte come condizioni vergognose, dove ogni gioia sarebbe stata spietatamente bandita. Respinti dai giovani, gli anziani sarebbero votati al ridicolo e all’obbrobrio. Si arriva fino ad affermare che gli uomini e le donne sono delle brutte copie delle scimmie. Meglio circondarsi della compagnia dei cani.
Mentre riflettevo su ciò che scrive il nostro autore francese, mi sono ricordato dell’esempio di amore alla vita per i moribondi di Madre Teresa di Calcutta, così meravigliosamente sintetizzata nella sua famosa preghiera: “La vita è un’opportunità, coglila. La vita è bellezza, ammirala. La vita è beatitudine, assaporala. La vita è un sogno, fanne una realtà. La vita è una sfida, affrontala. La vita è un dovere, compilo. La vita è un gioco, giocalo. La vita è preziosa, conservala. La vita è una ricchezza, non sciuparla. La vita è amore, godine. La vita è un mistero, scoprilo. La vita è promessa, adempila. La vita è tristezza, superala. La vita è un inno, cantalo. La vita è una lotta, vivila. La vita è una gioia, gustala. La vita è una croce, abbracciala. La vita è un’avventura, rischiala. La vita è pace, costruiscila. La vita è felicità, meritala. La vita è vita, difendila.” Mi sono ricordato dei milioni di persone di tutte le età, condizione sociale, nazionalità e religione, che si sono sentite attratte dal grande vecchio, Giovanni Paolo II, e hanno voluto essergli accanto nella sua agonia e nel momento della sua morte. Mi sono ricordato anche di quei corpi umiliati dalla sofferenza, che ogni anno incontro a Lourdes, con il volto sorridente e lo sguardo pieno di speranza e di gratitudine, fino a farti vergognare dell’egoismo di cui ti senti pieno. Mi sono ricordato delle manifestazioni di affetto di tanti giovani che ogni giorno vengono in Ospedale a far visita ai loro nonni, e delle lacrime sui loro visi nel momento della morte.
Rispetto ai vicoli ciechi verso cui vorrebbe guidarci Houellebecq, per il quale l’unica soluzione all’angoscia del vivere viene dalle biotecnologie e dall’oblio di tutto ciò che è autenticamente umano, a cominciare dalle emozioni, giù, giù, fino alla negazione di ogni espressione e manifestazione della soggettività, mi viene spontaneo evocare l’accorato appello con cui Giovanni Paolo II dieci anni fa chiamava a raccolta tutti gli uomini di buona volontà in difesa della vita umana, ultima e decisiva frontiera, oltre la quale non c’è più possibilità di giustizia, sviluppo, libertà e pace per l’umanità: “La presente Enciclica , frutto della collaborazione dell'Episcopato di ogni Paese del mondo, vuole essere dunque una riaffermazione precisa e ferma del valore della vita umana e della sua inviolabilità, ed insieme un appassionato appello rivolto a tutti e a ciascuno, in nome di Dio: rispetta, difendi, ama e servi la vita, ogni vita umana! Solo su questa strada troverai giustizia, sviluppo, libertà vera, pace e felicità!.” (Evangelium vitae n. 5).
E’ sciocco fare la guerra tra progressisti e retrogradi, perché la scienza nessuno la può fermare. Di fronte ai nuovi orizzonti che essa ci apre, sarà il senso di civiltà, cioè il comune amor proprio, positivamente inteso e così profondamente radicato nell’uomo, a farci capire ed accogliere tutto ciò che è veramente a favore della vita, e a rigettare ciò che gli è contro. E sempre facendo riferimento a questo criterio scopriremo il valore che si dà alla vita nella nostra società, valutando come ci si rapporta e ci si comporta davanti alle condizioni più fragili e indifese, soprattutto nella fase della senescenza, quando tutta la realtà umana viene gradualmente e inesorabilmente segnata dalla mortificazione e dal senso della perdita. Il prolungarsi dell’aspettativa di vita e l’impegno per migliorare la qualità di esistenza degli anziani, non vuol essere l’inseguimento della falsa chimera dell’eterna giovinezza, con l’illusione di aver ingannato la morte. Il protrarsi della vita rappresenta invece una straordinaria opportunità per entrare gradualmente e più profondamente in sintonia con la dimensione di eternità, iscritta da Dio stesso nel cuore umano (cfr Qoèlet 3,11). Senza questa speranza, non ci rimane che la triste prospettiva dei cloni di Houellebecq, e non molto di più.
