lunedì 1 novembre 2021

Il Vangelo della salute del 02/11/2021

Monumento funerario - Cattedrale di Gallipoli (LE).

Commemorazione di tutti i Defunti.

Chi crede nel Figlio ha la vita eterna;

io lo risusciterò nell'ultimo giorno.

Dal vangelo secondo Giovanni (6,37-40).

In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me; colui che viene a me, non lo respingerò, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell'ultimo giorno. Questa

infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell'ultimo giorno». Parola del Signore.

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La liturgia del 2 Novembre prevede tre schemi di letture, perché secondo tradizione oggi ogni sacerdote può celebrare tre S. Messe. Fanno parte del più ampio lezionario del rituale delle esequie. I tre brani evangelici sono uno di Giovanni, quello che ho riportato qui sopra, e due di Matteo, il testo delle Beatitudini, che abbiamo ascoltato ieri nella festa di Ognissanti, e la parabola del giudizio finale al cap. 25.

La “nera signora” con la falce in mano, che tanto ci spaventa, per San Francesco diventa “nostra sorella morte corporale”. Anche se costantemente bombardati dai media che quotidianamente ci propinano decine di omicidi, ai nostri giorni la morte è diventata una realtà drammatica, assolutamente inconciliabile con il sentire comune che persegue l’idea di una vita più lunga possibile e sempre prestante. A questo si aggiunga la quasi totale impreparazione dei preti davanti a questa realtà, molto spesso impacciati e timorosi nell’annuncio della Speranza cristiana e più propensi a dispensare umana consolazione, quando non si rivelano del tutto indifferenti al dolore di chi hanno davanti.

Cito alcuni esempi, tanto per dare un’idea ai miei 25 lettori a cosa mi riferisco. Durante un funerale il celebrante iniziò l’omelia dicendo: “La Chiesa non celebra la morte!”, quando davanti a sé aveva la bara di una giovane donna, sposa e madre, morta di cancro, e lì accanto il marito e i figli, poco più che adolescenti, prostrati nel dolore. In un’altra occasione, il defunto era un giovane di neanche trent’anni, e il celebrante, portandosi direttamente davanti ai banchi dove erano seduti i familiari, si è rivolto a loro invitandoli ad immaginare di trovarsi in montagna, davanti ad un bellissimo tramonto, …  Molto più recentemente invece, nel tentativo di colpire l’assemblea che a suo giudizio era composta da intellettuali, chi teneva l’omelia si è lanciato in una disquisizione filosofica-esistenziale, più adatta per una lectio magistralis, che per un’omelia esequiale … Molto spesso chi partecipa ad un funerale è costretto ad ascoltare maldestri voli pindarici, nel tentativo di esorcizzare la paura della morte. Sono soltanto alcuni esempi del disagio dei preti di fronte alla morte. Con la morte non si scherza e non si può improvvisare. E allora ci si rifugia nei soliti luoghi comuni, come per esempio il riproporre sempre lo stesso testo del libro della Sapienza: “Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, nessun tormento le toccherà … ” (3,1ss).

Era una Domenica mattina d’inizio primavera, quando il sole e l’aria frizzante di Roma sanno regalarti una giornata così tersa, che tutta la realtà ne sembra contagiata. Perfino nell’anima ti senti più luminoso e determinato, come se per incanto si fossero dissolti per sempre dubbi, incertezze e tutte quelle indeterminatezze che fanno apparire la vita sfuocata, confusa e pure caotica. Suona il telefono. Una chiamata. Scendo in reparto, dove incontro una signora matura, che assiste la mamma molto anziana, in coma, ricoverata nella notte per un ictus. La diagnosi parla di emorragia cerebrale senza molte speranze di recupero. La saluto e mi presento. Mi parla della madre, della sua religiosità e mi chiede di celebrare per lei i Sacramenti. La invito ad unirsi a me nella preghiera. Accetta, con malcelato disagio. Al termine, commossa si avvicina e mi ringrazia, dicendo: “Avevo tanta paura di questo momento! Lei mi è stato molto d’aiuto. Nessuno c’insegna più a vivere la morte dei nostri cari e la nostra morte”.

Alla morte bisogna prepararsi. E c’è tutta una vita per farlo. Non è necessario tenere un teschio sul comodino, o frequentare quotidianamente il cimitero. E’ sufficiente non fuggirla tutte le volte che incrocia la nostra strada, più o meno direttamente.