Don Marco Belladelli.
Novembre 2005
Frère Roger Schutz
Martedì 16 Agosto, a Taizè, in Francia, presso la Comunità ecumenica di cui era il fondatore, durante la preghiera della sera nella chiesa della Riconciliazione, è morto assassinato frère Roger Schutz, aggredito da una squilibrata, ospite della stessa Comunità. Su internet, in un forum per giovani ho trovato questa testimonianza: “So di essere stato a Taize' perché me l'hanno detto i miei, io avevo due-tre anni e mi pare di non ricordarmi nulla di quella visita. Non ci sono piu' tornato, forse non mi sarei nemmeno trovato a mio agio nella Taize' degli ultimi anni, ma in qualche modo ho sempre percepito qualcosa di familiare in quell' esperienza, che ricorreva in alcuni discorsi dei miei genitori ed in molti posti in cui sono stato da adulto. La morte di Frère Roger mi ha quindi colpito non solo per il modo tragico in cui si e' verificata e per l'importanza dell' esperienza di Taize', ma anche perche' ho l'impressione che sia scomparsa una persona in qualche modo vicina.” Così scriveva Marco il 17 agosto scorso. Questi pensieri mi hanno convinto che valesse la pena parlare in questo spazio mensile di Frère Roger Schutz, per farlo conoscere al grande pubblico, perché credo che per la maggioranza a tutt’oggi resti un illustre sconosciuto, e soprattutto perché, per come ha vissuto e per quello che ha fatto, è importante, come diceva il Marco del blog, che continui ad essere una persona vicina ad ogni uomo.
Roger Schutz era un pastore protestante proveniente dalla Svizzera tedesca. In gioventù aveva sofferto di tubercolosi polmonare. In quei duri momenti coltivò dentro di sé il desiderio di creare una comunità caratterizzata dalla semplicità e dalla benevolenza del cuore, doni che ci vengono dalla assidua frequentazione del Vangelo di Gesù. Sembrava la solita utopia adolescenziale, senza concrete prospettive, come tanti sogni della nostra giovinezza. Ma lo scoppio del secondo conflitto mondiale diventa l’occasione per riprendere in mano quel progetto, non come una irenica fuga dal mondo, ma come una risposta alla sciagura della guerra che devastava tutta l’Europa. Nel 1940, invece di starsene buono, buono nella sua neutrale Svizzera, all’età di 25 anni, frère Roger si stabilisce in Francia, e precisamente a Taizè, nei pressi di Lione, dove comprò un vecchio stabile abbandonato, con annessi e connessi, per accogliere e dare rifugio a tutti gli sbandati della guerra, civili o militari che fossero, senza mai fare distinzione né di nazionalità, né di religione o di alcunché. Appena iniziato, chiamò in aiuto la sorella. Dopo due anni furono però scoperti e costretti ad abbandonare tutto. Vi ritornò nel ’44, questa volta insieme a tre fratelli per fondarvi una comunità monastica ecumenica, cioè formata da persone di diverse confessioni cristiane: protestanti, cattolici, anglicani e ortodossi.
A Taizè si prega e si vive del frutto del proprio lavoro. Il di più viene donato ai poveri. Un po’ di San Benedetto e un po’ di San Francesco, coniugati sapientemente insieme. La comunità vuole essere un invito alla riconciliazione universale, una concreta risposta alle divisioni tra i cristiani e alla separazione tra i popoli, causata ieri come oggi dalla violenza e dall’ingiustizia. Negli anni 50 la comunità si diffonde nelle regioni più povere dell’Asia, dell’Africa e dell’America latina, per fare proprie le difficili condizioni di vita delle popolazioni locali e nello stesso tempo essere segno dell’amore di Dio. Nel ’62 iniziarono pellegrinaggi verso l’Est europeo, per portare anche a quelle popolazioni, soprattutto ai giovani, costretti all’isolamento dai regimi totalitari, il messaggio di pace e di riconciliazione del Vangelo. Nel Natale del ’78 iniziarono gli incontri dei giovani europei. Dal 26 dicembre fino alla sera del 1 gennaio, ogni anno i Fratelli della Comunità danno appuntamento ai giovani in una grande città del nostro continente per rafforzare nella preghiera e nella riflessione lo spirito di fede e di amore proprio di Taizè, mettendolo alla prova nel confronto con le sfide a cui i tempi moderni ci costringono. Lo scorso anno a Parigi erano presenti in 80.000, la maggior parte provenivano dall’est europeo. Nonostante la morte di frère Roger, quest’anno l’incontro si terrà ugualmente, come previsto a Milano. Frère Roger, ormai novantenne, aveva già scelto il proprio successore, così Taizè continuerà la sua missione nella Chiesa e in tutto il mondo.
In tutti questi anni la Comunità è diventata la meta di milioni di giovani, e non solo. Si va a Taizè per condividere l’esperienza dei monaci: preghiera, meditazione della Parola, lavoro gratuito, incontro e scambio umano-spirituale con tanti altri fratelli provenienti da tutto il mondo, e per imparare a vivere la stessa realtà di riconciliazione e di amore nel proprio quotidiano. Il carisma specifico di Taizè è la fiducia per il futuro dell’umanità, che da essa si diffonde e che nasce dalla personale consapevolezza dell’importanza della propria vita interiore e della responsabilità per la pace e la felicità di tutte le persone a cui siamo legati. Concludo lasciando la parola a frère Roger. L’ascolto lo renderà vicino a tutti e permetterà di assaporare un po’ dello spirito di Taizè:
Pellegrini di Speranza…
“Il meglio della vita umana si costruisce con la fiducia. Si dirà, ci sono le prove che colpiscono tanti bisognosi, le difficoltà sociali, l’incerto avvenire dell’umanità… Per questo molti giovani si chiedono: c’è una speranza per il nostro futuro? La fiducia non porta a fuggire delle responsabilità, permette piuttosto di stare in piedi là dove le forze umane sono deboli e scosse; e fa andare avanti anche quando sopraggiunge il fallimento. La fiducia è rafforzata dall’incontro con persone che, sostenute da una vita di comunione in Dio, cercano di rendere la terra più abitabile. Infatti chi è in comunione con Dio è in comunione anche con gli uomini; è nella preghiera che si attingono indispensabili energie di bontà, compassione, solidarietà. A Taizè ci sono appunto dei giovani che hanno fiducia e la manifestano impegnandosi per curare le ferite dell’umanità. Con il dono di se stessi attestano che l’essere umano non è votato alla disperazione. Questa loro fiducia rende più bella la vita di quanti l’incontrano. Ci sono persone che con la loro semplice presenza fanno sorgere anche nelle situazioni più disperate, segni innegabili di speranza. E’ la nostra vita che rende credibile la speranza…
don Marco Belladelli.
Ottobre 2005
L’11 Settembre e
l’apocalisse imminente
Per ingannare il tempo nelle lunghe serate della mia estate romana, sono andato a vedere l’ultimo film di Steven Spielberg, La guerra dei mondi, annunciato come l’ennesimo colossal hollywoodiano da non perdere. Del resto il nome del regista è una garanzia. Ambientato ai nostri giorni, si immagina un invasione della terra da parte di alieni, venuti unicamente per sterminare il genere umano, seminando morte e distruzione in tutto il mondo, senza nessuna pietà. Veri e propri scenari apocalittici, che qualche anno fa ci avrebbero fatto sorridere e avremmo liquidato come le ultime trovate di una fantascienza catastrofistica, enfatizzata dall’uso esperto degli effetti speciali.