La perdita delle persone care crea un vuoto incolmabile che non di rado rimane tale per tutta la vita. Penso per esempio all’esperienza innaturale di genitori che perdono un figlio, oppure viceversa, un figlio che rimane orfano in tenera età. Ma nella morte è difficile fare delle graduatorie. Anche la perdita di una persona molto anziana, che dovrebbe sembrare la cosa più naturale del mondo, può trasformarsi in una tragedia.

Il dramma della morte ci coinvolge oltre ogni meccanismo di difesa ed anche oltre ogni speranza, fin quasi a trascinarci dentro l'abisso della perdizione. L’incontro-scontro con la morte mette in discussione tutta la nostra vita. Diventa un banco di prova per tutto ciò in cui crediamo, fede compresa. Da qui la domanda: perché tutto questo? Una domanda che interpella inevitabilmente la nostra fede, che deve fare i conti con l’insorgere quasi spontaneo del risentimento e della ribellione nei confronti di Dio, in quanto primo e ultimo responsabile impassibile di questo evento.

Del resto questa drammaticità angosciante non è altro che l’altra faccia della medaglia del nostro peccato, la sua conseguenza. Lo dice chiaramente San Paolo nella lettera ai Romani “a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte” (5,12). Nel dramma della morte noi sperimentiamo quello che Dio ha provato e prova davanti al nostro peccato. Ecco perché Dio si è immerso dentro la morte, attraverso la croce di suo Figlio, Gesù. Con nostra grande sorpresa, dentro questo abisso che sembra annullarci, incontreremo Colui che mai avremmo pensato di trovare in quel “non-luogo” della nostra perdizione, il nostro Creatore e Redentore. Questo è il paradosso per eccellenza della fede cristiana. Superato il risentimento per la perdita dei nostri cari, sarà importante fermarsi davanti al crocifisso e chiedersi perché Dio ha voluto morire in croce per salvarci?

Per la nostra società, impregnata e inebriata dal falso mito dell’eterna giovinezza, in sostituzione della Speranza eterna, la morte e il morire rimangono sempre e comunque un tragico dramma da rimuovere e allontanare il più possibile. Paradossalmente anche la crescente domanda di eutanasia è una conseguenza di questa mancanza di Speranza.

Nel tentativo di risolvere questo dramma, assolutamente inconciliabile con il resto della vita, si è fatta strada una concezione della morte come evento naturale, in sintonia con un certo diffuso naturalismo neopagano, secondo cui tutto ciò che è "naturale" è buono. Come se la vita di un uomo avesse lo stesso valore di una foglia che ingiallisce e cade per terra. Un tentativo paganeggiante e poco riuscito di riconciliarsi con la morte e di renderla più accettabile, o comunque di soffrirla di meno.

Gesù parla ripetutamente ai discepoli della propria morte, preparando se stesso e loro a questo evento. A un certo punto della sua vita decide di affrontarla senza tentennamenti, allo stesso modo come si affrontano le scelte, le decisioni e tutti gli altri avvenimenti importanti della propria esistenza: " Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme" (Lc 9,5 1). Come per Gesù, anche per noi cristiani la morte è un evento storico. Rientra nel numero di tutti quegli eventi attraverso i quali ciascuno di noi, di volta in volta, si auto definisce. Nella morte ciascuno determina se stesso in modo definitivo, come in nessun altro evento della propria vita. Soprattutto nel proprio rapporto e incontro con Dio. Ecco perché va vissuta il più possibile nella piena consapevolezza, preparandosi con responsabilità, come il momento più importante e decisivo della nostra stessa vita.

Forti di quella Speranza che non delude (Rm 5,5), affronteremo la “nera signora” senza paura. Essa allora diventerà “nostra sorella”, perché attraverso di essa superiamo definitivamente la precarietà della nostra condizione umana, per entrare pienamente in possesso della nostra dimensione divina ed eterna. 

Il ritrovarci in preghiera davanti alle tombe dei nostri cari ci aiuti a superare lapaura della morte e a fortificare la nostra Speranza.

L’eterno riposo dona loro, o Signore,

e splenda ad essi la luce perpetua.

Riposino in pace. Amen.

don Marco Belladelli

 

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