Se gli extraterrestri del XXI secolo di Spielberg, non hanno niente a che vedere con il dolce, buono ed irenico E.T. di più di venti anni fa, anche l’umanità de La guerra dei mondi è molto lontana da quella ingenuamente curiosa, ospitale e disponibile al dialogo e ad incontri ravvicinati con qualunque diversità presente nell’universo di quei tempi. Quella dei primi anni del terzo millennio è un umanità regredita, senza regole, imbarbarita nei costumi, vile ed egoista nell’animo. Soltanto l’emergenza vera, quale potrebbe essere uno scontro impari come quello rappresentato nel film, rompe la corazza dell’individualismo, appiana le differenze e affratella, fa riemergere dal profondo dello spirito umano i veri sentimenti e rende capaci di combattere per quei valori su cui si fonda la convivenza pacifica tra gli uomini e sono garanzia per il futuro dell’umanità. Sono rappresentazioni che oggi vanno ad innestarsi e ad amplificare quel diffuso senso di insicurezza, diffidenza e impotenza, di paura e di angoscia, il cui unico rimedio sembra essere la fuga da tutto e da tutti, già abbondantemente presente nel vissuto quotidiano della nostra società. Gli analisti dicono che questo sia l’effetto dell’11 Settembre 2001. Una data ormai storica, come lo fu il 12/10/1492, la scoperta dell’America, o il 14/07/1789, l’inizio della rivoluzione francese. Quando si parla di 11 Settembre, subito si pensa al terrorismo islamico, che abbiamo visto all’opera a New York, a Madrid, a Beslan e in questi ultimi mesi a Londra e a Sharm El Sheik. I responsabili di questi massacri, nelle loro rivendicazioni parlano di una vera e propria guerra santa dichiarata contro i crociati del terzo millennio, cioè il mondo occidentale e tutti i suoi alleati, colpevole dell’oppressione del mondo arabo. E, perché in guerra, si sentono giustificati e autorizzati a colpire in modo indiscriminato obiettivi civili, come le twin tower, i bambini di una scuola in una oscura città caucasica, le stazioni, i treni della metropolitana e gli autobus di Madrid e Londra, e gli alberghi dei turisti sul mar Rosso.
A sessanta anni dalla fine della seconda guerra mondiale, dopo lo sgretolamento dei regimi comunisti, mai avremmo pensato di trovarci a vivere tensioni che a livello mondiale lasciano intravedere il pericolo di uno scontro di civiltà, dalle conseguenze drammaticamente imprevedibili per il futuro dell’umanità. Chi la pensa così è la scrittrice Oriana Fallaci. Lo attestano i suoi libri, pubblicati dal 2001 in poi, “La rabbia e l’orgoglio”; “La forza della ragione”, “Oriana Fallaci intervista se stessa” e per finire, nell’autunno scorso “L’Apocalisse”, nel quale, rileggendo il testo biblico in questa ottica, nella famosa visione dei capitoli 12 e 13, in cui l’apostolo san Giovanni descrive la lotta dell’antico dragone, satana, che sorge dal mare insieme con l’orribile bestia a sette teste, sua alleata sulla terra, contro i figli di Dio, vi vede rappresentato l’Islam assassino di questi ultimi anni. Secondo lei siamo arrivati ad un vero e proprio scontro apocalittico, dove non è più possibile nessun altra soluzione, se non quella di annientare irriducibilmente il nemico: mors tua, vita mea. Basta leggere quanto ha scritto sul Corriere della sera il 16/07 scorso, dopo gli attentati di Londra, in un articolo dal titolo Il nemico che trattiamo da amico: “Ora mi chiedono: «Che cosa dice, che cosa ha da dire, su quello che è successo a Londra?». … E ogni volta scuoto la testa, mormoro a me stessa: cos'altro devo dire?!? Sono quattr'anni che dico. Che mi scaglio contro il Mostro deciso ad eliminarci fisicamente e insieme ai nostri corpi distruggere i nostri principii e i nostri valori. La nostra civiltà. Sono quattr'anni che parlo di nazismo islamico, di guerra all'Occidente, di culto della morte, di suicidio dell'Europa. … Quattr'anni che ripeto al vento la verità sul Mostro e sui complici del Mostro cioè sui collaborazionisti che in buona o cattiva fede gli spalancano le porte. Che come nell'Apocalisse dell'evangelista Giovanni si gettano ai suoi piedi e si lasciano imprimere il marchio della vergogna.” L’articolo di conclude così: “Ma non possiamo scappare o alzare bandiera bianca. Possiamo soltanto affrontare il mostro con onore, coraggio, e ricordare quel che Churchill disse agli inglesi quando scese in guerra contro il nazismo di Hitler. Disse: «Verseremo lacrime e sangue». Oh, sì: pure noi verseremo lacrime e sangue. Siamo in guerra: vogliamo mettercelo in testa, sì o no?!? E in guerra si piange, si muore. Punto e basta. Conclusi così anche quattro anni fa, su questo giornale.”.
La tentazione di darle ragione è forte. Le sue argomentazioni sono così stringenti, tanto da renderci incapaci di pensieri di pace. Non si tratta di non guardare in faccia la realtà. Di fronte al male, di fronte a tale cieca violenza, causa di morte e di sofferenza per tanti innocenti, il vero problema è quello di continuare a pensare a come possa il bene trionfare sul male ed agire di conseguenza, per costruire un mondo pacifico, in cui ci sia posto e rispetto per tutti. Per questo, c’è bisogno di ben altro! Come diceva poco più di un anno fa, l’allora cardinal Ratzinger al cimitero tedesco di La Cambe, commemorando i morti della II guerra mondiale: “Su queste tombe è nata la riconciliazione. I nemici di un tempo ora sono diventati amici e si stringono le mani lungo il cammino comune. … Guardando ora in retrospettiva al processo di riconciliazione reciproca e di solidarietà che è maturato gradualmente, esso ci appare come uno sviluppo logico che è stato richiesto e reso possibile formalmente dai nuovi assetti del mondo. Ma non ci può sfuggire che di per sé questa logica non è stata intesa in modo unitario e non si è attuata da sola. La storia ci mostra che troppo spesso si agisce contro ogni logica e contro la ragione. Il fatto che la politica della riconciliazione abbia trionfato è merito di tutta una generazione di uomini politici: ricordiamo i nomi di Adenauer, Schumann, De Gasperi, De Gaulle. Erano persone obiettive ed intelligenti, con un sano realismo politico: ma tale realismo era radicato nel saldo terreno dell’ Ethos cristiano, che essi riconoscevano come Ethos di ragione, Ethos di ragione affinata e chiarificata.”
A livello personale, sociale e politico anche oggi il processo di riconciliazione è l’unica via possibile che conduce l’umanità verso il Bene comune e la luce della Verità. Alternative possibili? O l’inarrestabile caduta verso una umanità regredita come nel film di Spielberg, oppure prepararsi per lo scontro apocalittico proposto dalla Fallaci.
Don Marco Belladelli.
(Settembre 2005)
Un viaggio fuori stagione con i Re Magi
Estate, tempo di viaggi. Quando ci si incontra la domanda di rito è: “Dove vai in ferie?” o “Dove sei stato?”. E ti senti elencare le località più disparate di tutto il pianeta, un vero e proprio ripasso della geografia imparata sui banchi di scuola.
Tra i milioni di italiani che si sposteranno per le loro vacanze, voglio fermare l’attenzione su quelle migliaia di giovani (ai primi di Luglio le iscrizioni hanno superato le 100.000 unità), che tra poco più di un mese andranno in Germania, per partecipare alla XX GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTù. Il momento culminante sarà nella settimana tra il 16 e il 21 Agosto a Colonia, quando arriverà anche Papa Benedetto XVI nella sua prima uscita internazionale, molto attesa da tutti, che per un strano scherzo del destino, è proprio lui ha giocare in casa. Le previsioni degli organizzatori parlano di cifre che, sia per il numero dei partecipanti, sia per le nazioni rappresentate, si avvicineranno a quelle di cinque anni fa, nella famosa adunata di Tor Vergata, a Roma, quando si è arrivati a circa due milioni di persone presenti.
Colonia è una delle città più importanti della Germania. La sua stupenda cattedrale, espressione tra le più alte dell’arte gotica, custodisce le reliquie dei Re Magi, trafugate nel 1164 dal famoso imperatore Federico Barbarossa (quello dei tempi di Alberto da Giussano e della Lega lombarda, quelli originali tanto per intenderci) da una chiesa di Milano, conquistata l’anno precedente.
A voi che avete la pazienza di leggermi, vorrei proporre un viaggio sui generis, perché oltre ai mezzi di trasporto sempre più veloci, che il progresso ci mette a disposizione, ci sono tanti modi per spostarsi. Ci sono i viaggi di fantasia, quando con la nostra mente inseguiamo mete più o meno reali, esotiche o a noi sconosciute, che riusciamo a raggiungere soltanto attraverso la nostra immaginazione. E poi ci sono i viaggi spirituali, cioè quando incontriamo persone o facciamo esperienze che ci aprono nuovi orizzonti, che sono la causa di decisioni e di scelte che ci hanno cambiato la vita. Il movimento e il cambiamento interiore precede sempre la determinazione di vivere in modo nuovo e diverso, rispetto alla normale routine.
I giovani della GMG di Colonia hanno scelto di rivivere il viaggio dei Re Magi. Questi misteriosi personaggi sono venuti dall’oriente, guidati da una stella, in cerca del Re dei Giudei, nato da poco tempo, “per adorarlo”. Proprio questo particolare atto di omaggio, offerto dai Re Magi a Gesù, rivela il vero significato del loro viaggio: la ricerca di Dio da parte dell’uomo. Una ricerca iniziata all’inizio della storia dell’umanità e mai completatasi in modo esaustivo, né per il credente, né per il non credente. Per il primo, Dio non si è mai conosciuto abbastanza, il suo mistero è inesauribile. Per il secondo rimane sempre il dubbio: “…E se fosse vero?”. La ricerca di Dio è sempre fondamentalmente anche ricerca dell’uomo e delle vere dimensioni del suo essere.
In questo periodo in cui dall’oriente vengono ben altri personaggi, con intenzioni che non hanno niente a che vedere con quelle dei pacifici Re Magi, e che seminano paura, terrore e morte in Europa e nel mondo, ci si interroga, sorpresi per ciò di cui è capace l’uomo contro i suoi stessi simili: fin dove si potrà arrivare? Domanda che prima di noi si è posto anche Primo Levi, reduce dai campi di sterminio nazisti, quando affermava: “Secondo me “Se questo è un uomo” è una denuncia contro i lager nazisti ma anche un avviso rivolto agli uomini civili perché prendano atto del serpeggiare nascosto nell’animo umano di atteggiamenti criminali (era stata la coltissima, la civilissima, la tecnologicamente avanzata Germania a commettere quello che ha commesso)”. Forse non abbiamo ancora colto tutta la portata di questo avvertimento.
Al di là di ogni forma patologica dell’esperienza religiosa, tutti coloro che hanno cercato Dio con sincerità di cuore, non sono mai diventati né terroristi, né fanatici, né tanto meno cittadini chiusi e insensibili alle vere esigenze di una convivenza pacifica tra tutti gli uomini e le donne che formano la nostra società, senza pregiudizi di nessun tipo. Pensate a Padre Pio, a Madre Teresa di Calcutta, a Gandhi, a Martin Luther King. Guardando al loro esempio e ripercorrendo il cammino di questi nuovi e veri Re Magi del nostro tempo, imboccheremo la strada giusta per diventare veri uomini.
Nella poesia che segue, un Autore del nostro tempo, di cui non sono riuscito a trovare il nome, ci ripropone, a modo suo, di rifare il viaggio dei Re Magi, se non per incontrare Dio, almeno per ritrovare la verità su noi stessi:
“Non erano fannulloni, allora;
avevano patria, casa e professione.
Non erano poveri allora;
avevano incenso, mirra e oro.
Non erano ciechi allora;
si lasciavano attrarre dalla stella.
Non erano cercatori di tesori allora
coloro che venivano dal lontano oriente.
Non erano politici allora
coloro che cercavano il nuovo re.
Non erano reporter allora
coloro che con la stella giunsero alla meta.
Non erano testimoni neutrali
coloro che si lasciarono riempire di gioia.
Non erano diplomatici
coloro che offrirono i loro doni.
Erano uomini, diventati uomini
davanti a un Dio diventato uomo.”
Con l’augurio a tutti i giovani che parteciperanno alla GMG di Colonia, perché ritornino più convinti del significato, del valore della loro umanità e di come spendersi a favore di una convivenza pacifica.
Don Marco Belladelli.
Agosto 2005
[1] Nel discorso tenuto da Papa Benedetto XVI a VR nell’ottobre scorso in occasione del 4° convegno nazionale della Chiesa Italiana, è detto chiaramente e a scanso di equivoci: “La risurrezione di Cristo è un fatto avvenuto nella storia, di cui gli Apostoli sono stati testimoni e non certo creatori.”.
[2] Dalla lettera enciclica di Giovanni Paolo II Evangelium Vitae, n. 65.
[3] Hans Jonas, Il diritto di morire, ed Il Melangolo, GE 1991, p. 16.
[4] Edizioni Il Melangolo, Recco (GE), 2000.